Ottaviano Augusto, che definiamo il primo imperatore romano, titolo non usato dagli antichi romani. |
Colui che traghettò la Repubblica romana verso l'Impero, Cesare Ottaviano Augusto, non era chiamato e non si definiva imperatore, ma principe. Il titolo onorifico di imperator si
attribuiva normalmente ai generali vittoriosi in guerra, mentre la
lex de imperio stabiliva il diritto di esercizio dell'imperium da parte di alcuni magistrati, cioè la facoltà di impartire ordini ai quali i destinatari non potevano sottrarsi.
D'altra parte, l'imperium non sottintendeva solo la facoltà di impartire ordini, ma anche la condizione di chi era sacro e santo. Il termine imperator è un titolo originariamente denso di significati religiosi e successivamente è stato conferito ai condottieri vittoriosi, poiché contiene in sé il riferimento all'imperium, un primato nell'ambito religioso, civile e militare.
Il Principato è stata la prima forma di governo dell'Impero romano, dall'avvento di Augusto fino a quello di Diocleziano che inaugurò il "Dominato" nel 285. Il principato instaurato nel 27 a.C. da Augusto segnò il passaggio dalla forma repubblicana a quella autocratica dell'Impero: senza abolire formalmente le istituzioni repubblicane, il principe (in latino princeps) assumeva la guida dello stato e ne costituiva il perno politico. Gradatamente, rafforzatosi l'assolutismo con i successivi imperatori della dinastia Giulio-Claudia e con i loro successori, il principato entrò in crisi alla fine della dinastia dei Severi, nel 235 d.C., e la successiva anarchia militare, durante la crisi del III secolo, condusse alla forma imperiale più dispotica del Dominato. Quando ottenne per la prima volta la censura (l'incarico di censore) nel 28 a.C., Ottaviano si proclamò princeps senatus. Il termine princeps sta difatti a significare "primus inter pares" (primo tra individui di pari dignità) e sanziona contemporaneamente la sua posizione di privilegio rispetto agli altri senatori, ma anche la sua formale condizione d'eguaglianza rispetto a essi dal punto di vista costituzionale. Il Princeps senatus era stato, in passato, il primo membro per precedenza del Senato romano; era il portavoce ufficiale e aveva il diritto di votare per primo, influenzando la votazione degli altri. Non era designato per nascita, né per età o per riconoscimento di servigi politici, ma solo per il riconoscimento di un suo personale, straordinario valore morale. Il princeps senatus non era una carica a vita. Era scelto dai due censori ogni cinque anni. Vi è da aggiungere che un censore poteva confermare il precedente princeps senatus per ulteriori cinque anni. Doveva essere un patrizio. Questa carica comportava in ogni caso una notevole auctoritas, intesa sia come capacità morale di farsi rispettare dagli altri senatori, sia come carriera politica prestigiosa. Anche se non faceva parte del cursus honorum e non deteneva nessun imperium, questo incarico portava prestigio enorme al senatore che lo deteneva.
D'altra parte, l'imperium non sottintendeva solo la facoltà di impartire ordini, ma anche la condizione di chi era sacro e santo. Il termine imperator è un titolo originariamente denso di significati religiosi e successivamente è stato conferito ai condottieri vittoriosi, poiché contiene in sé il riferimento all'imperium, un primato nell'ambito religioso, civile e militare.
Il significato del
termine imperatore, che deriva dal latino imperator,
ha un'origine chiara: indica colui che vive un rapporto
favorevole con gli dèi. Già in epoca regale la felicitas
imperatoria indicava quel re che poteva vantare un tale rapporto
favorevole (pius) con gli dèi. Questa relazione unica veniva
stabilita il giorno dell'inauguratio, ovvero il giorno in cui
gli àuguri verificavano tale condizione del re. Con Ottaviano, che
creò la struttura ideologica del principato, a tale termine venne
aggiunto anche quello di Augustus ovvero detentore dell'augus
(lojas in indo-iranico), detentore cioè di quella forza
che unica consente di adempiere alle funzioni sacrali rispetto
agli dèi e quindi di rafforzare la stessa Roma. L'imperator,
nella cultura profondamente religiosa quale fu quella romana, è
ricco di felix, ovvero
è possessore legittimo degli auspici e quindi votato alla
vittoria purché sia sempre pius cioè collegato
correttamente con il mondo sacro degli dèi. Sempre con
Ottaviano ha ingresso nella Religione romana la figura
dell'imperatore. Esso diviene il "re divino", monarca
universale per volere degli dèi, ricevendo, inoltre, il doppio
titolo di sacer e sanctus. Le qualifiche religiose
della figura imperiale ricalcano i modelli ellenistici a cui si
aggiungono le peculiarità della religiosità romana, per le quali ad
un beneficio ricevuto dal dio deve corrispondere sempre un atto di
culto. L'imperatore è quindi sacro e per le sue virtù
e per la sua condotta di vita è anche santo. Ma i due
termini, sacer e sanctus, finiscono per sovrapporsi,
così Gallieno e Alessandro Severo vengono indicati come sanctissimi,
mentre Domiziano, Adriano e Antonino Pio vengono invece appellati
come sacratissimi. L'Imperatore, nella sua qualità di
Pontifex Maximus esercitava il supremo ruolo di
sorveglianza e governo sul culto religioso, presiedendo il collegio
dei pontefici e gli altri collegi sacerdotali, nominando le Vestali,
i Flamini ed il Rex sacrorum, regolando il calendario con la
scelta dei giorni fasti e nefasti ed avendo il completo controllo sul
rispetto del diritto romano, della cui interpretazione era custode.
In tal senso poteva anche controllare la redazione degli annales
pontificum, cioè delle cronache pubbliche, e della tabula
dealbata, riportante la lista dei magistrati in carica.
L'Imperatore stesso era oggetto di un culto imperiale, nel
quale il genio del Principe diveniva oggetto di pratiche religiose,
spesso affiancandosi nei templi ad altre forme divinizzate del potere
imperiale dello Stato, come la dea Roma. Il culto del genius
principis, sebbene spesso percepito nelle classi elevate come una
forzatura della religione tradizionale, consentiva di rivolgere al
sovrano cerimonie pubbliche di valenza religiosa senza per questo
infrangere i principi che vietavano il culto di persone viventi. A
questo si aggiungeva la possibilità di rivolgere poi un vero e
proprio culto alla persona dell'Imperatore dopo la sua morte
una volta che questi fosse pubblicamente divinizzato dal Senato con
il riconoscimento della sua condizione di divus. Il complesso
di tali pratiche durò sino all'anno 375, quando l'imperatore
Graziano declinò l'onore del pontificato massimo perché
incompatibile con la nuova religione cristiana, anche se Costantino I
non rinunciò mai a tale potere. Tuttavia anche nel nuovo ambito
cristiano l'Imperatore continuò a rivestire un ruolo
preminente come vicario di Cristo e rappresentazione
terrena dell'ordine celeste. Questo valse soprattutto per gli
imperatori romani d'Oriente, che potevano, in qualità di vicari
(rappresentanti) della divinità, manovrare patriarchi, papi e
vescovi oltre ad emettere editti a carattere religioso e convocare
concili.
Il Principato è stata la prima forma di governo dell'Impero romano, dall'avvento di Augusto fino a quello di Diocleziano che inaugurò il "Dominato" nel 285. Il principato instaurato nel 27 a.C. da Augusto segnò il passaggio dalla forma repubblicana a quella autocratica dell'Impero: senza abolire formalmente le istituzioni repubblicane, il principe (in latino princeps) assumeva la guida dello stato e ne costituiva il perno politico. Gradatamente, rafforzatosi l'assolutismo con i successivi imperatori della dinastia Giulio-Claudia e con i loro successori, il principato entrò in crisi alla fine della dinastia dei Severi, nel 235 d.C., e la successiva anarchia militare, durante la crisi del III secolo, condusse alla forma imperiale più dispotica del Dominato. Quando ottenne per la prima volta la censura (l'incarico di censore) nel 28 a.C., Ottaviano si proclamò princeps senatus. Il termine princeps sta difatti a significare "primus inter pares" (primo tra individui di pari dignità) e sanziona contemporaneamente la sua posizione di privilegio rispetto agli altri senatori, ma anche la sua formale condizione d'eguaglianza rispetto a essi dal punto di vista costituzionale. Il Princeps senatus era stato, in passato, il primo membro per precedenza del Senato romano; era il portavoce ufficiale e aveva il diritto di votare per primo, influenzando la votazione degli altri. Non era designato per nascita, né per età o per riconoscimento di servigi politici, ma solo per il riconoscimento di un suo personale, straordinario valore morale. Il princeps senatus non era una carica a vita. Era scelto dai due censori ogni cinque anni. Vi è da aggiungere che un censore poteva confermare il precedente princeps senatus per ulteriori cinque anni. Doveva essere un patrizio. Questa carica comportava in ogni caso una notevole auctoritas, intesa sia come capacità morale di farsi rispettare dagli altri senatori, sia come carriera politica prestigiosa. Anche se non faceva parte del cursus honorum e non deteneva nessun imperium, questo incarico portava prestigio enorme al senatore che lo deteneva.
Terminata la guerra civile contro Marco
Antonio e dopo aver potuto mettere le mani sulle risorse finanziarie
dei Tolomei d'Egitto, Ottaviano riuscì a pagare molti debiti di
guerra, nonché decine di migliaia di soldati che in tanti anni di
campagne lo avevano servito, disponendone l'insediamento in numerose
colonie, sparse in tutto il mondo romano. A questo punto Ottaviano
era divenuto il padrone assoluto dello stato romano, anche se
formalmente Roma era ancora una repubblica e lui non era ancora stato
investito di alcun potere ufficiale, dato che la sua potestas
di triumviro (con Antonio e Crasso) non era stata più rinnovata: nelle "Res Gestae" riconosce
di aver governato in questi anni in virtù del "potitus rerum
omnium per consensum universorum" (il consenso
generale), avendo per questo motivo ricevuto una sorta di
perpetua tribunicia potestas (certamente un fatto
extra-costituzionale). Nel 27 a.C., Ottaviano restituì
formalmente nelle mani del senato e del popolo romano i poteri
straordinari assunti per la guerra contro Marco Antonio. Il
senato però, rifiutò le dimissioni e lo pregò di non abbandonare
lo stato che egli aveva salvato, ricevendo una serie di privilegi
come: il titolo di console da rinnovare annualmente, una potestas
con maggiore auctoritas rispetto agli altri magistrati
(consoli e proconsoli), poiché aveva diritto di veto in tutto
l'Impero, a sua volta non assoggettato ad alcun veto da parte di
qualunque altro magistrato; l'imperium proconsolare decennale,
rinnovatogli poi nel 19 a.C., sulle cosiddette province "imperiali"
(compreso il controllo dei tributi delle stesse), vale a dire le
province dove fosse necessario un comando militare, ponendolo di
fatto a capo dell'esercito; il titolo di Augusto (su proposta di
Lucio Munazio Planco), cioè "degno di venerazione e di onore", che sancì la sua posizione sacra che si fondava sul consensus
universorum di Senato e popolo romano; l'utilizzo del titolo di
Princeps ("primo cittadino"); il diritto di condurre
trattative con chiunque volesse, compreso il diritto di dichiarare
guerra o stipulare trattati di pace con qualunque popolo straniero.
Augusto dovette affrontare il
difficilissimo compito di conciliare la propria posizione con le
tradizioni e con il sentimento dell’epoca repubblicana. Lo stesso
contrasto di fronte al quale si era trovato Cesare, quando aveva
cercato di trasformare l’ordinamento statale dell’Impero da
repubblica a dittatura. Augusto si avvalse dell’esperienza del
padre adottivo e trovò la soluzione del problema in un compromesso
tutto particolare. Dal punto di vista del diritto costituzionale,
Augusto restaurò ufficialmente e solennemente l’ordinamento
repubblicano, scosso profondamente dai disordini dell’ultimo secolo
a.C. ma lo fece con una serie di riserve che avevano l’effetto di
accentrare nelle sue mani, e quindi dei suoi successori, tutti i
poteri dello Stato. Ottaviano non voleva essere considerato un
sovrano, ma il primo dei senatori per auctoritas
(princeps senatus, da cui principato) di una città libera, il
quale grazie al suo enorme prestigio politico stava al fianco del
governo repubblicano per aiutarlo nel mantenimento dell’ordine
pubblico e dell’amministrazione dell’impero universale. Augusto
era quindi l’unica persona dotata di genio politico, mezzi
materiali enormi e del favore degli dei, per farsi carico
del peso del governo dell’Impero, che si era rivelato troppo
gravoso per gli organi costituzionali della città-stato che era Roma.
Il termine princeps sta difatti a significare "primus
inter pares" (primo tra individui di pari dignità) e
sanziona contemporaneamente la sua posizione di privilegio rispetto
agli altri senatori, ma anche la sua formale condizione
d'eguaglianza rispetto a essi dal punto di vista costituzionale. In seguito fu il senato a conferirgli
progressivamente onori e privilegi, ma il problema che Ottaviano
doveva risolvere consisteva nella trasformazione della sostanza dei
rapporti istituzionali, lasciando intatta la forma repubblicana. I
fondamenti del reale potere vennero individuati nell'imperium
e nella tribunicia potestas: il primo, proprio dei consoli,
conferiva a chi ne era titolare il potere esecutivo, legislativo e
militare, mentre la seconda, propria dei tribuni della plebe, offriva
la facoltà di opporsi alle decisioni del senato, controllandone la
politica grazie al diritto di veto. Ottaviano cercò di ottenere tali
poteri evitando di alterare le istituzioni repubblicane e dunque
senza farsi eleggere a vita console e tribuno della plebe ed evitando
inoltre la soluzione cesariana (Giulio Cesare era stato eletto, prima
annualmente e poi dictator a vita). La carica di dittatore
gli fu infatti offerta, ma egli prudentemente la rifiutò: « Il
popolo con grande insistenza offrì ad Augusto la dittatura, ma lo
stesso, dopo essersi inginocchiato, fece cadere la toga dalle spalle
e, a petto nudo, supplicò che non gli fosse imposta. » (Svetonio,
Augustus, 52)
Egli considerò il titolo di
dominus («signore») come un grave insulto e
sempre lo respinse con vergogna. Svetonio racconta che un giorno,
durante una rappresentazione teatrale alla quale assisteva, un mimo
esclamò: O dominum aequum et bonum!
(«O signore giusto e buono!»). Tutti gli spettatori approvarono
esultanti, quasi che l'espressione fosse rivolta ad Augusto, ma egli,
non solo pose fine a queste adulazioni con un gesto e lo sguardo, ma
il giorno seguente, emise anche un severo proclama che ne vietasse
ulteriori piaggerie (cioè tendenze all'adulazione, cortigianerie,
servilismi). Egli, infine, non permise che lo chiamassero domiunus
né i figli o i nipoti, che fosse per gioco o in tono serio. Ancora
Svetonio racconta che Ottaviano: « Due volte pensò di restaurare la
Repubblica: la prima volta subito dopo aver sconfitto Antonio, memore
che quest'ultimo gli aveva ripetuto spesso che era lui il solo
ostacolo al ritorno [della Repubblica]; [la seconda volta] di nuovo
nella stanchezza di una malattia persistente. In quella circostanza
convocò a casa sua magistrati e senatori dando loro un resoconto
dell'Impero. Ma pensando che, come privato cittadino, non avrebbe
potuto vivere senza pericolo e temendo di lasciare la Res publica
in mano all'arbitrio di molti, continuò a mantenere [il potere]. Non
sappiamo quale sia stata la cosa migliore da fare. » (Svetonio,
Augustus, 28). Sul letto di morte, Augusto chiese: "Dunque, ho recitato bene la mia parte nella commedia della vita?
L'imperium proconsulare maius et
infinitum di Augusto e la lex de imperio:
Con il tramonto dell'età repubblicana
e la nascita di un nuovo ordine costituzionale, ad Augusto fu
conferito un nuovo tipo di imperium, detto imperium
proconsulare maius et infinitum. In particolare questo potere fu
conferito dal Senato ad Augusto nel 23 a.C. insieme alla tribunicia
potestas a vita. Si trattava di un imperium maius perché
era superiore a quello di tutti gli altri proconsoli, e infinitum
nel duplice senso spaziale e temporale, perché non limitato a una
sola provincia e non predeterminato nel tempo. Infatti, Ottaviano fu
riconosciuto come princeps dai membri del senato. In virtù di
questo riconoscimento Ottaviano diveniva il primo e più autorevole
tra i senatori anche se, da un punto di vista formale, continuava ad
essere un senatore alla pari con gli altri. È sostanzialmente quello
che attualmente definiamo come "principato". Nasce con
Ottaviano un nuovo tipo di governo in cui gli elementi repubblicani
(affievoliti) convivono con elementi senza dubbio monarchici (in
parte mascherati).
Ad Ottaviano fu attribuito il titolo
onorifico di imperator che si attribuiva normalmente ai
generali vittoriosi in guerra e tramite la lex de imperio
anche il diritto di imperium,
che insigniva del diritto di governare e di emettere leggi. In
particolare diveniva così titolare di prerogative come: il sommo
pontificato, il consolato a vita e la tribunicia potestas che
gli garantiva anche il diritto di veto sulle decisioni senatoriali.
Sappiamo che anche ai prìncipi
successivi ad Augusto fu formalmente attribuito, di volta in volta,
l'imperium. L'atto con cui tale potere veniva conferito
all'imperatore è la cosiddetta lex de imperio. Noi possediamo
la seconda parte di quella con cui nel 69-70 d.C. fu conferito
l'imperium a Vespasiano, perché essa è stata conservata su
una tavola bronzea rinvenuta nel 1347 dal tribuno Cola di Rienzo
nella Basilica del Laterano a Roma. Al potere di imperium
del principe è ricondotto il fondamento del valore normativo delle
costituzioni imperiali, la cui efficacia era equiparata a quella
della lex publica populi Romani (cfr. Gai 1.5). Per circa un secolo, gli imperatori
romani agirono solitamente con l'assenso del senato o comunque in un
sistema in cui il senato rappresentava un contrappeso ai poteri
imperiali. Nonostante tutto non mancarono momenti
di tensione dovuti ai tentativi degli imperatori di forzare la mano
al senato ed ai tentativi di usurpatori di accedere al trono.
Soprattutto una non certa successione al trono dovuta a farraginose
incertezze istituzionali; l'impero era elettivo, ma gli imperatori
tendevano spesso a fondare delle dinastie e ciò portò nel corso del
I secolo a diverse guerre civili.
Juan Antonio Ribera (1806) - Cincinnato lascia l'aratro per diventare dittatore. |
Fra i vari termini, con cui nell'antica
Roma si indicavano le autorità dei titolari del pubblico potere,
assunse un ruolo di fondamentale importanza, sin dall'età
monarchica, l'imperium, da non confondersi con la potestas
o l'auctoritas. Si trattava di un potere di stampo militare che,
come denuncia il suffisso -ium, aveva natura dinamica, che
conferiva al suo titolare la facoltà di impartire ordini ai quali i
destinatari non potevano sottrarsi, con conseguente potere di
sottoporre i recalcitranti a pene coercitive di natura fisica
(fustigazione o, nei casi più gravi, decapitazione) o
patrimoniale (multe).
Fasci littori in ferro ritrovati nell'etrusca "Tomba del Littore" di Vetulonia. |
Simboli esteriori di questo potere erano i fasci littori, fasci di verghe con una scure, portate dai littori.
Si è scritto di come già Romolo, che aveva preso dagli etruschi molte usanze e rituali, disponesse di littori e quindi di imperium, ma sicuramente nell'ultima fase dell'età monarchica, quando i re erano etruschi, il potere dell'imperium, a Roma, veniva esercitato.
Sappiamo che nel procedimento di investitura del rex, gli veniva conferito il potere dalle curiae con un atto detto lex curiata de imperio.
I fasces lictorii
erano, nell'Antica Roma, l'arma portata dai littori, che
consisteva in un fascio di bastoni di legno legati con strisce di
cuoio, normalmente intorno ad una scure. Tale arma divenne in seguito
un simbolo del potere e dell'autorità maggiore, l'imperium,
ed assunse la tipica forma di fascio cilindrico di verghe di betulla
bianca simboleggianti il potere di punire, legate assieme da nastri
rossi di cuoio (latino: fasces), simboli di sovranità e unione, al
quale talvolta era infissa un'ascia di bronzo, a rappresentare il
potere di vita e di morte sui condannati romani.
Si pensa comunemente che l'imperium
abbia fatto ingresso a Roma per effetto della dominazione etrusca.
Questa idea, in effetti, sembra confermata dalla circostanza che
nella cosiddetta "Tomba del Littore" di Vetulonia siano
stati ritrovati alcuni fasci littori in ferro.
Si è scritto di come già Romolo, che aveva preso dagli etruschi molte usanze e rituali, disponesse di littori e quindi di imperium, ma sicuramente nell'ultima fase dell'età monarchica, quando i re erano etruschi, il potere dell'imperium, a Roma, veniva esercitato.
Sappiamo che nel procedimento di investitura del rex, gli veniva conferito il potere dalle curiae con un atto detto lex curiata de imperio.
Dopo la cacciata di Tarquinio il
Superbo e l'instaurazione del nuovo regime repubblicano nel 509 a.C.
il potere di imperium
fu ereditato dai consoli che furono posti a capo del nuovo
ordine costituzionale. Essi erano dunque accompagnati da dodici
littori ciascuno.
Secondo la tradizione, nella nascita della libera res publica, il console Valerio Publicola avrebbe fatto approvare una legge, detta Lex Valeria de provocatione, con la quale si stabiliva che all'interno della città di Roma ciascun cittadino avrebbe potuto limitare il potere di imperium dei consoli ricorrendo alla provocatio ad populum. Questo provvedimento avrebbe consentito al cittadino contro cui il magistrato avesse voluto esercitare il proprio imperium, di richiedere un giudizio innanzi alle assemblee popolari. Per simboleggiare questo mutamento, i littori giravano dentro la città di Roma senza le scuri inserite nei fasci littori, e al riguardo si parlerà di imperium domi. Al di fuori della cerchia cittadina (pomerium), tuttavia, non poteva farsi ricorso alla provocatio ad populum, e il magistrato munito di imperium avrebbe potuto esercitare il proprio potere senza alcun limite, tanto che i suoi littori lo accompagnavano con i fasci completi delle scuri, simbolo del suo imperium militiae.
Littore. |
I littori (dal latino lictores
che deriverebbe da ligare, ovvero legare), istituiti al tempo
di Romolo, camminavano davanti al rex e lo proteggevano con
bastoni. Avevano, inoltre, attorcigliate alla vita delle cinghie di
cuoio, con le quali legavano tutti quelli che il sovrano avesse
ordinato di catturare.
Erano membri di una speciale classe di
servitori civili dell'antica Roma che, sia in Età repubblicana sia
in quella imperiale avevano il compito di proteggere i magistrati
dotati di imperium. L'origine dei littori risale all'Età regia e
probabilmente proveniva dagli etruschi. Tito Livio riferisce:
« A me non dispiace la teoria di
quelli che sostengono che [l'uso dei dodici littori sia stato]
importato dalla vicina Etruria (da dove furono introdotte la sedia
curule e la toga pretesta) tanto questa tipologia di subalterni,
quanto il loro stesso numero. Essi credono che ciò fosse così per
gli Etruschi poiché, una volta eletto il re dall'insieme dei dodici
popoli, ciascuno di essi forniva un littore. » (Tito Livio, Ab Urbe
condita libri, I, 8.)
All'inizio i littori erano scelti dalla
plebe, anche se, per gran parte della storia di Roma, sembrano essere
stati soprattutto liberti. Tuttavia, erano senza dubbio cittadini
romani, dato che indossavano la toga dentro Roma. Dovevano essere
forti e capaci di lavori fisici, erano esentati dal servizio
militare, ricevevano un salario fisso ed erano organizzati in una
corporazione. Erano solitamente scelti dal magistrato che loro
dovevano servire, ma è anche possibile che venissero estratti. I
littori erano associati ai Comizi curiati e in origine erano
probabilmente scelti uno per curia, dato che all'inizio erano in
numero di 30 (come le curie): 24 per i due consoli e sei per il
pretore. La funzione principale dei littori era quella di proteggere
il magistrato dotato di imperium, che demandava loro l'esecuzione
delle condanne a morte. Il littore portava con sé i fasces, che
erano composti da 30 verghe e una scure (quest'ultima era tenuta nei
fasci solo fuori del pomerium, in quanto al suo interno nessuno
poteva condannare a morte un cittadino romano, perché questi avrebbe
potuto appellarsi al popolo; a ciò faceva eccezione la magistratura
straordinaria del dittatore, che aveva pieno potere anche all'interno
del pomerium). Le verghe invece potevano essere usate per percuotere
i cittadini. Questo era l'unico modo in cui la schiena di un romano
poteva essere violata, dato che era considerata sacra e non era
ammessa la fustigazione. I littori precedevano il magistrato
ovunque andasse (nel foro, in casa, nel tempio o alle terme), erano
schierati in una formazione ordinata davanti al magistrato, in cui il
primus lictor occupava il primo posto, attendendo ordini. Se c’era
una folla i littori aprivano la strada e mantenevano al sicuro il
protetto, tirando da parte tutti tranne le matrone romane, a cui
erano attribuiti degli onori speciali. Avevano anche il compito di
stare accanto al magistrato ogni volta che si rivolgeva alla folla.
Secondo la tradizione, nella nascita della libera res publica, il console Valerio Publicola avrebbe fatto approvare una legge, detta Lex Valeria de provocatione, con la quale si stabiliva che all'interno della città di Roma ciascun cittadino avrebbe potuto limitare il potere di imperium dei consoli ricorrendo alla provocatio ad populum. Questo provvedimento avrebbe consentito al cittadino contro cui il magistrato avesse voluto esercitare il proprio imperium, di richiedere un giudizio innanzi alle assemblee popolari. Per simboleggiare questo mutamento, i littori giravano dentro la città di Roma senza le scuri inserite nei fasci littori, e al riguardo si parlerà di imperium domi. Al di fuori della cerchia cittadina (pomerium), tuttavia, non poteva farsi ricorso alla provocatio ad populum, e il magistrato munito di imperium avrebbe potuto esercitare il proprio potere senza alcun limite, tanto che i suoi littori lo accompagnavano con i fasci completi delle scuri, simbolo del suo imperium militiae.
L’origine etrusca del fascio littorio
sembrerebbe trovare fondamento su fonti letterarie e su testimonianze
archeologiche. A quanto ci riferiscono Dionigi di Alicarnasso e Tito
Livio, i Romani avrebbero importato dall’Etruria l’usanza di far
precedere i re da littori recanti sulle spalle un fascio di verghe ed
una scure.
Littori con fasci nell'etrusca "Tomba del Convegno" di Tarquinia. |
Magistrati cum imperio e magistrati sine imperio - Solamente alcuni magistrati della Roma di età repubblicana erano dotati di imperium. Anzi, una delle distinzioni fondamentali fra i magistrati dell'età repubblicana era quella che contrapponeva i magistrati cum imperio ai magistrati sine imperio. Erano magistrati cum imperio i consoli, i pretori, e alcuni magistrati straordinari, come i decemviri legibus scribundis consulari imperio e l'interrex. A costoro l'imperium veniva conferito dopo l'elezione con la lex curiata de imperio. Gli altri magistrati, come i censori, gli edili curuli, i tribuni della plebe, gli edili plebei e i questori, erano invece sine imperio. Come può notarsi, questa distinzione non coincide né con quella che contrappone i magistrati maggiori ai magistrati minori, perché i censori, che erano magistrati maggiori, non erano forniti di imperium, né con quella che contrappone i magistrati che avevano diritto alla sella curule, simbolo del potere giudiziario. Dopo le prime grandi conquiste fuori dalla penisola italica (Sicilia e Sardegna), il senato cominciò a prolungare il potere dei magistrati che erano stati impegnati nelle operazioni belliche come comandanti militari, perché, anziché tornare a Roma, continuassero con efficacia la propria azione sul teatro di guerra che conoscevano meglio di ogni altro, e poi governassero il nuovo territorio conquistato. Questi ex magistrati il cui potere era prolungato dal Senato si trovavano in regime di prorogatio imperii, e furono detti promagistrati. Il loro imperium, dunque, non si fondava sull'elezione popolare seguito dalla lex de imperio, come quello dei magistrati, ma su un atto del senato che stava al posto della rogatio, e detto appunto pro-rogatio. Pure munito di imperium era il dictator (che, tecnicamente, non era un magistratus populi Romani), dotato di ben ventiquattro littori, e il cui summum imperium era esente dal limite della provocatio ad populum anche all'interno del pomerium.
I fasci littori, usati sin dall'età regia come simbolo
del potere del re e recati davanti a questi in numero di dodici da
altrettanti littori, in età repubblicana divennero appannaggio dei
magistrati maggiori, cioè quelli dotati di imperium e trasportati
davanti al magistrato, in numero corrispondente al suo rango, nelle
cerimonie pubbliche e nelle ispezioni:
Imperatore: in origine 12 littori, dopo
Domiziano 24
Dittatore: 24 littori fuori del Pomerio
e 12 dentro. Questa norma non fu più rispettata a partire dalla
dittatura di Silla
Console: 12 littori (quanti l'antico
Rex)
Proconsole: 11 littori
Magister equitum: 6 littori
Pretore: 6 littori, 2 dentro il Pomerio
Propretore: 5 littori
Edile curule: 2 littori
Questore: 1 littore
Ad esclusione del dittatore, tutti gli
altri magistrati potevano portare le asce infisse nei fasci solo al
di fuori del pomerio, poiché all'interno della città non era
possibile applicare la pena di morte a cittadini romani, che avevano
diritto alla provocatio ad populum cioè di ricorrere ai comizi
centuriati per paralizzare una condanna capitale stabilita dai
magistrati; inoltre in età repubblicana le verghe dei fasci erano
considerate l'unico modo in cui fosse possibile violare la schiena di
un cittadino romano, altrimenti considerata sacra e inviolabile.
L'unica eccezione si verificò con i
Decemviri del 450 a.C., che ripristinarono l'uso dei Re di mostrare
l'ascia tra i fasci anche all'interno del pomerio, e per questo
divennero invisi al popolo romano.
In Senato il console in carica nella
presidenza della seduta era riconoscibile dal fatto di esser fornito
di fasces. I fasci venivano inoltre portati da
soldati eroici (dovevano essere stati feriti in battaglia) durante i
Trionfi (celebrazioni pubbliche tenute a Roma dopo una conquista
militare). A volte, in occasione di funerali o riunioni politiche, i
littori potevano essere assegnati anche a privati cittadini come
segno di rispetto da parte della città.
Sella curule nell'etrusca "Tomba degli Auguri" di Tarquinia. |
La sella curule (in lat. sella
curulis) era un sedile pieghevole a forma di "X" ornato
d'avorio, simbolo del potere giudiziario, riservato inizialmente ai
re di Roma e in seguito ai magistrati superiori dotati di
giurisdizione, detti perciò "curuli".
I magistrati solevano portare con sé
la sella curulis assieme agli altri simboli del loro potere (fasci,
verghe e scuri) e ovunque disponessero questi simboli, lì era
stabilita la sede del loro tribunale.
Durante il periodo della Repubblica, il
diritto di sedere sulla sella curule era riservato a: consoli,
pretori, edili curuli, sacerdoti massimi, dittatori e al magister
equitum. In epoca imperiale l'uso della sedia curule fu ampliato
anche all'imperatore, al praefectus urbi e ai proconsoli.
Il simbolo di potere rappresentato
dalla sedia curule affonda le sue radici nell'antica Etruria; infatti
già gli Etruschi consideravano lo scranno pieghevole a forma di
sella una prerogativa di chi poteva esercitare il potere (giudiziario
ed esecutivo) sul popolo. Fu portato a Roma dal quinto re, Tarquinio
Prisco.
Sella curule |
Da Tito Livio, Ab Urbe condita
libri, I, 8.): Compiute secondo il rito le cerimonie sacre e riunita
in assemblea la massa che non avrebbe mai potuto unificarsi in un
unico organismo popolare se non con leggi, Romolo dettò norme
giuridiche. Dunque, stimando che esse sarebbero apparse inviolabili a
un materiale umano ancora rozzo solo se egli stesso si fosse reso
venerabile per mezzo di segni esteriori dell'autorità, si fece più
maestoso con fasto dell'abbigliamento e particolarmente con la
guardia dei dodici littori. Alcuni ritengono che egli abbia
considerato il numero degli uccelli che gli avevano presagito il
potere. A me non dispiace l'opinione di coloro che pensavano che
anche questo tipo di guardie derivasse dai vicini Etruschi da cui fu
ricavata anche la sella curule e la toga pretesta, e
pensano che anche il numero dei littori venisse di là e che tale
fosse presso gli etruschi per il fatto che, dopo che i dodici popoli
avevano eletto in comune il re ciascuno di essi gli assegna un
littore.
Statua di togato del I sec. con testa che ritrae l'imperatore Nerva. Da: http://commons.wikimedia.org /wiki/File:Togato,_I_sec_dc._ con_testa_di_restauro_da_un _ritratto_di_nerva,_inv._2286.JPG# mediaviewer/File:Togato,_I_sec_ dc._con_testa_di_restauro_da_ un_ritratto_di_nerva,_inv._2286.JPG |
La toga (il cui nome è connesso
con il verbo latino tego, "ricoprire") è una sopravveste
di lana o di altro tessuto, il cui uso è stato ed è
tradizionalmente legato all'appartenenza ad una determinata
professione o categoria sociale. Con questa parola ci si riferisce in
particolare ad un ampio e lungo mantello di lana che gli antichi
Romani portavano sopra la tunica. Tito Livio e Floro raccontano che la
toga pretesta (in latino toga praetexta) fu importata a
Roma come usanza dei vicini Etruschi al tempo di Tarquinio Prisco.
Era un tipo di toga bordata di rosso, che veniva indossata da tutti i
più alti magistrati.
« A me non dispiace la teoria di
quelli che sostengono che [l'uso dei dodici littori siano stati]
importati dalla vicina Etruria (da dove furono introdotte la sella
curule e la toga pretesta) tanto questa tipologia di subalterni,
quanto il loro stesso numero. Essi credono che ciò fosse così per
gli Etruschi poiché, una volta eletto il re dall'insieme dei dodici
popoli, ciascuno di essi forniva un littore. » (Tito Livio, Ab Urbe
condita libri, I, 8.)
L'uso della toga era riservato
esclusivamente ai cittadini romani maschi, mentre gli schiavi e gli
stranieri non avevano il diritto di indossarla. Chi era condannato
all'esilio era condannato a perdere il diritto ad indossarla, lo ius
togae. Solo più tardi ne fu concesso l'uso a tutti gli abitanti
dell'impero. I cittadini delle province, secondo alcune
testimonianze, tendevano a non indossarla,[3] ma anche gli stessi
romani, con l'avvento del periodo imperiale, iniziarono ad
abbandonarne l'uso, tanto che Augusto fu costretto ad imporre che i
cittadini la usassero almeno nel Foro. Ecco cosa scrive Svetonio:
« Si applicò per far riprendere la
moda e il costume di un tempo: un giorno, vedendo in un'adunanza del
popolo una folla di gente malvestita, indignato esclamò: "Ecco
i Romani, padroni del mondo e il popolo che indossa la toga", e
diede incarico agli edili, dopo ciò, di non tollerare che nel Foro e
nei dintorni si fermasse qualcuno se non avesse prima abbandonato il
mantello che copriva la toga. » (Svetonio, Augustus, 40.)
Di qualsiasi tipo fosse, era un grande
mantello ovale, ripiegato in due nel senso della lunghezza. Si
indossava creando dapprima un mazzo di pieghe che dovevano essere
appoggiate sulla spalla sinistra; la si passava poi attorno al corpo
lasciando libera la spalla destra. Essendo ampia e pesante, la toga
dava un aspetto imponente a chi la portava e ben rappresentava
l'importanza di Roma, dominatrice del mondo antico.
Tra le varianti di toga abbiamo:
- Toga virilis (o toga pura): toga
dell'età adulta (che si raggiungeva attorno ai 15-17 anni),
solitamente di colore bianco avorio. Il Pontefice massimo ne posava
un lembo sulla testa. Questa festa era celebrata solitamente il 17
marzo, coincidendo con i Baccanale. I Senatori e i Cavalieri avevano
il privilegio di poterla ornare con una striscia di tessuto color
porpora appuntata sulla spalla e che scendeva sul davanti, larga per
i primi e stretta per i secondi (laticlavio, angusticlavio).
- Toga candida: ossia bianca,
indossata dai candidati che si presentavano alle elezioni. Il
colore doveva indicare l'onestà delle loro intenzioni.
- Toga pulla (o toga atra): una toga
marrone o grigio scuro, indossata durante i giorni di lutto.
- Toga praetexta: si trattava di un
tipo di toga orlata di porpora.
Essa veniva indossata da:
Tutti i ragazzi romani liberi, che non
avevano raggiunto ancora l'età adulta (fino ai 15-17 anni), veniva
indossata nelle occasioni formali ed ovviamente era di dimensioni
minori rispetto a quella degli adulti
Tutti i maggiori personaggi civili e
religiosi, che per la loro funzione erano considerati Magistrati
Curuli
Tutti gli ex Magistrati Curuli ed i
Dictatores al momento della sepoltura e in altri casi anche durante
certe solennità.
Secondo la tradizione essa era stata
indossata da tutti gli antichi Re di Roma
Durante l'impero il diritto di portare
questo tipo di toga venne spesso esteso come un onore riservato
indipendentemente dalla funzione svolta.
- Toga picta: toga color porpora e
strisce d'oro, indossata dai comandanti delle legioni in occasione
della celebrazione del trionfo dopo la battaglia e dagli imperatori
nel periodo tardo romano. Attorno al IV secolo la toga picta era
integralmente ricamata, e per questo indossata solo da personaggi di
altissimo rango. Essendo rigida e pesante, fu superata da mantelli
più comodi da indossare come la clamide.
- Toga trábea: toga variopinta
indossata dagli Auguri, figure che, presso i romani, davano
l'interpretazione della volontà degli dei studiando il volo degli
uccelli.
- Toga sinus: versione più grandiosa,
si pensa lunga circa tre metri. Il sinus era la parte di tessuto
appoggiata al fianco destro, che poteva anche essere ripiegato sul
capo. Il lembo che cadeva dalla spalla sinistra ai piedi diventò
talmente lungo, che fu ulteriormente ripiegato e usato come tasca
(umbus).
- La toga contabulata: usata nel tardo
impero, era caratterizzata dal fatto che il lembo anteriore, invece
di essere lasciato cadere ai piedi, era passato trasversalmente sul
torace. Se ne vedono parecchi esempi sui dittici in avorio del IV
secolo d.C.
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