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sabato 11 giugno 2022

Il cavallo, cavallerie e fanterie nell'Europa antica, cavalieri e legioni dell'antica Roma

"Spirit" di Jacopo
Rumignani, da https://arte
magazine.it/tag/de-m-
venice-art-gallery-2/
.

Il cavallo addomesticato (Equus ferus caballus, Linnaeus 1758) è un mammifero perissodattilo (ordine di mammiferi euteri al quale appartengono equini, rinoceronti e tapiri; caratteristica distintiva di questo gruppo di ungulati è la presenza di arti con dita dispari, dovuta alla scomparsa di alcune di esse, che ha prodotto arti con asse portante sul terzo dito) di medio-grossa taglia appartenente alla famiglia degli Equidi. Con l'avvento dell'addomesticamento si è distinto dal cavallo selvatico, di cui è considerato una sottospecie.

Il cavallo ha accompagnato e accompagna l'uomo in una notevole varietà di scopi: ricreativi, sportivi, di lavoro e di polizia, bellici, agricoli, ludici e terapeutici. Tutte queste attività hanno generato vari modi di cavalcare e guidare i cavalli usando ogni volta i finimenti più appropriati. L'uomo trae dal cavallo anche carne, latte, ossa, pelle e capelli, nonché estratti di urine e sangue per scopi farmaceutici.

La femmina del cavallo, chiamata giumenta, ha un periodo di gestazione (gravidanza) dei puledri di circa undici mesi, al termine dei quali il piccolo, una volta partorito, riesce a stare in piedi e a correre da solo dopo pochissimo tempo. Solitamente l'addomesticamento avviene dopo i tre anni di vita dell'animale. A cinque anni è completamente adulto, con una prospettiva di vita che si aggira sui 25-30 anni. Il cavallo presenta un'elevata specializzazione morfologica e funzionale all'ambiente degli spazi aperti come le praterie, in particolare ha sviluppato un efficace apparato locomotore e un apparato digerente adatto all'alimentazione con erbe dure integrate con modeste quantità di foglie, ramoscelli, cortecce e radici.

Sono oltre 300 le razze di cavalli, che si possono suddividere in diverse categorie, stilate in base alla corporatura, al temperamento (a sangue freddo, a sangue caldo e a sangue ardente) o all’origine.

CORPORATURA del CAVALLO - Da Gianni Ravazzi "Le razze dei cavalli da sella" De Vecchi Editori: 
Nella suddivisione degli equini in base alla loro corporatura emergono i gruppi dei brachimorfi, mesomorfi, dolicomorfi e i gruppi intermedi dei meso-brachimorfi e meso-dolicomorfi.

Cavallo Belga da QUI
Brachimorfo - Cavallo più idoneo a sviluppare forza che velocità; torace ampio, forme potenti e massicce, linee corte e muscolatura più sviluppata in spessore che in lunghezza. Gli angoli delle articolazioni sono molto chiusi. Brachimorfi sono i cavalli da tiro e da lavoro (es. Belga, Agricolo Italiano, Bretone, Sovietico da Tiro Pesante, Ardennese, ecc.).

Cavallo Murgese da QUI

Mesomorfo - Cavallo con struttura fisica molto più leggera rispetto al brachimorfo, ma comunque potente e compatta. E' il cavallo da esercito dell'età moderna, da caccia o da campagna, intesa come equitazione non agonistica; a questo tipo appartengono moltissimi cavalli moderni, soprattutto mezzosangue. Esempi di cavalli di tipo mesomorfo sono: Murgese, Arabo, Albino, Bardigiano, Andaluso, Basuto ecc.

Cavallo Purosangue Inglese da QUI
Dolicomorfo - Cavallo più idoneo alle andature veloci e allungate che alle prove di forza: ha torace ampio e profondo, linee allungate e articolazioni con angoli molto aperti. La figura è agile, leggera e slanciata. A questa tipologia appartengono, tra gli altri, il Purosangue Inglese e i trottatori.

Cavallo Irlandese da tiro da QUI
Meso-brachimorfo - Si colloca a metà strada tra i cavalli da tiro e i cavalli da sella o da carrozza. L'Araboulonainais, derivato di due razze diversissime, l'Arabo e il Boullonais, e l'Irlandese da Tiro, sono due esempi di razze che incarnano perfettamente il cavallo meso-brachimorfo.

Cavallo Holstein da QUI
Meso-dolicomorfo - Cavallo potente, forte ma contemporaneamente agile
e nobile nel portamento. A questa tipologia appartengono il Lipizzano, l'Holstein e il Danubiano, che mostrano agilità e potenza.

ATTITUDINI del CAVALLO - La differenza tra cavalli a sangue caldo o sangue freddo non risiede solo nella loro origine, europea o dei paesi caldi, ma anche soprattutto nel loro temperamento; i cavalli da lavoro sono infatti a sangue freddo, per la loro indole e per il loro carattere pacifico, mentre i cavalli da sport sono a loro volta suddivisi in sangue ardente (Arabo e Purosangue) e sangue caldo. Negli ultimi anni è diminuito il numero delle razze dedite al lavoro e sono invece aumentate le razze create per lo sport, frutti d’incroci e selezioni con le quali, cavalli originariamente impiegati per il traino, sono stati alleggeriti ai fini di attività agonistiche e sportive.

Cavallo Shire da QUI
Cavalli a sangue freddo - Questa categoria è costituita generalmente da razze che derivano da linee di sangue di cavalli da lavoro che discendono da razze europee. Il cavallo a sangue freddo è mansueto, rilassato e tranquillo, per cui richiede un grande impegno per essere addestrato e sollecitato a lavorare; è una tipologia equina di norma di corporatura pesante e quindi usata per il tiro. Muscolosi e possenti, sono cavalli resistenti. Tra le razze appartenenti alla categoria del sangue freddo vi sono il Percheron, Ardennais, Shire o Clydesdale.

Cavallo Lipizzano da QUI
Cavalli a sangue caldo -  Il cavallo a sangue caldo è più agile, nevrile ed energico rispetto al sangue freddo: nel sangue caldo le spalle sono più dritte, così come l’andatura e la linea superiore dorsale è più liscia rispetto al sangue freddo. Le razze di cavallo a sangue caldo (warm blooded horse) non sono razze pure, sono frutto d’incroci di cavalli Arabi e Purosangue con cavalli più pesanti che nel passato sono stati impiegati per la guerra o per il traino. Avendo un temperamento a metà strada tra il sangue freddo e il sangue ardente, sono razze adatte all’addestramento per le attività sportive e per la sella. In questa categoria rientrano diverse razze che vengono allevate in registri dedicati ai “warm-sangue”, ideali per alcune discipline come il dressage e il salto ad ostacoli. Le razze più note e diffuse a sangue caldo sono Holsteiner, Hannover, Irlandese, Quarter Horse, Lipizzano, Mustang, Camargue, Palominos, Pintos, Sella francese, Cavallo Belga, Cavallo svedese.

Cavallo Arabo da QUI
Cavalli a sangue ardente o bollente (hot blooded horse) - Sono razze selezionate per la velocità e l'agilità. La corporatura è leggera ed esile con un temperamento scattante. Si rivelano cavallo energici e intelligenti anche se nevrili e non adatti a tutti i cavalieri. In questo gruppo rientrano razze pure come l’Arabo, il Purosangue inglese e l’Akhal-Teke.

 La differenza tra sangue caldo e sangue freddo è importante per la relazione uomo-cavallo e quindi per l’addestramento. I cavalli a sangue freddo, anche se sono adatti per molti cavalieri, hanno necessità di un apprendimento più lungo e devono essere sollecitati nel lavoro, poiché pigri. Al contrario, i cavalli a sangue caldo sono intelligenti, apprendono facilmente e sono più propensi al movimento.

Le parti del cavallo, da http://
www.pgarazze.altervista.org/
razze_cavalli_ingresso.htm
La “Fédération équestre internationale” ha stabilito che un cavallo può essere ufficialmente detto "pony" solo se presenta un'altezza al garrese non superiore a 148 cm. In ogni caso il termine «pony» viene spesso utilizzato per qualsiasi cavallo dalle dimensioni ridotte, senza badare con esattezza alla sua taglia o alla razza.

Di 4,8 cm di lunghezza, stupendo

capolavoro dell'Era Glaciale del
Giura Svevo (le Alpi Sveve), un cavallo
scolpito nell'avorio di mammut circa
40.000 anni fa, la più antica scultura
di cavallo conosciuta, in mostra al
MUT, Schloss (palazzo/castello) di
Hohentübingen, la città vecchia di
Tübingen, nel Baden Württemberg
tedesco. Immagine di Nina Willburger
(@DrN Willburger) da Twitter, in 
#Archaeology il 22 ott '22.
ORIGINI del CAVALLO - L'evoluzione del cavallo è cominciata dai 55 ai 45 milioni di anni fa e ha portato dal piccolo Hyracotherium con più dita, al grande animale odierno, a cui rimane un unico dito. L'essere umano ha iniziato ad addomesticare i cavalli selvatici (i tarpan) più tardi rispetto ad altri animali, attorno al 5.000 a.C. nelle steppe orientali dell'Asia, mentre in Europa lo si è iniziato ad addomesticare non prima del III millennio a.C. I cavalli della sottospecie caballus sono tutti addomesticati, sebbene alcuni di questi vivano allo stato brado come cavalli inselvatichiti, diversi dai cavalli selvaggi che non sono mai stati addomesticati. Uno studio del 2018 dell'Università del Kansas ha rivelato che anche i cavalli di Przewalski, precedentemente ritenuti gli ultimi cavalli selvaggi rimasti, sono in realtà i discendenti inselvatichiti di cavalli che erano già stati addomesticati 5.500 anni fa nel nord dell'attuale Kazakistan dal popolo Botai.

Illustrazione di Tarpan da QUI
Il tarpan (Equus ferus ferus), era un cavallo selvatico eurasiatico, di piccola taglia, ormai estinto. Il termine "tarpan" proviene da un'antica parola turca o kirghisa o kazaka con cui veniva indicato il cavallo. L'ultimo esemplare di questa è morto in cattività in Ucraina nel 1918 o nel 1919. Gli allevatori polacchi avevano incrociato spesso i Tarpan con i loro cavalli domestici, ottenendo piccoli cavalli, i pony konik. Il pony huçul, che vive sui Carpazi, è sicuramente il discendente più diretto del tarpan.

Tarpan allo zoo di Mosca nel
1884, da QUI.
Il nome "tarpan" o "tarpani" deriva da un nome in lingua turca (kazako o kirghiso) che significa "cavallo selvaggio". I tartari e i cosacchi distinguevano il cavallo selvaggio dal cavallo ferale; quest'ultimo era chiamato Takja o Muzin. Questo tarpan maschio aveva allora 18 anni, grigio scuro con macchia bianca sulla tibia anteriore sinistra. La criniera era molto lunga; la coda è stata tagliata dai custodi. Il tarpan fu catturato nel 1866 nella steppa di Zagradovsk e visse fino al 1880 a Novovorontsovka, fino a raggiungere lo zoo di Mosca il 29 maggio 1884, anno a cui risale questa foto. Fu castrato a partire dai 3 anni di età, e forse non era un esemplare puro. La sua altezza al garrese era di 133 cm.

Si ha notizia che nel 7.000 a.C. esistessero, nelle steppe comprese tra Mar Nero e Caucaso (le steppe pontico-caspiche), popolazioni definibili come "indoeuropee" che possedevano un linguaggio comune. Il protoindoeuropeo, indicato anche comunemente come indoeuropeo, è la protolingua che, secondo la linguistica comparativa, costituisce l'origine comune delle lingue indoeuropee. Le somiglianze fra queste lingue, attestate a partire dal 2000 a.C. circa, impongono agli studiosi di assumere che esse siano la continuazione di una protolingua preistorica, parlata circa settemila anni fa e chiamata per convenzione proto-indoeuropeo. L'indagine sistematica fra le documentazioni più arcaiche delle lingue indoeuropee permette di ricostruire, sia pure in via ipotetica, la grammatica e il lessico della protolingua, grazie al metodo comparativo. In Germania, dove pure gli studi sull'indoeuropeo ebbero la loro prima formulazione coerente, viene preferito il termine "Indogermanisch" per indoeuropeo e "Urindogermanisch" per indicare la protolingua.

Le steppe pontico-caspiche.
La teoria kurganica è una teoria linguistica e archeologica che cerca di descrivere la diffusione delle lingue indoeuropee in Eurasia a partire da una patria originaria (chiamata Urheimat) individuata nelle steppe comprese tra Mar Nero e Caucaso (steppe pontico-caspiche), diffusione esercitata da popolazioni di ceppo indoeuropeo che esercitavano l'inumazione dei defunti che avevano detenuto potere, nei kurgan. Il kurgan è il tumulo funerario usato dagli Sciti per inumare i feretri della propria aristocrazia. Non solo monumento funebre ma, al tempo stesso, espressione del potere e della ricchezza raggiunti, simbolo distintivo in una società guerriera fortemente stratificata. Proposta per la prima volta, nelle sue linee generali, da Otto Schrader negli ultimi anni del XIX secolo, l'ipotesi dell'indoeuropeizzazione a partire dalle steppe venne in seguito ripresa da Vere Gordon Childe nel 1926 nel suo libro "The Aryans" e fu successivamente perfezionata da Marija Gimbutas dal 1952. A Gimbutas in particolare, va ascritta l'identificazione del processo di  indoeuropeizzazione con quello della diffusione della cultura kurgan, da lei approfonditamente studiata in numerosi saggi, raccolti nel 1997 nel volume postumo "The Kurgan Culture and the Indo-Europeanization of Europe: Selected Articles from 1952 to 1993". Nel 1989 le teorie di Gimbutas sono state riviste e aggiornate in base alle nuove scoperte archeologiche da vari studiosi, tra cui James Patrick Mallory. Nonostante le critiche ricevute, la teoria dell'invasione calcolitica (il calcolitico, sinonimo di Eneolitico in paletnologia, è la fase finale del neolitico, durante la quale continuava l’uso della pietra e incominciava quello di leghe di rame), nella forma proposta da Gimbutas, appare oggi una teoria fortemente accreditata e sostenuta da basi scientifiche. La teoria kurganica si può riassumere nei seguenti termini:
- le tribù indoeuropee erano società patriarcali governate da un *hrḗǵs, da cui rex in latino (un re che era un capo guerriero eletto, ben diverso dai re-dèi egizi e mesopotamici), caratterizzate da una divisione gerarchica fra guerrieri, sacerdoti e lavoratori, con donne e schiavi relegati in secondo piano;
- gli Indoeuropei avevano una religione politeistica con al centro figure di dèi padri celesti, in opposizione alle religioni delle dee madri tipiche delle popolazioni preindoeuropee (i pantheon dei popoli indoeuropei  storicamente noti sono frutto di una fusione con la religione di substrato, con gli dèi padri che faticano a tenere a bada le dee madri: vedi le scene da un matrimonio della coppia olimpica Zeus - Hera);
- gli Indoeuropei si imposero sulle popolazioni neolitiche in virtù della superiorità militare data  dall'addomesticamento del cavallo.

Il prevalere del linguaggio indoeuropeo sulle lingue che precedevano l'indoeuropeizzazione è il frutto dell'imposizione di una nuova lingua da parte di un'élite militare.

Gimbutas sosteneva che le espansioni della cultura kurganica fossero essenzialmente una serie di incursioni militari attraverso le quali la nuova ideologia guerriera e patriarcale si fosse imposta sulla pacifica cultura  matriarcale della Vecchia Europa, processo osservabile tramite la comparsa di insediamenti fortificati e delle tombe dei capi-guerrieri: «Il processo di indoeuropeizzazione è stato un processo di  trasformazione culturalenon fisica. Questo processo deve essere inteso come una vittoria militare attraverso la quale venne imposto un nuovo sistema amministrativo, la lingua e la religione ai gruppi indigeni.» Marija Gimbutas, p.309. Successivamente Gimbutas evidenziò sempre più la natura violenta di questo processo di transizione dal culto della Dea Madre a quello patriarcale esplicitato dal culto del dio celeste (Zeus, Giove, Dyauṣ Pitā). Molti studiosi che accettano lo scenario generale della teoria kurganica sostengono che il passaggio fu probabilmente molto più graduale e pacifico rispetto a quanto suggerito da Gimbutas. Le migrazioni non furono certo il frutto di operazioni militari studiate e concordate ma l'espansione durata generazioni di varie tribù e culture scollegate fra loro. Fino a che punto le culture indigene siano state amalgamate pacificamente o violentemente cancellate rimane ancora un punto controverso fra i sostenitori dell'ipotesi Kurgan. James Patrick Mallory ha accettato l'ipotesi Kurgan come teoria standard sull'origine dei popoli indoeuropei ma giustifica le critiche allo scenario dell'invasione militare proposto da Gimbutas: «Si potrebbe pensare in un primo momento che le evidenze a sostegno della soluzione Kurgan ci obblighino ad accettarla completamente. Ma i critici esistono e le loro obiezioni si possono riassumere molto semplicemente: Quasi tutti gli argomenti a sostegno di una invasione e trasformazione culturale sono maggiormente spiegabili escludendo l'espansione Kurgan e la maggior parte degli indizi presentati o sono contraddetti da altri indizi o sono il risultato di una sbagliata interpretazione della storia culturale dell'Europa orientale, centrale e settentrionale.». Un'ulteriore critica ad uno degli aspetti centrali della cultura kurganica come la intende Gimbutas proviene dagli storici militari. 
Questi fanno notare che fino al 1000 a.C. (o poco prima) i cavalli non erano cavalcabili, o meglio non erano cavalcabili in battaglia

Cartina delle varie migrazioni
degli Indoeuropei dal
3.500 / 2.500 a.C.   
La cultura kurganica allevava i cavalli, dal 4.000 a.C. fin verso il 2.100-2.000 a.C. sia per mangiarli che come animali da soma. Imparò in seguito ad usare cavalli per trainare agili carri da caccia, corsa e guerra e a cavalcarli in maniera incontrollata (con nasiere e senza sella o sottopancia); finalmente dopo circa un millennio di tentativi e di selezioni del cavallo, fu  possibile  montarlo in maniera utile per poterlo impiegare in battaglia, controllandolo quindi con una mano o con le gambe e contemporaneamente poter brandire un'arma. Inizialmente quindi, i kurganici non avrebbero avuto molta superiorità militare sui popoli privi di cavalleria, oltretutto fino alla scoperta del carro leggero e soprattutto a quelle del morso e dell'arte equestre. Nessun popolo fu "veramente" nomade e i Kurgan, in particolare, vanno interpretati come l'espressione di una civiltà dedita ad una pastorizia transumante con al centro insediamenti fluviali. La scoperta della cavalcabilità del cavallo (tra il 1100 e il 1000 a.C.) fu una rivoluzione che mise in moto le steppe occidentali mentre forse ad est degli Altaj, con l'addomesticazione della renna, si era verificato un fenomeno analogo anche se la renna, a differenza di buoi, pecore, capre e cavalli usati dai kurganici, poco si adatta a condizioni di vita semi stanziali e transumanti.

Nel 3.000 a.C. l'Europa centro-orientale, ormai  completamente indoeuropeizzata  linguisticamente e culturalmente, diventa una seconda Urheimat (= casa originaria), il secondo centro dal quale si irradieranno tutte quelle culture protostoriche che favoriranno l'indoeuropeizzazione dell'Europa occidentale e meridionale. La divisione centum-satem è così completata.

Mappa diacronica che mostra
gli areali centum (blu) e satem
(rosso), la cui probabile area di
origine è in rosso scuro, da:
La divisione centum-satem (bisogna specificare, per il lettore italiano abituato alla pronuncia scolastica del Latino, che Centum va inteso nell'antica pronuncia dura della C, come K, altrimenti la derivazione dal termine indoeuropeo *ḱṃtóm non si comprende), è un'isoglossa (una linea che delimita la zona di un territorio che condivide un tratto linguistico comune) delle famiglia delle lingue indoeuropee, legata all'evoluzione delle tre consonanti dorsali ricostruite per il proto-indoeuropeo: *[kʷ] (labiovelare), *[k] (velare), e *[ḱ] (palatoalveolare). I due termini provengono dalle parole adottate per esprimere il numero "cento" (dall'indoeuropeo *ḱṃtóm) in due lingue rappresentative dei due gruppi (in latino centum e in avestico satəm). Le lingue centum sono caratterizzate da articolazioni velari, mentre nelle lingue satem ad articolazioni velari corrispondono articolazioni anteriorizzate (affricate palatali) o nettamente anteriori (sibilanti). Quanto a geografia, la divisione si presenta grosso modo verticale, con le lingue centum prevalentemente ad ovest (lingue germanicheceltichelatino e lingue romanzegrecovenetico e macedone antico) e le lingue satem specificatamente ad est, tra Europa orientale ed Asia, da cui derivarono i linguaggi *arya indoari del Rigveda e iranici dell'Avestā. Il tocario combina tutte le occlusive dorsali in una singola serie di velari e anche se la cronologia del cambiamento è sconosciuta, manca delle sibilanti tipiche delle lingue satem, perciò viene considerata centum. Le lingue satem includono le lingue indoarie, le lingue iraniche, le lingue baltiche, le lingue slave, l'albanese, l'armeno e altre poche lingue ormai estinte o assorbite, come il tracio ed il daco. Questo gruppo ha unito le velari e le labiovelari indoeuropee in un unico gruppo di velari e ha cambiato le palatoalveolari in sibilanti. Anche se si considera l'albanese una lingua satem, le velari e le labiovelari non si sono fuse in albanese e inoltre le palatovelari diventano sempre velari davanti alle sonanti (caratteristica centum). A lungo si è creduto che questa partizione rispecchiasse uno stato di fatto già indoeuropeo, ossia che già l'indoeuropeo in fase unitaria si presentasse diviso in un ramo occidentale di tipo centum e un ramo orientale di tipo satem. Teoria smontata in seguito alla scoperta, agli inizi del Novecento, di due lingue fino ad allora sconosciute, convenzionalmente battezzate tocario A e tocario B, nel nord-ovest della Cina, che si sono rivelate lingue centum. Ciò suggerisce che le lingue indoeuropee fossero in origine tutte centum e che solo successivamente le varie lingue indoeuropee centro-orientali abbiano anteriorizzato le occlusive velari divenendo quindi satem. Il proto-anatolico apparentemente non ha subito nessuno dei due cambiamenti. La serie delle velari rimane separata in luvio, mentre l'ittita può aver subito in un secondo tempo un cambiamento di tipo centum, ma l'esatta fonetica non è chiara.

Dal 2.100 a.C., popolazioni indoeuropee delle steppe colonizzano l'Asia centrale dove nasce la cultura di Poltavka. La cultura di Poltavka venne seguita dalla cultura di Sintashta (2100-1800 a.C.) - che mostra forti legami anche con la cultura di Abaševo - e dalla cultura di Andronovo (2000-1200 a.C.), quest'ultima è vista come la cultura che diede origini ai popoli indoiranici e al carro da guerra. L'assoluta irreperibilità di reperti ascrivibili alla cultura di Andronovo in India, ha fatto ipotizzare ad alcuni studiosi che gli Indoiranici, durante la loro graduale discesa verso sud, abbiano via via abbandonato le loro tradizioni nomadiche della steppa, adottando lo stile di vita stanziale e urbanizzato del cosiddetto BMAC, complesso archeologico bactriano-margiano. Si conclude che le popolazioni indoiraniche di cultura di Andronovo, originariamente stanziate nel territorio dell'odierno Kazakistan, si spostarono verso sud nel territorio dell'odierno Turkmenistan/Tagikistan dove adottarono la cultura urbanizzata di BMAC, dopodiché a causa di avvenimenti sconosciuti (il prof. Viktor Sarianidi parla di catastrofi naturali a seguito di cambiamenti climatici) si spostarono ancora una volta stabilendosi definitivamente prima in India, dove introdussero alcuni aspetti culturali del BMAC, e successivamente in Iran.

Ricostruzione del "cromlech"
di Stonhenge.
De Jubainville (Henri d'Arbois de Jubainville, docente e celtista francese; Nancy, 1827 - Parigi, 1910), pensava erroneamente che gli indoeuropei da cui erano derivati i proto-celti, chiamassero se stessi Ariani, dalla parola sanscrita Arya, i «fedeli», i «devoti», mentre erano stati soltanto i popoli iranici a chiamarsi così fra di loro (dal sanscrito ariyà, cioè "signore"). Nel 1800 il sanscrito veniva erroneamente ritenuto in Europa la lingua originaria dalla quale le lingue indoeuropee si fossero originate, portato in India da gruppi antropologicamente omogenei emigrati in epoca preistorica dall'Europa centrosettentrionale verso il Gange. Poiché i popoli di lingua indoiranica usavano chiamarsi Ari, l’uso del termine arisch fu esteso da parte dei teorici del nazismo a indicare la razza primigenia indoeuropea come ariana, ma si tratta di un falso storico, in quanto basato sull'erronea identificazione dell'antica lingua indoeuropea con la lingua indoiranica e inoltre sovrapponendo il concetto di razza all'insieme di popoli che adottarono tale lingua. Si è creato così il falso mito sull'esistenza di una razza e di una lingua pure, dall'idea che i popoli protoindoeuropei e i loro discendenti costituissero una "razza" distintiva della "razza Caucasica" (oggi indicata come Europoide), il tutto in un'erronea trasposizione sul piano biologico delle famiglie linguistiche. La parola "arianno" compare per la prima volta nel testo sacro degli Indoari Rigveda e nell'Avestā degli Iranici. I termini in lingua vedica e avestica sono derivati direttamente dall'"*arya" delle lingue indoiraniche, apparentemente un'autodenominazione  dei proto-Indoiranici. Ad oggi la suddivisione della specie umana in razze diverse è ritenuta non scientifica, tanto che anche la "Dichiarazione sulla razza" dell'Unesco del 1950 riconosce il concetto di etnia e non quello di razza, come unica suddivisione possibile della specie umana in cui sia riscontrabile una vera omogeneità tra gli individui. Scientificamente il darwinismo è fondato sul principio che l’evoluzione in cui gli individui adatti si differenziano è basato sulla biodiversità di razze che poi nel tempo si differenziano in specie, come accade in molti animali e vegetali anche artificialmente, e nelle specie vegetali e animali il vocabolo è scientificamente accettato e largamente utilizzato (ad esempio razza canina, razza bovina, razza equina, razza ovina etc.), ma nell’ambito umano è considerato politicamente scorretto e scientificamente improprio. Aggiungo poi che nel passato la specie Homo sapiens aveva come sottospecie il genere Homo sapiens sapiens, suddivisione non condivisa dalla maggioranza della comunità scientifica, che non riconosce alcun tipo di sottospecie al genere Homo sapiens.

La ricerca moderna, si è trovata in sostanziale accordo con quanto sostenuto già dalla storiografia latina: i Veneti condividono con i Latini una comune origine protostorica, anche se non attraverso quel comune legame con l'Antica Grecia (e con Troia in particolare) postulato dai Romani mediante il mito di Antenore. L'insieme indoeuropeo veneto-latino si era formato come gruppo a sé in un'area dell'Europa centrale, probabilmente ubicato entro i confini dell'odierna Germania e parte di un vasto continuum indoeuropeo esteso nell'Europa centro-orientale fin dagli inizi del III millennio a.C. Da qui mosse verso sud nel corso del II millennio a.C., probabilmente intorno al XV secolo a.C.; mentre una parte di queste genti proseguì fino all'odierno Lazio (i Latini), il gruppo che avrebbe dato origine ai Veneti si insediò a nord del Golfo di Venezia e lì si attestò definitivamente. Anche le altre popolazioni italiche di epoca storica, quali UmbriVolsciSannitiMarsi e Sabini, appartenevano al gruppo di popolazioni indoeuropee, stanziatesi in Italia, a seguito di migrazioni via terra, lungo la dorsale appenninica, seguendo un percorso da nord a sud, successive a quella dei Latini. I Latini diedero origine al popolo romano. Oggetto di dibattito è, oltre il luogo di provenienza del popolo latino, anche l'età in cui avvenne la sua migrazione nell'attuale Lazio. L'archeologia rileva che nella tarda età del bronzo il territorio a sud del Tevere era caratterizzato dalla cosiddetta facies  laziale o cultura laziale (X-VIII secolo a.C.), regionalizzazione della precedente cultura protovillanoviana (collegabile con la civiltà dei campi di urne dell'Europa centrale) che uniformò l'area tirrenica della Toscana e del Lazio fra il XII e il X secolo a.C. sovrapponendosi alla cultura appenninica che dominava la regione nei secoli precedenti. Alla cultura laziale viene associata la formazione dell'ethnos latino che sul finire del secondo millennio a.C. si era già costituito in una serie di comunità (menzionate da Plinio il Vecchio) che avevano come centro principale Alba «Longa». La famiglia toponimica paleoligure di Alba, connessa a idronimi paleoeuropei in Alb- e, apofonicamente, al tipo Olb- (anche Orb- in area ligure), non rappresenta una formazione diretta sull’aggettivo indoeuropeo albho- ‘bianco’, ma, insieme a questo, continua un radicale pre-protoindoeuropeo Hal-bh- ‘acqua’ attestato anche dal sumerico halbia, (accadico halpium, ‘sorgente, massa d’acqua, cavità d’acqua’) ed è ulteriormente analizzabile come ampliamento della radice protoindoeuropea Hal- ‘nutrire’. Ciò significa che la regione era occupata dai liguri Siculi, (i Siculi sarebbero stati Liguri, cacciati dalla loro terra dagli Umbri e dai Pelasgi, che passarono in Sicilia sotto la guida di Siculo, tre generazioni o ottant' anni prima della guerra di Troia, avvenuta presumibilmente dal 1.190 a.C.) i quali diedero i nomi dei fiumi e degli abitati secondo il loro linguaggio, così come Albinia, nell'Argentario, territorio che fu etrusco, ancora una città Alba vicina al Fucino, e Alba in Piemonte, un monte Alburnus in Lucania, un fiume Alba in Sicilia, ricordato da Diodoro Siculo; e in Liguria Alba Pompeia, Alba Decitia, e Albium o Album o Alba Intemelium e Ingaunum, (Albenga da Albium Ingauna e Ventimiglia da Albium Intemelia); Albiei e Alba nella Provenza; Alba nella Betica in Spagna e Alba fiume a nord-est della Spagna. Ancor più sorprendente il ricordo di Strabone, che le Alpi prima avevano il nome di Albia, e Albius mons era detta la sommità delle Alpi Giulie.

Dal 1.700 a.C., la coda della migrazione degli indeuropei dall'oriente, ha contatti con gli Sciti, di origine indoeuropea essi stessi e allevatori di cavalli. Gli indoeuropei che sarebbero divenuti i proto-celti, come gli Sciti avevano società patriarcali e culti di divinità maschili-solari, oltre ad altre usanze comuni: l'uso delle  tombe tumulo (kurgan), l'allevamento del cavallo, ritenuto sacro, il rito di tagliare e conservare la testa del nemico a protezione della propria capanna, la suddivisione in tre classi sociali (guerrieri, sacerdoti e lavoratori) in cui gli aristocratici possedevano più cavalli. I Proto-Celti, diedero un grande impulso all'agricoltura dei cereali  ed ebbero il merito di diffondere in Europa l'uso dei metalli (inaugurando l'età del ferro) e del  cavallo. L'ampia diffusione dei metalli e della loro lavorazione è testimoniata dalla presenza di lavoratori di metalli nei Balcani orientali e l'influenza esercitata da questi fu notevole per tutta l'Europa centrale, specialmente per la sostituzione delle asce neolitiche realizzate in pietra o in corno con quelle in rame e in bronzo. Una delle strade attraverso le quali si diffuse la conoscenza delle asce di metallo fu forse quella che percorreva le steppe del Ponto, provenendo dal Caucaso. Oltre alla lavorazione dei metalli o alle asce da battaglia, gli allevatori pontici ed europei avevano altre caratteristiche in comune. L'inumazione in tombe singole, spesso sotto un tumulo circolare, con il corpo accompagnato dalle armi e dalla mobilia posseduta in vita dal defunto, costituiva la forma di sepoltura maggiormente diffusa, mentre nel vasellame lo erano alcune forme particolari e diversi tipi di decorazioni. Queste popolazioni praticavano l'allevamento di suini e bovini, ma maggior interesse suscitano le tecniche di allevamento dei cavalli e il loro sfruttamento. Ossa di cavallo insieme a quelle di suini e bovini (tutti animali aventi forti valori simbolici legati all'Altromondo) sono state ritrovate frequentemente nelle tombe in tutta la zona culturale presa in esame. A quell'epoca le mandrie di tarpan, il piccolo cavallo eurasiatico, costituivano molto probabilmente un importante mezzo di trasporto e il loro valore come bestie da soma lascia pensare che non vennero utilizzate come carne da macello, a differenza di bovini e suini. Tuttavia si può supporre che i pastori del III e II millennio a.C. non utilizzarono il tarpan come mezzo di spostamento rapido, data la sua piccola taglia, e che questo antenato dei cavalli celtici venne considerato un animale da cavalcare solo in grazie a pasture migliori e allevamenti più selezionati. L'ipotesi di una grande invasione di popolazioni indoeuropee irrompenti in Europa dalle steppe eurasiatiche all'inizio del II millennio a.C. è basata sull'idea di utilizzo del cavallo come mezzo di spostamento rapido per gruppi di guerrieri armati di lance, spade, scudi, elmi e pugnali in metallo, anche se diversi studiosi oggi preferiscono pensare a un'espansione incruenta dovuta più alla diffusione di idee religiose, sociali e soprattutto tecnologiche che a una immigrazione consistente. La diffusione degli indoeuropei in Europa portò quindi nuove caratteristiche culturali e tecnologiche e determinò notevoli cambiamenti. Importante è sottolineare il fatto che le antiche culture europee cominciarono da questo momento ad abbandonare il matriarcato per accettare il patriarcato portato dai nuovi venuti, riducendo i riti per il culto della fertilità orientati verso la terra, per passare all'adorazione degli dèi solari. Gli studiosi sono ormai concordi nell'affermare che le tribù indoeuropee giunsero in Europa in un arco di tempo ampio compreso fra il 3500 e il 1200 a.C., apportando rilevanti innovazioni tecnologiche e contribuendo alla trasformazione profonda delle strutture sociali, culturali e religiose delle popolazioni neolitiche. Intorno al XIII secolo a.C., quando tutto il Mediterraneo stava vivendo un periodo caratterizzato da catastrofi naturali quali terremoti, siccità, maremoti e gelo, giunse l'ultima ondata di tribù indoeuropee che completò l'opera di mutamento culturale destinato a modificare per sempre il volto dell'Europa, con lo sviluppo del fenomeno celtico prima e germanico poi.

Carta tolemaica del III secolo
della Scizia (Scythia e Serica)
La Scizia è separata in due parti
dai monti Imai (l'Himalaya).
Da https://oggiscienza.it/2017/05/05/sciti-domesticazione-cavallo/index.html: Tra le tante specie animali addomesticate, il cavallo è forse quello che più ha fatto la differenza in termini di fruttuosa alleanza con l’uomo, soprattutto nell’ambito della vita bellica. E c’è un’intera regione geografica che, senza la domesticazione del cavallo, avrebbe avuto certamente una storia molto diversa. Il riferimento va alle ampie steppe eurasiatiche, terre selvagge e difficili per gli esseri umani, habitat naturali dei cavalli. In una schiera di popolazioni nomadi che hanno abitato nei secoli queste regioni ce n’è una che più di altre ha fatto del cavallo il suo principale mezzo di sussistenza: gli Sciti, che gli storici considerano generalmente di origine iranica, con un periodo di esistenza collocato generalmente tra il IX secolo a.C. al I secolo a.C. Le loro scorribande avvenivano in un’area piuttosto ampia, che andava dalla Siberia meridionale e al Kazakistan fino alle attuali Ucraina, Romania e Moldavia. La loro simbiosi con i cavalli era tale che non solo ne facevano il principale mezzo di trasporto, ma ne consumavano le carni e persino il latte, e credevano che i loro fedeli destrieri li avrebbero accompagnati anche nell’oltretomba. Le tracce più antiche di bardatura e uso della sella si ritrovano proprio nei siti archeologici attribuiti ai cavalieri Sciti, dove donne guerriere, a stento distinguibili dagli uomini, erano comuni.
Secondo la teoria kurganica, nel 1.700 a.C. gli Sciti, popolazione indoeuropea di origine iranica formatasi dalla cultura di Srubna, si stanziano inizialmente nello Yenissei e proseguiranno poi verso l'Altaj ed il Caucaso, in direzione ovest, dilagando nelle steppe pontico-caspiche (costringendo i Cimmeri a migrare a sud del Caucaso) da dove si spingeranno successivamente in Europa orientale, spinti verso ovest delle tribù Hiung-nu (Xiōngnú o Hsiung-nu, identificate da alcuni studiosi con il popolo degli Unni), che muovendosi verso occidente mettevano in breve tempo in moto tutte le tribù nomadi delle steppe. Erodoto afferma che in origine gli Sciti sarebbero stati scacciati dagli Issedoni, un popolo del profondo nord. Gli Sciti avrebbero poi guadato il Volga e si sarebbero insediati negli antichi territori dei Cimmeri, poi chiamati Scizia, poiché erano stati braccati dai Massageti. L'invasione del regno dei Cimmeri lacerò quest'ultimi: la popolazione voleva semplicemente fuggire mentre i sovrani non volevano cedere all'invasione scita. Approssimandosi l'arrivo degli Sciti, i sudditi abbandonarono le loro terre senza combattere e i re, rimasti soli, si divisero in due gruppi e combatterono tra loro sterminandosi a vicenda. I loro corpi vennero seppelliti lungo le rive del fiume Dnestr. « Pare che i Cimmeri, in fuga dagli Sciti, si siano rifugiati in Asia (la penisola anatolica, N.d.R.) e abbiano colonizzato la penisola nella quale sorge attualmente la città greca di Sinope » (Erodoto, Storie, IV, 12, 2). 
Cavaliere Scita della Cultura
Pazyryk con un'arcaica
sella, reperto in feltro.
Immagine da https://it.wiki
pedia.org/wiki/Sciti#/media/
File:PazyrikHorseman.JPG
.
Non c’è popolazione migliore, dunque, per indagare la storia genetica della domesticazione del cavallo. Su “Science” è appena stato pubblicato uno studio che racconta nei dettagli i cambiamenti apportati dalla selezione a opera dell’uomo negli ultimi 2300 anni. Il lavoro porta la firma di un team composto da ben 33 ricercatori internazionali guidati da Ludovic Orlando del Natural History Museum of Denmark, e si basa sull’analisi di resti equini eccezionalmente conservati estratti da sepolture reali degli Sciti, e provenienti in particolare dal sito di Arzhan, nella Repubblica di Tuva, e da quello di Berel’, in Kazakistan. Applicando i metodi più avanzati di sequenziamento del DNA, gli autori sono riusciti a sequenziare i genomi di 13 stalloni sciti con un’età compresa tra 2.700 e 2.300 anni fa: due provenivano da Arzhan e 11 da Berel’. Un altro genoma è stato ricostruito analizzando i resti di una giumenta proveniente da un sito ancora più antico, risalente a circa 4.100 anni fa e situato a Chelyabinsk, Russia, appartenente alla più antica cultura Sintashta, capace di inventare il carro a due ruote trainato dai cavalli. Le analisi hanno evidenziato un’ampia varietà di colorazioni del manto tra i cavalli degli sciti, tali da includere il baio, il sauro, il nero, il crema e il pezzato. Alcune tracce genetiche mostrano che gli sciti avevano iniziato già a selezionare i cavalli anche in base alle loro performance nella corsa e nella resistenza, caratteristiche oggi alla base delle varietà da corsa. Fatta eccezione per due individui, tutti gli altri non erano relazionati tra loro, dando implicitamente conferma alle testimonianze storiche di Erodoto, che narrava come tra gli Sciti fosse in uso la pratica di seppellire insieme agli alti membri della società, cavalli donati da altre popolazioni alleate, in pegno di fedeltà. Ma un dato particolarmente interessante riguarda l’assenza d’inincrocio – cioè gli accoppiamenti tra consanguinei – a dimostrazione che gli Sciti furono in grado di mantenere le mandrie di cavalli allo stato brado, senza ricorrere a selezioni ristrette tra un numero limitato di linee pure. 
Carta della Scizia, con le popolazioni
Scite in marrone, gli Agatirsi
assimilabili agli Sciti in verde e le
popolazioni limitrofe in ocra. Clicca
sull'immagine per ingrandirla.
È un dato che contrasta con il quadro attuale, dove prevale la pratica di affidarsi a singoli stalloni selezionati per generare centinaia di generazioni. Pur mantenendo la naturalità dei metodi di allevamento, secondo le analisi compiute, gli Sciti hanno contribuito a selezionare ben 121 geni nei cavalli, relativi soprattutto agli arti anteriori, e che raccontano il loro impegno compiuto nella selezione d’individui dotati di arti robusti. I dati raccolti hanno permesso di ricostruire con maggiore dettaglio la storia completa della domesticazione del cavallo, che ebbe origine circa 5.500 anni fa, per poi subire un drastico collasso demografico e della varietà genetica a partire da 2.300 anni fa. Una crisi della diversità genetica che stride con l’ampia variabilità di cui oggi siamo a testimonianza. “Molti aplotipi del cromosoma Y coesisterono nelle popolazioni di cavalli degli sciti”, ha precisato Cristina Gamba, coautrice dello studio. “I primi tre millenni di domesticazione del cavallo preservarono un’ampia diversità di linee genetiche paterne, per poi svanire negli ultimi 2.000 anni”. Il quadro che emerge rende dunque onore agli Sciti, popolazione tradizionalmente descritta come sanguinaria e violenta, e invece capace di instaurare un rapporto di pacifico rispetto e convivenza con i loro alleati a quattro zampe. Al contrario di quanto si ipotizzava, la domesticazione nelle sue fasi iniziali non ebbe affatto un impatto negativo, e anzi gli sciti e i loro predecessori mantenerono i cavalli nella salute e nell’abbondanza, selezionando caratteristiche vantaggiose e di successo, prima che le razze equine accusarono il colpo, subendo un calo drastico di varietà genetica nei due millenni successivi.

Il poeta greco Esiodo (VIII secolo a.C. - VII secolo a.C.), riportato da Strabone in "Geografia", riferendosi ai più antichi abitanti continentali del Mar Mediterraneo, riporta: "...gli Etiopi e i Liguri e gli Sciti mungitori di cavalle".

Carta del 1770 redatta secondo le
 fonti letterarie greco-romane.
 Le Amazzoni sono state poste
 nella parte più settentrionale
 della Sarmazia asiatica. La carta
 mostra anche l'ubicazione
dell'Albania caucasica, della
 Scizia e della Palude Meote,
l'odierno mar d'Azov:
 tutti luoghi variamente citati
dagli autori classici come
patria delle Amazzoni.
Franz von Stuck: "Amazzone ferita"
(1903)
Donne guerriere ed eroiche sono sempre apparse nei miti antichi, fin dalle antiche  Amazzoni della Scizia, la cui regina Pentesilea osò  sfidare Achille, essendone poi sconfitta. Fra i Romani,  Virgilio cantò nell’Eneide le gesta di Camilla. Eschilo, nella sua tragedia "Prometeo incatenato", sposa l'origine caucasica delle Amazzoni e accenna ad una loro  emigrazione quando fa profetizzare, da Prometeo, la sorte di Io. Alla fanciulla - che era stata trasformata in giovenca e che stava disperatamente fuggendo dal castigo di Era - viene rivelato il fatto che le  aspetta un lungo viaggio, alla fine del quale raggiungerà il Bosforo, dove sarà liberata, non prima però, di aver visitato vari luoghi dell'Asia occidentale, tra cui i monti del Caucaso e la palude Meotide (il mar d'Azov) dove vivevano le Amazzoni. Erodoto colloca invece le Amazzoni in Scizia, presso il fiume Tanai (antico nome del Don), cercando di coniugare, così come già accennava Esiodo, i vari racconti mitologici degli scontri fra gli eroi greci e le Amazzoni di Temiscira, con i resoconti etnografici dell'epoca sui Sàrmati, popolazione nomade di etnia iranica, le cui donne combattevano con gli uomini a cavallo, vestivano come loro e non si sposavano prima di aver ucciso un nemico in battaglia. Secondo Teofane di Mitilene che avrebbe compiuto, come riferisce Strabone, una spedizione in quei luoghi, le Amazzoni sarebbero vissute ai confini settentrionali dell'Albania caucasica in quanto separate dal fiume Mermadalis dalle terre degli Sciti e di altre popolazioni nomadi del Caucaso.
Carta del 100 a.C. con la Scizia
 e Sarmazia oltre alla Partia.
In base alle raffigurazioni antiche, le Amazzoni combattevano a cavallo e a piedi, usando le armi ordinarie dei greci e a volte alcune armi "barbariche" come l'ascia bipenne e lo scudo lunato. Tipiche vesti delle amazzoni sono il berretto frigio e la tunica scita con pantaloni vivacemente decorati. Le armi principali delle Amazzoni sono l'arco, l'ascia bipenne ed uno scudo particolare, piccolo ed a forma di mezzaluna, chiamato pelta. Prima di ogni battaglia suonano il sistro, uno strumento che, producendo un suono limpido e cristallino, non può avere lo scopo di intimorire il nemico, ma solo quello di ingraziarsi gli dèi. Il combattimento a cavallo era la loro specialità (ancora oggi "amazzone" è sinonimo di "cavallerizza"). Selezionavano i loro animali e mantenevano con loro un rapporto di affiatamento totale che le rendeva delle perfette centaure; cavalcavano stalloni nei  tempi in cui i Greci si dovevano accontentare di cavalli di taglia minore.

Dal 1.200 a.C. popolazioni nomadi a cavallo e armate di arco, fra cui i sarmatici Roxolani, Iazigi, Aorsi e Alani oltre ai  Taifali, domineranno a lungo il territorio fra le pianure del Danubio e le steppe del mar Nero. Nonostante l'invasione di Goti e Vandali nel III sec. d.C., gli eserciti dei quali erano principalmente formati da agricoltori appiedati, Sàrmati e Taifali riuscirono a preservare il loro dominio in alcune aree, almeno sino alla comparsa degli Unni. 

Carta con quella che ancora
oggi chiamiamo "Pianura
Sarmatica" fino al Kuban'
caucasico.
I Sàrmati erano un popolo della steppa di schiatta iranica affine agli Sciti, di origine iraniana che in origine abitavano le steppe lungo il Volga, le regioni pedemontane degli Urali meridionali e la steppa del Kazakistan occidentale. Nei loro territori d'origine essi si scontrarono con i Battriani, i Parti e i Sogdiani. In diversi periodi e a diverse ondate si spinsero verso occidente finché, in seguito alla pressione degli Unni, nel IV sec. d.C. si stanziarono lungo il Danubio. Le loro abilità come cavalieri erano molto sviluppate, e gli si attribuisce anche l’invenzione di staffa e sperone di metallo. L’attuale conoscenza dei Sàrmati è dovuta principalmente alle tradizioni relative alla sepoltura. Nella regione del Kuban della Russia meridionale sono presenti delle tombe sàrmate molto elaborate, al cui interno si trovano armi pregiate, opere di metallo (come le staffe) e gioielli, che forniscono molte informazioni sulla loro vita di tutti i giorni. Le armature femminili con corazza a scaglie simili a quelle dei catafratti indicano che le donne sàrmate erano pericolose quanto gli uomini; si pensa che alle nubili fosse permesso cavalcare in battaglia accanto agli uomini, cosa che potrebbe aver dato origine al mito greco delle Amazzoni. Erodoto riconosce i Sàrmati (Sauromati per gli antichi Greci) come gli abitanti della Russia meridionale a oriente del Don. La leggenda greca li considerava nati da Sciti e da Amazzoni, e in tal modo spiegava l'affinità con gli Sciti e le abitudini guerriere delle donne. La tribù più importante e forse più ellenizzata sembra essere stata quella degli Iazamati, già ricordata in Ecateo. Dalla seconda metà del sec. IV a. C. si hanno le prime tracce dei Sàrmati, che diventano però chiare solo nel sec. II a.C.: Polibio testimonia un regno di Sàrmati per il 179 a. C. fra il Don e il Dnepr. Aperti alla cultura e alla religione persiana, si dividevano probabilmente in quattro tribù:
- I Roxolani (o Rossolani) si insediarono nei territori occupati dagli Sciti a nord e a nord ovest del Mar Nero (tra il III secolo a.C. e il II d.C.) e con essi, in un primo momento, stabilirono un rapporto di alleanza. Quando questo rapporto venne meno, i Sàrmati conquistarono i territori degli Sciti assoggettando la popolazione al loro potere.
- Gli Iazigi si insediarono nei territori a ovest dei Daci e a sud dei Germani, sia a est che a nord del Danubio, tra il III secolo a.C. e il II d.C.
- Degli Aorsi si sa poco: è probabile che si siano stanziati nei pressi del regno del Bosforo, a sud-est degli Alani.
- Gli Alani si insediarono a est del Mar Nero, a nord del Caucaso e degli Aorsi, descritti dai Romani come allevatori di cavalli. Saranno la popolazione Sarmatica di più lunga durata. Parte di loro si convertirono al cristianesimo ariano nel IX secolo, combatterono poi contro i Mongoli prima, e accanto ad essi poi (una serie di tombe, forse di guerrieri Alani cristiani, è stata rinvenuta in una necropoli mongola in Corea); gli Alani rimasti in Europa si stabilirono sul Caucaso occidentale, dove subirono una più o meno forte influenza turca ed islamica nel XIV-XVII secolo, e poi un processo di parziale russificazione tra il tardo Settecento e i giorni nostri. Attualmente sono noti come Osseti.
I Sàrmati erano abili cavalieri e in battaglia si dividevano in cavalieri pesanti (catafratti, che indossavano armature formate da squame metalliche e armati con il kontos, la lunga lancia da impatto sarmatica) e leggeri (arcieri a cavallo). In epoca greco-persiana, i Sàrmati si erano scontrati con i Persiani durante il regno di Dario I il Grande, quando questi aveva deciso che per rendere più sicuri i confini dell'Impero bisognasse assoggettare i popoli che vivevano sulle montagne del Caucaso nord-orientale.
Da https://www.mondimedievali.net/Barbar/sarmati.htm: I Sarmati o "Sauromati" (la seconda forma è per lo più utilizzata dai primi scrittori greci, l'altra dai Greci del periodo classico e poi dai Romani), erano un popolo che Erodoto nel V secolo a.C. posiziona sul confine orientale della Scizia al di là del Tanais (il fiume Don), uno dei tanti "vicini scomodi" della cultura ellenistica. Eppure, a differenza di molti altri gruppi etnici a loro molto prossimi, fin da subito la loro storia si è colorita di tratti leggendari che, come dimostrano recenti teorie (forse più romanzesche che scientifiche), perdurano fino ad oggi, donando a questi nomadi dell'Asia nord-occidentale una sorta di alone mitico e misterioso, spiegabile, in realtà, unicamente nella loro commistione tarda con gli usi delle popolazioni occidentali con cui vennero in contato e, dunque, con il loro rappresentare una sorta di "alterità assoluta" per i loro vicini occidentali.
ORIGINI ED EVOLUZIONE - La mitizzazione dei Sarmati comincia già con Erodoto che, in un racconto sulla loro origine, li descrive come i discendenti di un gruppo di giovani uomini sciti e un gruppo di amazzoni, tentando in questo modo di spiegare due tratti peculiari di questo popolo:
1) il loro linguaggio simile a quello degli Sciti ma con numerose forme "impure" derivanti chiaramente da altre matrici;
2) l'estrema libertà delle donne sauromatae, che includeva anche la partecipazione alle attività belliche, una libertà insolita persino per le popolazioni delle pianure orientali (in cui, comunque, come altrove osservato, le donne avevano già un ampio grado di autonomia rispetto, ad esempio, ai greci) e che lo storico vede come eredità delle loro antenate amazzoni.
In realtà, recenti studi sul DNA estratto da 13 inumazioni sarmate sparse tra Pokrovka e Meirmagul hanno permesso una analisi comparativa che ha dimostrato come la maggior parte dei tratti genetici di questo popolo lo collochi nell'ambito di una origine eurasiatica occidentale, sebbene alcune inumazioni dell'Europa centrale e orientale dimostrino "contaminazioni" di origine asiatica, probabilmente dovute ad elementi di apparentamento e fusione con tribù nomadiche assorbite per prossimità.
E', dunque, quasi certo che i Sarmati altro non fossero che un ramo proto-iranico stanziatosi nel sud dell'attuale Russia e negli Urali tra VI e IV secolo a.C., fortemente imparentato, di conseguenza, con altre genti iraniche come gli Sciti .
Anche l'analisi linguistica concorda con questa teoria: gli scritti greci sui Sarmati pullulano di nomi di persona chiaramente iraniani e provano come tra loro si parlasse un dialetto del nord-est iraniano molto prossimo al sogdiano e all'osseto, cosa questa provata anche dalle supposte iscrizioni sarmatiche trovate tra Olbis, Tanais e Panticapeo che starebbero a provare, con la loro estrema prossimità con l'osseto, come proprio gli Osseti (comprovatamente di ceppo iranico) siano i rappresentanti moderni della popolazione sarmata e come, dunque, essa avesse un collegamento con gli Alani iranici.
Su queste basi, dal 1947, l'eminente storico sovietico Boris Grakov ha studiato la cultura sarmatica basandosi su ritrovamenti in alcuni kurgan (altro elemento che, indubbiamente, relaziona Sarmati e Sciti, sebbene sia molto probabile che i Sarmati riutilizzassero kurgan sciti più antichi), definendola una cultura nomade delle steppe che vanno dal Mar Nero all'area al di là del Volga, capace di formare una vera e propria rete di comunicazione in tutta l'area della steppa uralica (cosa particolarmente evidente in due dei principali siti a Kardaielova e Chernaya). Le date di sviluppo di tale cultura (dal VII secolo aC al IV secolo d.C.) e la posizione dei ritrovamenti sono in perfetta sintonia con le informazioni scritte che abbiamo su i Sarmati e, di conseguenza, Grekov ha definito quattro fasi distinte di evoluzione per questo popolo:
- periodo sauromatco, VI-V secolo a.C.;
- periodo proto-sarmatico, IV secolo a.C.;
- periodo medio-sarmatico, tra la fine del II secolo a.C. e la fine del II secolo d.C.;
- periodo tardo-sarmatico, tra la fine del II secolo d.C. e il IV secolo d.C.
Ultimamente, poi, un altro filone di ricerca ha cercato di comprendere quali infiltrazioni abbiano potuto distanziare così nettamente i Sarmati dal ceppo scitico che appare chiaro essere, di base, il loro nucleo di provenienza. I risultati di tali ricerche, sviluppate soprattutto su basi linguistiche ed etno-antropologiche sono stati stupefacenti: i Sarmati, infatti, avrebbero subito numerose influenze proto-celtiche, soprattutto nella regione di Basternae, da parte di Celti Boii, Scordisci e Taurisci, "imparentandosi" etnicamente in questo modo con i Traci e dando origine, in particolare nella zona più settentrionale del loro insediamento, a un gruppo tribale leggermente diverso (ma, nel continuum comunicativo uralico di cui si parlava, sostanzialmente indifferenziato rispetto agli altri gruppi) detto "Keltoskythai", "Sciti celtici".
Forse anche questo contatto prolungato (fino all'unione etnica) darebbe ragione del passaggio dal periodo sauromatico puro al periodo proto-sarmatico e medio-sarmatico (l'ultimo passaggio sarebbero più imputabile a contatti con le popolazioni occidentali), il che spiegherebbe, tra l'altro anche alcune discrasie nelle descrizioni degli storici antichi e nei ritrovamenti attuali.
Se, infatti, leggiamo Tacito (Germania, cap. 46), troviamo i Sarmati descritti come abitati semi-primitivi dei boschi, con un aspetto quasi animalesco e con l'abitudine a spostarsi principalmente a cavallo. In Strabone, invece, i Sarmati sono descritti come una popolazione numerosa, estesa dal nord del Danubio all' est del Volga e dal nord del Dnepr al Caucaso, nomade (Strabone usa il termine "Hamaksoikoi", "abitanti dei carri"), abituata a vivere in yurte (le tende di feltro universalmente utilizzate dai nomadi asiatici) e a cibarsi di koumiss (Stabone parla di "Galaktophagoi", "mangiatori di latte").
Oggi, lo studio dei costumi funerari ci offre, comunque, una ulteriore panoramica dei progressi della struttura sociale sarmatica: le prime tombe rinvenute presentano, infatti, solo i resti del defunto, mentre nelle inumazioni più tarde vi è l'inclusione di oggetti personali a seguito dell'emergere di differenze di classe e a dimostrare che la società è diventata più complessa e ricca, fino alle sepolture della regione di Kuban, che mostrano tombe più elaborate, simili a quelle degli Sciti, in cui sono presenti anche una notevole quantità di oggetti d'oro.
LA STORIA E LA CULTURA - Il progressivo sviluppo dei Sarmati si evidenza in tutta la sua completezza analizzando la loro espansione territoriale nel corso dei secoli, frutto sia di un notevole evoluzione delle tecniche equestri e belliche, sia di una non indifferente capacità amministrativa e di notevole astuzia politica.
Così, dal V secolo a.C. i Sarmati avevano il pieno controllo delle terre tra gli Urali e il fiume Don, ma già nel secolo successivo avevano attraversato il Don e conquistato gli Sciti, sostituendoli come governanti di quasi tutto il sud della Russia: è in questo periodo che il geografo Tolomeo riporta una loro espansione fino ai confini europei e nelle zone centrali asiatiche, con una sovrapposizione dei nomi tribali tra gli Sciti e i Sarmati, ora dominanti. Nel II secolo l'espansione continua e i Sarmati, in epoca neroniana, penetrano nella provincia romana della Mesia Inferiore (Bulgaria), formando un'alleanza con le tribù germaniche che rappresenta una grave minaccia per i Romani in Occidente.
Tacito, però, nel De Origine et situ Germanorum parla di "paura reciproca" tra i popoli germanici e i Sarmati, il che potrebbe far pensare ad un'alleanza notevolmente instabile, sebbene produttiva. Certamente, intorno al 100 a.C., le terre dei Sarmati in Europa andavano dal Mare di Barents e del Mar Baltico ("Oceanus Sarmaticus") ai Carpazi, alla foce del Danubio e, verso est, lungo la costa settentrionale della Mar Nero, attraverso il Caucaso e il Mar Caspio e lungo il Volga fino al circolo polare.
Nei secoli finali della loro esistenza, i Sarmati invasero la Dacia (Romania) e la regione del Danubio inferiore, solo per essere sopraffatti dai Goti nel corso del III secolo: in questa occasione molti di loro si unirono ai vincitori durante l'invasione gotica dell'Europa occidentale.
Sicuramente, intorno al 332 d.C., i Goti attaccarono i Sarmati a nord del Danubio, in quella che oggi è la Romania e per frenare l'espansione germanica, l'imperatore romano Costantino dovette spostare le sue truppe dalla Gallia e condurre una campagna invernale, che si risolse in una sua schiacciante vittoria, con l'uccisione di 100.000 Goti. I Sarmati aiutarono i Romani in tale campagna ma, scacciati i Goti, le popolazioni locali si rivoltarono contro i loro antichi dominatori provenienti dall'Asia, spingendoli al di là del confine romano. Costantino, al quale i Sarmati avevano chiesto aiuto, debellò la rivolta ma trasferì la popolazione sarmatica, in parte distribuendola tra Tracia, Macedonia e Italia e, in gran parte, movendola forzatamente oltre il limes orientale (le cronache coeve parlano di 300.000 rifugiati), dove con certezza risiedevano all'arrivo delle orde unne, verso il 370 d.C.
Il canto del cigno dei Sarmati, a quanto descritto da Ammiano Marcellino, è una severa sconfitta inflitta alle forze romane in Pannonia nel 374 d.C., con la distruzione addirittura di due legioni, una messica e una pannonica, ma ormai, con l'invasione degli Unni, il loro predominio era terminato: alcuni scelsero di fuggire presso i Romani, muovendosi verso il Centro-Europa, e altri di combattere per gli Unni, rimanendo nella regione del Caucaso.
In entrambi i casi, le popolazioni sarmatiche finirono per fondersi con i dominatori, sia entrando (non sempre volontariamente) nell'esercito romano, sia finendo per sparire anche dalle zone del Mar Nero, loro ultime roccaforti, inglobate all'interno dell'impero "ungherese" di Attila: dal VI secolo in poi, nessuna cronaca fa più menzione di loro, pur essendo possibile ritenere che esse abbiano avuto un ruolo significativo nella crescita dei primi insediamenti russi.
Ciò che può apparire oggi piuttosto strano è come una popolazione in fondo considerata piuttosto primitiva dai suoi contemporanei abbia potuto espandersi con una rapidità davvero impressionante.
La spiegazione è, in realtà, almeno duplice. In primo luogo, come accennato, semplicemente i Sarmati erano ottimi guerrieri per numerose ragioni, non ultime delle quali erano la loro struttura fisica imponente (Erodoto li descrive come "forti, biondi e abbronzati"), comune, per altro a gran parte delle popolazioni caucasiche (che, prima dell'arrivo degli Unni, avevano caratteristiche diametralmente opposte a quelle turco-mongoliche), e l'incredibile dimestichezza con i cavalli, nata dalla loro situazione nomadica e da una società che si basava sulla caccia e sulle occupazioni pastorali.
Soprattutto, il loro segreto in battaglia erano le armi utilizzate. Leggiamo cosa scrive Pausania, che li incontra ad Atene nel II secolo, mentre portano offerte votive nei pressi della Acropoli: «Nel vedere questi uomini, nessuno può dire che essi siano meno specializzati nelle arti dei Greci: i Sauromati non hanno ferro, ne' derivante da loro miniere né importato, non avendo rapporti con gli stranieri che li circondano, ma, per rispondere a questa mancanza hanno escogitato delle invenzioni: invece del ferro usano per le loro lance e per le punte delle frecce osso. Inoltre, sono maestri nell'uso del laccio, che utilizzano contro i nemici imprigionandoli e girando loro intorno con il cavallo fino a catturarlo. Le loro corazze sono fatte nel modo seguente: ogni uomo ha molte cavalle, dal momento che la loro terra non è divisa in lotti privati, né coltivano alcunché tranne gli alberi che crescono spontaneamente, essendo nomadi. Queste cavalle non sono usate solo per la guerra, ma anche il sacrificio agli dèi locali [dei di stampo naturalistico molto dissimili da quelli Sciti e dalle "divinità del fuoco" tipicamente iraniche] e per il nutrimento delle persone. Gli zoccoli delle cavalle vengono raccolti, puliti, tagliati e legati come se fossero scaglie di pitone o, se per caso qualcuno non avesse mai visto un pitone, come scaglie di pigne ancora verdi [...] I pezzi sono tenuti insieme con tendini di cavalli e buoi e se ne ricavano corazze belle e forti come quelle dei Greci, capaci di sopportare colpi di dardi e attacchi nel combattimento corpo a corpo».
Tenendo conto che, in seguito, Tacito ci informa che i Sarmati, sottomessi gli Osi e i Cotini ne avevano esatto un cospicuo tributo annuo in ferro, possiamo facilmente capire che temibili guerrieri dovevano essere diventati, con le loro lunghe lance ora con punta metallica e con la loro particolare lunghissima spada, caratterizzato da una impugnatura di legno con allacciatura in oro, sormontato da una manopola di agata o onice. Non è un caso che proprio il loro armamentario e la loro arte bellica saranno i lasciti di più lunga durata dei Sarmati all'Occidente: corazze lamellari, lance da duello a cavallo e spadoni saranno la base, attraverso il passaggio (dovuto anche al mercenariato a cui i Sarmati saranno costretti all'interno dell'esercito romano) per la cavalleria pesante ("Catafratti") del Basso Impero, di tutta l'epopea militare medievale.
In secondo luogo, i Sarmati avevano , così come i "cugini" Sciti, una grande capacità di assorbimento delle culture con cui venivano in contatto, che non venivano accettate "in toto" (si è visto come i loro rapporti con le altre popolazioni fossero scarsi) ma analizzate in profondità per trarne quegli elementi che potessero essere utili al miglioramento delle condizioni di vita delle tribù.
E' in questo modo che si spiega, ad esempio, lo sviluppo di una ricca produzione artistica dallo stile fortemente geometrico, floreale e riccamente colorato, di una gioielleria di notevole importanza, espressa in anelli, bracciali, diademi, spille, placche d'oro, fibbie, bottoni e materiale bellico in oro e bronzo, come staffe, lance, spade e coltelli, di una interessante ceramistica, le cui caratteristiche, dopo alcuni ritrovamenti tra il 2001e il 2006 nei pressi di Budapest, ci sono ora finalmente più chiare (con la sua lavorazione granulare e una tipica colorazione di base grigia, che ben la distingue dalle ceramiche coeve unne trovate nello stesso sito) e di un'arte vetraria che fa pensare a notevoli, per quanto tardi, contatti commerciali con le aree del Mediterraneo settentrionale.
VERITA' E LEGGENDA - Si diceva che, proprio per il loro relativo isolamento, i Sarmati sono stati a lungo oggetto di supposizioni azzardate da parte delle popolazioni vicine e si è accennato all'idea di Erodoto di una loro natura particolare dovuta alla discendenza dalle famose e mitologiche "amazzoni". Si tratta di un punto che vale la pena di approfondire, essendo esso paradigmatico di come la mancanza di conoscenza possa aver contribuito (e tutt'ora contribuisca) allo sviluppo di leggende che, però, hanno sempre un fondo di verità. Le affermazioni erodotee partono da un errore etimologico riguardante il nome della popolazione in esame. Studi linguistici condotti da Lubotski portano a ritenere che sia il temine "Sauromata" che il temine "Sarmata" derivino da una radice indo-aria "ZAR-" che significa "vecchio", "antico", ma Erodoto, basandosi sul greco, traduce "coloro che hanno occhi come le lucertole" e si chiede il motivo di tale caratteristica. Spiega, allora, che questo popolo sarebbe l'Amazzoni-risultato sfortunato del matrimonio tra un gruppo di giovani uomini sciti e un gruppo di amazzoni. Alcune amazzoni sarebbero state catturate in battaglia dai Greci nel Ponto e sarebbero state portate via su tre navi. Le guerriere avrebbero sconfitto i loro carcerieri ma, non sapendo navigare, sarebbero state portate dal vento verso il Lago di Maeotian (il Mar d'Azov), sulla riva della Scizia. Dopo l'incontro con gli Sciti e l'apprendimento della lingua scita, avrebbero deciso di sposare uomini sciti, ma solo a condizione che essi abbandonassero le loro tribù e che esse non fossero poi tenute a seguire i costumi delle donne scite.
Ciò che risulta a prima vista poco spiegabile è la ragione del collegamento tra "occhi simili a lucertola" e amazzoni e la ragione è, semplicemente, che tale collegamento è inesistente: Erodoto doveva spiegare una stranezza e lo fa utilizzando una diceria che circolava ampiamente in Grecia e la cui ragione era unicamente la condizione di estrema libertà della donna tra i Sarmati (persino, come detto, maggiore che tra gli Sciti), situazione comprovata anche da scavi recenti. Da alcune tombe sarmate scoperte dalla Dr. Jeannine Davis-Kimball, infatti, risulta chiaro che alcune donne partecipavano alle azioni di guerra, probabile eredità di una storia di matriarcato (comune, comunque, ad un certo numero di altri popoli), ormai perduto al momento della storia documentata o di una normale necessità numerica, tipica di ogni momento in cui tutti i membri di un popolo si trovano costretti a difendere il territorio o i beni contro un aggressore. Una possibilità è che una prima forma di società matriarcale sia stata in seguito sostituita da un sistema di capi maschili e infine da una monarchia di sesso maschile: questa transizione può esser derivava dal rapido sviluppo di un corpo di cavalleria maschile, legato all' invenzione della staffa di metallo e dello sperone, che viene a formare la nuova nobiltà sarmata, da cui le donne vengono progressivamente escluse, relegate al compito di fanteria ausiliaria, pur mantenendo, sul piano giuridico-sociale, un grado di parità rispetto agli uomini liberi. Si accennava al fatto che le "leggende sui Sarmati" perdurano ancora. E', ad esempio, il caso della cosiddetta "teoria della connessione sarmatica" sviluppatasi in relazione al ciclo arturiano alla fine degli anni '70. Nel 1978, C. Scott Littleton e Ann C. Thomas, infatti, ampliando le idee di Vasilij Ivanovič Abaev e Georges Dumézil, hanno pubblicato una loro teoria di un collegamento tra Sarmati e la storia e la leggenda più tarda di "King Arthur", secondo la quale alcune unità di cavalleria sarmata lasciate dall'Impero in partenza dalla Gran Bretagna romana nel corso del V secolo sarebbero divenute il nucleo di una élite della Britannia dell'"Epoca Oscura", nucleo che avrebbe conservato elementi di origine sarmata nella sua mitologia e nella sua cultura. Nel 1994 Littleton e Linda A. Malcor hanno ulteriormente sviluppato questa teoria, indicando nell'ufficiale romano Lucius Artorius Castus il probabile comandante degli ausiliari Sarmati nel II secolo e la base iniziale per lo sviluppo delle storie di Artù.
Certamente possono esistere ragioni per una tale supposizione: nel 175, Marco Aurelio, dopo aver sconfitto le tribù degli Iazigi Sarmati durante le guerre marcomanniche, assunse forzatamente 8.000 Sarmati al servizio di Roma e 5.500 di queste reclute vennero inviate ai confini settentrionali della Gran Bretagna. Nel V secolo alcune cronache, in particolare la Notitia dignitatum cita un "Cuneus Sarmatarum" in servizio a Bremetennacum (Ribchester), un luogo dove in precedenza si trova menzione, nelle iscrizioni risalenti al III secolo d.C. di un' "Ala Sarmatarum" e di un "Equitum Numeri Sarmatarum". La cultura del Sarmati (che conosciamo oggi attraverso le leggende ossete), inoltre, presenta molte somiglianze con le leggende di Re Artù: il loro culto tribale era diretto a una spada che spuntava dal terreno, in modo simile alla "spada nella roccia"; il simbolo dei Sarmati era un drago, come nello stemma usato da Artù e da suo padre Uther Pendragon secondo la Historia Regum Britanniae; l'eroe nazionale osseto Nart Batraz ha una storia piuttosto simile a quella di Artù e molto comune era la presenza tra i Sarmati di sciamani che ricordano molto da vicino la figura di Merlino. Va però notato che paralleli o analogie tra i racconti arturiani e sarmati hanno luogo solo negli scritti risalenti a dopo che Goffredo di Monmouth pubblica la Historia Regum Britanniae, mentre in tutte le leggende precedenti tali analogie sono pressoché nulle, ragion per cui appare piuttosto probabile che sia stato questo scritto ad essere influenzato da racconti di origine sarmata, certamente ancora vivi nel nord dell'Inghilterra dopo la massiccia e duratura presenza di ausiliari in quell'area, piuttosto che rispondere ad una base storica di cui non esiste alcuna prova certa.

Dal 1.100 a.C. le culture kurganiche indoeuropee, che allevavano cavalli fin dal 4.000 a.C., sia per mangiarli che come animali da soma, verso il 2.100-2.000 a.C. avevano imparato ad usarli per trainare agili carri da caccia, corsa e guerra e a cavalcarli in maniera incontrollata (con nasiere e senza sella o sottopancia) e finalmente, dopo circa un millennio di tentativi e di selezioni del cavallo, riuscirono a montarlo in maniera utile per poterlo impiegare in battaglia, controllandolo quindi con una mano o con le gambe e  contemporaneamente poter brandire un'arma.

CAVALCABILITA' del CAVALLO, BRIGLIE, MORSO, SELLA, FERRI e STAFFE - La scoperta  della  cavalcabilità del cavallo (tra il 1.100 e il 1.000 a.C.) sarà una rivoluzione che metterà in moto le steppe occidentali mentre forse ad est degli Altaj, con l'addomesticamento della renna, si verificava un fenomeno analogo.

Le briglie, la prima idea per migliorare la monta del cavallo, sono introdotte intorno al 1.000 a.C. mentre il morso arriverà molto più tardi, nel VI secolo a.C.

La sella è il sedile concavo posto sul dorso del cavallo per montarlo agevolmente, anticamente costituita da legno rivestito e assicurata mediante delle cinghie sottopancia che la tenessero vincolata all’animale. Già intorno al X secolo a.C., gli Assiri stanziati in Asia Centrale, utilizzavano come selle dei supporti fissi allacciati sotto il ventre del cavallo. Queste rudimentali selle permettevano di cambiare la postura, che diveniva più disinvolta, con posizione avanzata e gambe tese. 
Le tracce più antiche di bardatura del cavallo e uso della sella derivata dai supporti-selle degli Assiri, si ritrovano nei siti archeologici attribuiti ai cavalieri Sciti (dal VII sec. a.C.), popolo nomade della steppa  eurasiatica. Gli Sciti inoltre, avevano aggiunto ai supporti-selle degli Assiri due anelli di cuoio in cui infilare i piedi, prototipi delle staffe. Altre prove concrete dell’uso di una sella rigida  (dotata di un robusto telaio) in Asia risalgono alla dinastia cinese degli Han (206 a.C. - 220 d.C.), ma queste selle comunque, erano prive di staffe.

Da https://www.romanoimpero.com/2010/04/gli-equites-romani.html: I Romani furono i primi ad usare il ferro per proteggere lo zoccolo del cavallo con l’ipposandalo, una specie di sandalo con la suola in ferro che veniva applicato con anelli e lacci al piede del cavallo, usato quando l'animale era ferito e per applicargli medicamenti oppure per l'attraversamento di zone molto molto accidentate. 
I Galli (definizione con cui i Romani indicavano i Celti) furono invece i primi a ferrare sistematicamente i cavalli che cavalcavano. I Romani impararono da loro sia la tecnica del combattimento a cavallo che l'arte di ferrare i cavalli, e migliorarono entrambe. Mentre i primi ferri avevano il bordo ondulato e i chiodi a sezione tonda con testa ovale, i Romani usarono il ferro con profilo liscio e chiodi con testa e sezione quadrate, il che dava maggior presa nell’unghia e tendeva meno a spezzarla.

Già gli Sciti, avevano aggiunto alle loro selle, derivate dai supporti-selle degli Assiri, due anelli di cuoio in cui infilare i piedi, prototipi delle staffe
Le staffe primitive, che si adattavano all’alluce, compaiono in India verso la fine del sec. II a.C.
La prima staffa vera e propria è stata trovata nelle selle cinesi del sec. V d.C. In Cina figure di staffe compaiono nelle sculture funerarie in terracotta della dinastia mongolo-tartara Wei, del 500 d.C. circa, e una testimonianza scritta intorno al 477 (Biografia di un capo militare cinese) ne attribuisce la paternità ai popoli nomadi delle steppe. Questa testimonianza scritta cinese riporta infatti testualmente che la staffa fu introdotta in Cina dai Hsiung-Nu. - E gli Xiongnu o Hsiung-nu sono un popolo di pastori nomadi dell'Asia centrale che alla fine del 3 ° secolo aC, formarono una grande lega tribale che ha dominato gran parte dell'Asia centrale per più di 500 anni. Nei loro grandi spostamenti, in quel periodo, essi giunsero anche alla frontiera settentrionale cinese e alla conquista della Cina del nord, della Corea e della Manciuria meridionale. Scavi di tombe Xiongnu hanno rivelato, oltre a resti di prodotti tessili cinesi, anche iraniani e greci; e ciò indica il contatto e un ampio commercio anche con questi popoli lontani da quell'area ma più vicini a noi e alla loro zona di origine. Ciò che è certo è che coloro che i cinesi chiamano Xiōngnú (Hsiung-nu) erano una confederazione nomade di tribù dell'Asia Centrale e che la maggior parte delle informazione su di loro viene dalle fonti cinesi. Infatti quel poco che sappiamo dei loro nomi e titoli deriva da translitterazioni in lingua cinese (contenuta in documenti cinesi) e che di originale sono rimaste solo una ventina di parole e un'unica frase che appartiene alla lingua “altaica”. Queste poche notizie hanno fatto sì che l'identificazione del nucleo etnico degli Xiongnu sia stato oggetto di varie ipotesi e di varie proposte da parte di quegli studiosi che hanno teorizzano la loro lingua genericamente come altaica o mongola, iraniana o yeniseian; taluni li hanno identificati con gli Unni (come Joseph de Guignes nel XVIII sec.) accendendo ancor più il dibattito sulla loro origine, che resta tuttora controversa. In Cina, un rilievo nella tomba dell'imperatore T'ai-Tsong (Taizong o T’ai Tsung, 627-641 d.C.) della dinastia T'ang, ci mostra un cavaliere asiatico che estrae una freccia dal petto del suo cavallo sellato e con le staffe ben evidenti. Anche in Giappone la staffa arrivò probabilmente nello stesso periodo e una statuetta votiva del periodo pre-buddista ci mostra un cavallo con sella e staffe. Anche in Corea esistono testimonianze simili su una caraffa di terracotta del 5°-6° sec. d.C. (in forma di statuina equestre con sella con arcione e paletta elevate e staffe). Anche in Siberia sono state ritrovate staffe, di pregevole modello e lavorazione, nella regione di Minusinsk, nell'alto Ienisei, in tombe del periodo tra il 6° e l'8° sec. d.C. I ritrovamenti ci forniscono dunque un quadro abbastanza omogeneo su una vasta area e dimostrano che la staffa entrò in uso in Eurasia tra il IV e il VI sec. d.C. e con ogni probabilità diffusa rapidamente e contemporaneamente in conseguenza alle migrazioni a vasto raggio in cui erano impegnati tra oriente e occidente i popoli nomadi che praticamente vivevano a stretto contatto col cavallo.
Le prime staffe rinvenute in Europa sono attribuibili al quarto secolo dopo Cristo e provengono dalle tombe dei cavalieri Sàrmati del bacino del fiume Kuban, a nord del Caucaso.

Mappa del luogo in cui fu edificata
Roma. Sono indicati il Tevere, i
colli, il Foro centrale comune,
dedicato alla vita sociale e, fuori
dall'area urbana, il campo Marzio,
"di Marte", dove si poteva circolare
con le armi, contrariamente
che all'interno dell'urbe.
LEGIONE a gerarchia nobiliare e CAVALLERIA aristocratica nella ROMA monarchica - E' intorno alla metà dell'VIII secolo avanti Cristo (la tradizione riporta il 753 a.C.) che, nel luogo in cui vi era già un'insediamento protourbano abitato da varie tribù italiche in cui erano preponderanti i Latini e i Sabini (o Sabelli), oltre alla presenza di Etruschi, i primi a fondare città-stato sul suolo italico, viene fondata Roma il cui nome magico segreto è Flora, "che fiorisce". Dagli Etruschi sono stati trasmessi al mitico Romolo gli insegnamenti dei cerimoniali per la fondazione della città. Caratteristica fondamentale della nuova città è l'idea di un potere politico condiviso. Romolo, Re in quanto fondatore della città, co-regna con Tito Tazio, re Sabino mentre i successivi re sono eletti, per reggere e governare la città, dal Senato, l'assemblea dei patrizi (i patres), i capifamiglia delle gentes costituenti le tre tribù originarie, suddivise a loro volta in assemblee di uomini (curie) che tramite i Comizi Curiati  ratificano le emanazioni del re. Le tre antiche tribù di Roma erano quindi caratterizzate dall'appartenenza gentilizia dei loro membri, cioè la gens a cui appartenevano, gens costituita da diverse familiae imparentate tra loro. In epoca regia le gentes costituivano anche suddivisioni territoriali. Secondo la tradizione, le prime tribù di Roma erano tre:
- i Ramnes (da Romulus, di origine latina), gens autoctone di Latini stanziate nelle zone pianeggianti;
- i Tities (o Titienses da Titus Tatius il re sabino), cioè le famiglie sabine venute al seguito di Tito Tazio;
- i Luceres (da Lucumon o Lygmon di origine etrusca), che sarebbero stati di origine etrusca, condotti da un Lucumone ("re" in etrusco), dal quale avrebbero preso il nome.
Carta dell'antica Roma di Romolo.
La cinta muraria esterna fu iniziata
da Tarquinio Prisco e ultimata da
Servio Tullio.
A Roma verrà istituito inoltre un foro (forum, cioè fuori dai centri abitati) per legiferare in uno spazio comune affrancato da signoraggi vari e viene decretato uno stato di diritto (ius, da iusiurandum = giuramento) che stabilisca i patti e i rapporti fra le varie istituzioni. Mentre le dispotìe orientali erano caratterizzate da urbanizzazioni in cui solo i templi e il palazzo del re, unico detentore del potere, avessero un rilievo, nell'antica Roma si edificarono le "curie", le sedi per le assemblee cittadine (i comizi curiati) in cui si riuniva anche il Senato, l'assemblea aristocratica dei 'padri' delle varie gentes, e si ripartirono così compiti  istituzionali fra le varie componenti del nuovo ordinamento civico. Romolo, oltre che essere Re eletto, era anche Rex-Sacrorum (il pontefice al quale erano affidate le funzioni religiose), veste nella quale istituì il calendario di 10 mesi, (che andava da Marzo (dedicato a Marte) a Dicembre, di cui i nomi da Settembre a Dicembre sono utilizzati tuttora. Era , calendario luni-solare con mesi lunari, in cui le "calende" corrispondevano al primo giorno del mese, quando si verificava il novilunio, le "none" al primo quarto di luna e le "idi" nel plenilunio). 

I 7 colli di Roma, da ht
tps://it.wikipedia.org/w
iki/Campidoglio#/m
edia/File:7Colli
Schizzo.jpg
.
Le tre aree di Roma interessate
dalle tre imprese di Romolo
e Tazio.
Il 29-10-2006 Andrea Carandini, archeologo che ha realizzato numerosi scavi nel centro di Roma, racconta alla cittadinanza gli eventi della fondazione di Roma del 21 aprile del 753 a.C., data più simbolica che vera. File solo audio ma preciso, esauriente, completo e intelligente nell'analisi della nascita di una nuova politica, che contraddistinguerà la cultura di tutto l'Occidente; per ascoltarlo, clicca QUI. Con i suoi 290 ettari, la prima Roma era più estesa di Veio, la maggiore città etrusca, e proprio agli etruschi, che erano stati fra i primi fondatori di città sul suolo italico, si rivolse Romolo per conoscere i riti e le liturgie augurali nelle fondazioni di nuove città. Alla fondazione della città sono legate le tre imprese di Romolo e Tito Tazio1) la prima impresa è stata la benedizione del  Palatino del 21 aprile (l'augurium) come cuore dell'abitato, con la cittadella del re sul Palatino stesso. 2) La seconda impresa è stata l'istituzione del Foro, del Campidoglio e dell'Arce, centro politico-sacrale della città-stato, in territorio neutro, super-partes. Nelle città romane, a partire dal IV secolo a.C., l’arce era sede di edifici di culto o di rilievo politico. Nota è a Roma l’Arx Capitolina, con il tempio di Giunone Moneta (“ammonitrice”, del 344 a.C.) e la Zecca (III secolo a.C.). Era la sommità est del colle a sella, Arx et Capitolium, posto tra l’area dei fori e il Campo Marzio e valicato dal sentiero passante per l’Asylum; dal foro salivano sul colle anche le Scalae Gemoniae e il Gradus Monetae. Il sito, leso da incendi storici (83 a.C., 60 e 80 d.C.) e dall’assetto del Foro di Traiano, fu gravemente compromesso nel 1885, con la costruzione del Vittoriano.
Schema dell'organizzazione
 sociale nella prima Roma
monarchica.
 3) La terza impresa fu l'istituzione di tre ordinamenti correlati fra di loro: l'ordinamento del tempo con il calendario; l'ordinamento nello spazio con il confine (il sacro pomerium) della città; l'ordinamento fra le genti, tre tribù ripartite in trenta assemblee, le curie.
Carta dell'Italia nell'VIII sec. a.C. con
indicate le zone in cui erano stanziati
i Cartaginesi, gli Umbri-Sabelli-Latini,
i Greci, gli Etruschi, la Cultura di
Golasecca. Sono indicati inoltre i
centri di Spina, Fèlsina, (Bologna)
Ravenna, Chiusi e Tarquinia in
territorio Etrusco. Inoltre Cuma,
Taranto, Reggio, Messina e Siracusa.
In Sicilia i Sicani, iberici scacciati
dai Liguri, e i Siculi d'origine ligure,
gli unici autoctoni pre-indoeuropei.
La prima organizzazione politica della Roma monarchica è quindi  contraddistinta da tre istituzioni:
1) un monarca elettivo, con pieni poteri, spesso forestiero onde evitare favoritismi di parte;
2) il senato, consiglio degli anziani (seniores) capifamiglia delle varie gentes, che sarà il fulcro del corpo civico, con compiti di reggenza negli interregni, fra un re e l'altro. Scriverà Sesto Pompeo Festo (Narbona, II secolo d.C. - ...): «Il mos è l'usanza dei patres (padri, da cui i  termini  patria e patrizi), ossia la memoria degli antichi relativa soprattutto a riti e cerimonie dell'antichità.» I mores, dal periodo regio all'età imperiale, rappresenteranno il corpo di principî e valori, non scritti, esemplari per la comunità;
3) i Quirites, il corpo civico cittadino, formato dalle 3 tribù delle etnìe (Latini, Sabini ed Etruschi) costituenti la popolazione. Le tribù esprimevano a loro volta 10 curie ciascuna (curia da "co-viria"), le assemblee di maschi adulti, che votavano nei comizi curiati, le prime assemblee popolari. 

Denario con gli dèi Quirino e Ceres. Immagine
di Classical Numismatic Group, Inc. http://www.
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Molte emanazioni degli ordinamenti dell'epoca monarchica sono firmati "Populus Romanus Quirites", intendendo per Populus il potenziale militare (nel latino arcaico il verbo "populare" significava "devastare") che ai quei tempi era stimato in 3.000 fanti e 300 cavalieri, e per Quirites, l'insieme del corpo civico, le individualità componenti la massa dei cittadini Romani, protetti da Quirino, il dio romano delle curie, passato poi alla protezione delle pacifiche attività degli uomini liberi. Quiriti era il termine endoetnonimo che i Romani utilizzavano per designare se stessi, nella loro qualità di cittadini dell'Urbe fondata da Romolodivinizzato alla sua morte nel dio Quirino stesso. Assieme a Marte e a Giove, Quirino, identificato quindi con Romolo, faceva parte della cosiddetta "Triade arcaica" delle divinità maggiori che in seguito, su influsso della cultura etrusca, sarà invece costituita da Giove, Giunone e Minerva. Quirino e Giano saranno gli unici dèi romani a non essere assimilati a divinità ellenistiche. La festività tradizionale di Quirino, denominata Quirinalia, cadeva il 17 febbraio ed era celebrata dal sacerdote flamen quirinalis. Il più antico santuario di Quirino era la rupe più alta del colle Quirinale; in seguito gli fu costruito un tempio presso la porta Quirinale e poi un altro, nel 293 a.C., dedicato da Lucio Papirio Cursore, nel quale era conservato il trattato fra Roma e Gabi, scritto su una pelle di bue che copriva uno scudo. Gabi era una città del Latium vetus posta al XII miglio della via Prenestina, che collegava Roma a Præneste, che secondo Dionigi di Alicarnasso faceva parte della Lega Latina. Oggi è un sito archeologico nella città metropolitana di Roma Capitale. Le sue cave fornivano un'eccellente pietra da costruzione.

Secondo la tradizione fu quindi Romolo a creare il primo esercito della città di Roma, costituito da un'unica legione (dal latino legio, derivato del verbo legere, "raccogliere o legare insieme"), cosicché esercito e legione erano concetti sinonimi. La legione unica era composta da 3.000 fanti (pedites) schierati in battaglia sull'esempio della falange greca e da 300 cavalieri (equites), tutti arruolati di leva fra i cittadini delle tre tribù che formavano la primitiva popolazione di Roma, i Tities, i Ramnes e i Luceres. 

Nella disposizione tattica della legione, la fanteria si disponeva su tre file, nella tipica formazione a  falange, con la cavalleria ai lati, le alae, i cui squadroni erano alle dipendenze di un tribunus celerum, sotto il diretto comando dello stesso Rex, il comandante supremo, a cui spettava anche il compito di sciogliere  l'esercito al termine della campagna militare dell'anno, per permettere ai cittadini l'accudimento ai propri mestieri. A lui erano subordinati anche tre tribuni militum (i generali) della fanteria, ciascuno dei quali era a capo dei 1.000 fanti di ognuna delle tre tribù. 

La funzione tattica della cavalleria legionaria di epoca regia e di inizio Repubblica, si basava sulla mobilità e aveva quindi compiti di avanguardia ed esplorazione, di scorta, azioni di disturbo o di  inseguimento al termine della battaglia o veniva infine utilizzata per spostarsi rapidamente sul campo di battaglia e prestare soccorso a reparti di fanteria in difficoltà. I cavalieri usavano briglie e morsi, ma le staffe e la sella erano sconosciuti e non era quindi ipotizzabile a quei tempi una cavalleria "d'urto". A Roma, in epoca monarchica e repubblicana, la sella (ephippia) dei rari cavalieri romani e dei più numerosi cavalieri alleati Italici, era probabilmente costituita da una semplice coperta o gualdrappa (tapetum) o da una protezione in cuoio (ephippium) di derivazione greca. Pare comunque che, secondo la considerazione comune, la gualdrappa, più o meno imbottita, fosse  inappropriata per un uomo armato.

Tutti i militari appartenenti all'esercito dovevano sostenere le spese per i loro armamenti, visto che  combattevano sia per tutelare gli interessi comuni che quelli personali. Nella ripartizione degli incarichi e delle gerarchie della fanteria si privilegiava la nobiltà di nascita mentre la cavalleria era sostanzialmente appannaggio della sola aristocrazia.

Romolo costituì inoltre una guardia privata del re costituita da  ulteriori trecento cavalieri chiamati  Celeres (eliminata poi da Numa Pompilio ma reintrodotta e raddoppiata da Tarquinio Prisco), similmente a quanto fece oltre settecento anni più tardi Augusto, con la creazione della guardia  pretoriana, designata alla tutela del Princeps.

Tratto da https://www.romanoimpero.com/2010/04/gli-equites-romani.html: "Celeres vale a dire pronti e leggeri. Romolo diede questo nome a trecento giovani dei quali aveva composta la sua guardia e che erano comandati da tre Centurioni sotto un ufficiale generale che chiamavasi Tribuno dei Celeri. La lancia e la spada servivano d'armi ordinarie a queste guardie, che circondavano il re in ogni tempo ma principalmente alla guerra ove essi dovevano essere i primi all'attacco e gli ultimi alla ritirata." (G.J. Monchablon, Prof. dell'Università di Parigi - 1832)


CAVALLERIA d'ORDINE PUBBLICO nella ROMA dei RE - I cosiddetti Celeres (cioè i veloci) le guardie preposte alla tutela del re, furono in seguito impiegate per mantenere l'ordine pubblico urbano, ottenendo così che il loro cavallo, chiamato equus publicus, (cavallo pubblico), fosse acquistato e mantenuto dallo Stato ed i Celeres stessi venivano indicati come gli Equites Romani Equo Publico.

Fra i cavalieri c'erano quindi gli "Equites Romani Equo Publico" e i semplici "Equites". Solo un numero ristretto di cavalieri, un quarto circa del totale, riusciva ad entrare nell'arruolamento di ordine pubblico, col privilegio del cavallo fornito e mantenuto dallo Stato, mentre i semplici Equites dovevano comprarlo e mantenerlo a proprie spese; ma soprattutto gli "Equites Romani Equo Publico" avevano il vantaggio di poter ottenere delle cariche pubbliche, sia giuridiche che senatoriali, che agli equites  ordinari erano precluse.

Fin dai tempi degli Equites Romani Equo Publico quindi, con l'espressione "cavaliere" ci si poteva riferire sia ad una qualifica militare che ad una appartenenza politico-sociale


Per rendere pubblica la nobiltà degli aristocratici che componevano agli Equites Romani Equo Publico (e in seguito si applicò a tutti i cittadini), venne istituito il nomen della gens di appartenenza da far seguire al prenomen, il nome proprio, e come terzo termine seguiva il cognomen, il nome della stirpe (familia) di appartenenza. 

In realtà gentes plebee non esistevano, poiché solo la gens patrizia aveva dei sacra, uno ius gentilicium e degli auspici; le grandi famiglie plebee difettavano di tutti questi elementi e proprio per questo non poteveno essere definite gentes in senso stretto.
La distinzione fra gentes maiores e minores è relativa quindi solo ai patrizi, dove le maiores sono quelle derivate dal centinaio di senatori nominati da Romolo, i patres maiorum gentium, mentre le minores gentes deriverebbero dal secondo gruppo di senatori eletti da Tarquinio Prisco.
Il nomen non era quindi portato dalle famiglie plebee e quindi, quando troviamo nomi con due soli termini, come ad esempio Gaio Mario, possiamo supporre che si tratti di plebei.

Il cognomen invece era aggiunto all'eventuale nomen gentilizio; inizialmente era individuale e poteva essere un nomignolo popolare come Lentulus (da lenticchia), Cicerone (da cece), Lepidus (da scherzoso) ma in seguito divenne ereditario per distinguere la familia di appartenenza nel contesto della stessa gens, come ad esempio i Cornelii Cathegi distinti dai Cornelii Scipiones, distinti dai Cornelii Balbi, distinti dai Cornelii Lentuli. 
Infine c’erano i cognomina trionfali, conferiti ai vincitori, per cui Scipione divenne "Africanus" dopo la vittoria su Cartagine, così come Nerone Claudio Druso (conosciuto come Druso maggiore) e i suoi discendenti portavano come cognome "Germanicus" per le vittorie di questi sui Germani. Gli schiavi avevano soltanto il nomen ma se venivano liberati, divenendo liberti, assumevano il cognomen e spesso anche il praenomen del loro ex padrone.

Tratto da https://www.romanoimpero.com/2010/04/gli-equites-romani.html. In generale, i cavalieri Romani Equo Publico ostentavano, come abbigliamento distintivo del loro incarico:
- l’anello d’oro, 
- le borchie d’argento del cavallo, 
- la trabea o mantello da cavaliere col bordo rosso, 
- la scarpa rossa detta calceus patricius 
- e il bordo rosso (clavus) alla toga e alla tunica: tutti distintivi che adotteranno poi i patrizi romani. 
La la più antica nobiltà di Roma derivava infatti i propri costumi dalla cavalleria d'età regia, per cui si desume che a Roma la cavalleria fosse appannaggio della sola aristocrazia, così come nell'antica Grecia. 

Cavaliere ausiliario con
lancia, particolare da
una pietra tombale
romana di Colonia, I
secolo. Di Mediatus
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.
cavalieri, esclusi gli Equites Romani Equo Publico, dovevano quindi poter permettersi il possesso e il mantenimento del cavallo oltre al loro  armamento. Secondo Polibio, i cavalieri anticamente non avevano una corazza, bensì una semplice trabea, per cui era facile e comodo salire e scendere da cavallo, ma negli scontri correvano grossi rischi poiché combattevano praticamente nudi. Inoltre la maggior parte dei cavalieri portava una lancia (hasta) ed un piccolo scudo rotondo (parma equestris). Polibio aggiunge che, in tempi antichi: «Anche le lance non erano di alcuna utilità, principalmente per due motivi: prima di tutto, essendo sottili e fragili, non erano minimamente in grado di raggiungere il bersaglio e prima che la punta provasse a conficcarsi in qualcosa, spesso si spezzava a causa della vibrazione generata dal movimento del cavallo; [in secondo luogo], poiché erano costruite senza il puntale inferiore, potevano colpire di punta solo la prima volta, poi si spezzavano e non erano più utilizzabili.» (Polibio, VI, 25.5-6.). Riguardo invece allo scudo, Polibio scrive: «Portavano uno scudo di pelle di bue [...], ma non era possibile servirsene contro gli attacchi nemici, perché non era sufficientemente consistente e, quando la pelle esterna che lo ricopriva veniva a mancare, in caso di pioggia si infradiciava e diventava totalmente inservibile.» (Polibio, VI, 25.7.).

Questi i motivi per cui, sempre per lo storico greco Polibio, questo genere di armamento fu in seguito sostituito (almeno a partire dalle guerre puniche) con quello di tipo greco, consistente in un elmo, uno scudo rotondo (il clipeus, che in latino indicava il grande scudo cavo dell'oplita greco) in bronzo, una lancia leggera e una spada

Per quanto una tribù di Sabini (i Tities) fosse fra le prime tre tribù a costituire il corpo civico romano, alcune fonti riportano che con l'inclusione del popolo Sabino nel corpo civico romano, Romolo abbia  raddoppiato il volume della legione, portandolo a 6.000 fanti e 600 cavalieri. Altre fonti invece riportano che il raddoppio degli effettivi della legione sia avvenuto ai tempi di Tarquinio Prisco o del suo successore Servio Tullio, quando raddoppiò il numero delle tribù e alle tre originarie, Ramnes, Tities e Luceres se ne aggiunsero altre tre, chiamate posteriores. Da quel frangente, le sei tribù avrebbero potuto quindi fornire all'esercito legionario 600 cavalieri con cavallo. 

Dal 616 a.C. l'etrusco Tarquinio Prisco diventa il quinto re di Roma mentre i principali centri etruschi  dell'Etruria e della Campania vivono una stagione prospera per gli scambi commerciali con le popolazioni dell'Egeo (dalle coste fino all'entroterra dell'Asia minore) e con i Cartaginesi. L'elemento etrusco, già incorporato nel tessuto sociale di Capua, della quale occupava una zona residenziale, perciò detta "vicus Tuscus", improntò politicamente la storia della stessa Roma con la dinastia dei Tarquinii. A Tarquinio Prisco (616-578 a.C.) si deve, fra l'altro, la costruzione della cinta muraria di Roma (murus lapideus), poi completata sotto Servio Tullio. I Romani, durante la dominazione degli ultimi loro tre re, gli etruschi Tarquini, dal 616 a.C. al 509 a.C., appresero dagli Etruschi le modalità e l'arte del  combattimento. Fu solo dopo la fine della monarchia e la cacciata dei re etruschi, e la successiva conquista dei territori dell'Italia meridionale (a cominciare dal Latium vetus), in seguito ad una serie interminabile di guerre contro Sabini, Volsci, Equi, Ernici, Latini e Sanniti, che la costante evoluzione di tecnica, tattica e strategia permise ai Romani di superare i loro antichi maestri etruschi. Il risultato finale fu la sottomissione degli antichi territori dell'Etruria. «[...] dai Tirreni [i Romani presero] l'arte di fare la guerra, facendo avanzare l'intero esercito in formazione di falange chiusa [...]» (Ateneo di Naucrati, I Deipnosofisti, VI, 106.). 
Considerata la loro organizzazione federale di città-stato, in caso di guerra gli eserciti etruschi erano reclutati richiamando alle armi i cittadini secondo la loro ricchezza e posizione sociale: di conseguenza composizione, equipaggiamento e aspetto degli eserciti doveva variare molto. Le formazioni armate comprendevano corpi di opliti, soldati in servizio permanente sottoposti a costante addestramento, che sostenevano il maggior peso del combattimento. Combattevano compatti ed erano armati di lancia, spada, difesi da scudo, elmo e corazza o un piccolo pettorale al centro del petto. Al loro fianco si trovavano reparti di truppe leggere, che comprendevano fanti armati alla leggera e tiratori scelti (arcieri o frombolieri), con il compito di provocare il nemico, disturbarlo e disorganizzarlo prima dell'urto degli opliti. La cavalleria, sia quella etrusca che quella romana si basava sulla mobilità e aveva quindi solo compiti di avanguardia ed esplorazione, di ricognizione, scorta ed eventuale inseguimento al termine della battaglia; all'epoca fra l'altro non si usavano selle e staffe.

I monumenti mostrano che anche i cavalieri romani seguivano la generale tendenza delle cavallerie di tutti i popoli d'Italia ad adottare l'armamento greco: conservarono però l'ascia e imbracciarono lo scudo rotondo di bronzo (parma). È attestato anche per Roma l'uso dei due cavalli, pares equi, uno per il guerriero e l'altro per lo scudiero; e forse dagli scudieri degli equites si era a un certo momento sviluppata quella cavalleria leggera dei ferentarii, armati di iacula, una piccola lancia, ricordati dalle fonti, ma scomparsi dall'esercito romano almeno prima dell'età di Polibio, forse già nel secolo III. L'opinione del Helbig, che gli antichissimi equites non fossero che una fanteria pesante montata, che si giovava dei cavalli per spostarsi più rapidamente e più agevolmente, è, se formulata troppo rigidamente, eccessiva.

Lazio nel 600 a.C.
Si narra che durante il regno dell'etrusco Tarquinio Prisco, quinto re di Roma, si riformò la classe dei cavalieri, visto che raddoppiò il numero delle tribù; alle tre originarie Ramnes, Tities e Luceres, se ne aggiunsero altre tre, chiamate posteriores. Le sei tribù avrebbero potuto fornire quindi all'esercito sei centurie, le sex suffragia,  pari a circa 600 cavalieri a cavallo. Questa riforma per il De Francisci potrebbe essere stata apportata da Tarquinio Prisco o dal suo successore Servio Tullio, anche se per alcune fonti  con sex suffragia  si indicavano le sei centurie di èquites equo publico, derivate dai trecento Celeres dell'età romulea, che aprivano la votazione  nei comìtia centurìata introdotti con la riforma timocratica operata da Servio Tullio.

Cartina dell'antica Roma nel
600 a.C. con le mura serviane.

Nel 578 a.C. Servio Tullio diventa sesto re di Roma e secondo la tradizione, ha regnato dal 578 a.C. al 535 a.C., per 43 anni. L'imperatore Claudio, che aveva avuto come prima moglie un'etrusca e che aveva inoltre scritto un'opera sugli Etruschi, l'aveva identificato col magister populi etrusco Mastarna. Servio Tullio ampliò il pomerium (il perimetro di Roma) ed aggiunse alla città di Roma i colli Quirinale, Viminale e Esquilino, scavando poi tutto intorno al nuovo tratto di mura un ampio fossato. Fece quindi costruire sull'Aventino, insieme agli alleati latini, il tempio di Diana, dea che corrispondeva alla greca Artemide, il cui tempio si trovava ad Efeso, trasferendo da Ariccia il culto latino di Diana Nemorensis. Come per i Greci, per i quali il tempio di Artemide rappresentava una federazione di città, con il tempio di Diana, costruito intorno al 540 a.C., i Romani miravano a porsi come centro politico-religioso delle popolazioni del Lazio e forse anche dell'Etruria meridionale. 

Statuetta romana
di Mater Matuta.
A Servio si ascrive anche la decisione di costruire il tempio di Mater Matuta ed il tempio della dea Fortuna, entrambi al Foro Boario. Il primo nome  dell'insediamento urbano di Sanremo è stato "Villa Matuta", probabilmente dal nome della dea. Roma continuò comunque la sua politica di espansione territoriale, sia a danno dei vicini Sabini, sia delle città etrusche di Veio, Cere e Tarquinia che, non accettando la sovranità di Servio Tullio, considerato un usurpatore, non volevano più rispettare gli accordi di tregua stipulati con Tarquinio Prisco; dopo alterne vicende i Romani ebbero la meglio su queste città e ingrandirono il loro territorio verso nord.

CENSIMENTO e CENTURIE suddivise in CLASSI di FANTERIA alla fine della ROMA monarchica - Considerato il secondo fondatore di Roma, Servio Tullio sarà l'autore della più importante modifica dell'assetto politico-militare di Roma nell'epoca pre-repubblicana, la riforma timocratica (la timocrazia, dal greco timokratìa composto da timè = onore e kratìa =  governo, è un tipo di governo in cui diritti e doveri del cittadino sono stabiliti secondo classi censitarie, cioè in base ai redditi e/o capitali posseduti).

Servio Tullio si era reso conto che, per assicurare a Roma una forza militare sufficiente a mantenere le proprie conquiste, era necessario un esercito più numeroso di quello che possedeva; l'esercito romuleo era costituito dalla nobiltà in un'unica legione, di circa 3.000 fanti e 300 cavalieri. Introdusse quindi il "Census", il censimento della popolazione maschile (80.000-83.000 cittadini, inclusi quelli delle campagne circostanti), che si teneva ogni 5 anni e ripartiva i cittadini per patrimonio, dignità, età mestieri e funzioni al fine di individuare le relative classi militari di appartenenza, non più in relazione alla nobiltà di nascita ma al patrimonio posseduto, visto che erano  i cittadini a provvedere alle spese  per il proprio armamento. Tale occasione si inaugurava con il "Lustrum" che consisteva in una "Lustrazio": tre animali sacri, prima di essere sacrificati, giravano attorno all'esercito in armi schierato nel Campo Marzio, per rendere splendore e sacralità all'evento. Lustro è rimasto nel nostro linguaggio a indicare un periodo di 5 anni. 

Questo favorì comunque il reclutamento degli strati inferiori della società, fino ad allora esclusi dal servizio militare, segnando così il primo passo verso il riconoscimento politico di quella che solo grazie a questa riforma inizierà a chiamarsi plebe. L'inclusione della plebe nell'esercito portò ovviamente i re etruschi ad un primo contrasto con lo strato superiore della società romana, i patrizi, che vedevano minacciata la propria supremazia.

È opinione ormai diffusa che, identificandosi i patrizi con la cavalleria, le classi inferiori dei pedites  fossero perlopiù composte da plebei. Con la riforma serviana vi fu anche l'importante novità che coloro che si distinguevano in battaglia divenissero centurioni, comandanti di una centuria di legionari.

Probabilmente dal tempo dell'introduzione dell'ordinamento timocratico, la cavalleria romana era in servizio permanente, nel senso che lo stato corrispondeva a un numero fisso di cittadini (nell'epoca storica 1.800) un'indennità per l'acquisto di uno o due cavalli (aes equestre) e per il loro foraggio (aes hordiarium); si riconoscevano cioè le speciali esigenze di  addestramento e allenamento che il servizio a cavallo richiedeva. La scelta dei cavalieri era fatta dai magistrati supremi, re e consoli nel tempo più antico, dai censori dopo l'istituzione di questa carica; e alle stesse persone spettava la rassegna periodica della cavalleria per accertarsi delle attitudini militari dei cavalieri e della tenuta delle cavalcature e delle armi. Lo stato si riservò tuttavia il diritto, almeno da una certa epoca, d'imporre il servizio a cavallo anche a coloro che, pur non godendo dell'assegno equestre, possedessero però un determinato patrimonio, che gli mettesse di provvedere con mezzi propri al reperimento di cavalli da guerra. Così si fissò per tempo il cosiddetto "censo equestre" e a questi cavalieri si ricorreva quando  non fossero stati sufficienti gli  equites equo publico.

Servio Tullio  modificò anche la tradizionale ripartizione in tribù del popolo romano, che non tenne più conto dell'origine etnica delle genti, ma considerava come criterio di appartenenza ad una tribù il territorio di residenza. Vennero così create quattro tribù urbane (Suburana, Palatina, Esquilina, Collina); in questo modo, oltre a omogenizzare i cittadini romani, si poteva anche valutarne il patrimonio e quindi valutare il tributo che questi dovevano versare alle casse dello stato e stabilire inoltre, alla luce del censo posseduto, la classe di appartenenza sia nei comizi centuriati che nell'esercito

La popolazione delle tribù (nella sistemazione definitiva si arriverà a 35 tribù, 4 urbane e 31 rustiche) si ritrovava quindi ad essere suddivisa in centurie, unità originariamente di 100 uomini, appartenenti a  cinque classi, dalla prima dei più ricchi alla quinta dei meno abbienti, a seconda del loro censo.

Il nuovo corpo civico era ora composto, oltre che dai comizi curiati, le assemblee dei maschi adulti delle nuove tribù territoriali, dai nuovi comizi centuriati, le assemblee delle centurie che costituivano  le cinque classi in cui erano suddivisi i cittadini, in base al loro censo. 
Ai comizi centuriati partecipava l'esercito in armi, (il populus inteso come esercito, dal latino arcaico populare = devastare) e perciò non si potevano svolgere in città, in cui era proibito portare armi, ma nel Campo Marzio, al di là del Tevere; Tito Livio riporta, insieme alla testimonianza di Fabio Pittore, un altro storico romano, che il primo comizio centuriato fu convocato in armi al di fuori del pomerium, il confine sacro della città, nel Campo Marzio, luogo che resterà sede dei comizi centuriati anche per le successive convocazioni. Durante la prima convocazione, Servio elevò sacrifici agli dei e celebrò la conclusione del censimento (lustratio), effettuato proprio per la costituzione del comizio centuriato. Secondo Fabio Pittore erano presenti 80.000 uomini in armi, numero che crebbe poi nel tempo rendendo la convocazione sempre più difficile.

Le centurie ottemperavano a funzioni sia militari che politiche; avevano il dovere di costituire l'esercito con le legioni e il diritto di voto nei comizi centuriati, assemblea a cui, nel periodo della repubblica,  saranno demandati i maggiori compiti di governo riservati al popolo. 

L'affollamento della prima classe sembra dimostrare che vi partecipassero tutti i proprietari unici di intere unità fondiarie, e che alle classi inferiori fossero invece  iscritti quelli che per ragioni ereditarie o di altro ordine, possedessero rispettivamente i tre quarti, la metà, un quarto, o una frazione  minore di altre unità fondiarie.

Non si sa con esattezza quando, ma pare che occorressero 20 iugeri di terreno (lo iugum nell'antica Roma era l'unità di misura di superficie equivalente a 0,252 ha e indicava il terreno arabile in una giornata da una coppia di buoi attaccati allo stesso giogo) per l'appartenenza alla I classe; 15 alla II, 10 alla III, 5 alla IV, 2 alla V. 

Il censo necessario per l'appartenenza a ciascuna classe viene riferito dagli antichi cronisti, in denaro (100.000 assi per la 1ª classe, 75.000 per la 2ª, 50.000 per la 3ª, 25.000 per la 4ª, 12.000 o 11.000 per la 5ª), ma è probabile che questo criterio sia stato introdotto dal console Appio Claudio Cieco (nel 310 a. C.), mentre in precedenza erano censiti nelle cinque classi solamente gli adsidui, coloro che prestavano assiduamente i servizi militari, cioè  i proprietari di  fondi iscritti come tali nelle tribù.

La monetazione a Roma venne introdotta verso la fine del IV secolo a.C., per cui i capitali, al tempo della monarchia e della prima repubblica, erano misurati in "pecunia" (nome della pecora in latino) non numerata e cioè metallo pesato  (come gli assi in bronzo). Nella prima parte della storia di Roma, dalla sua fondazione (21 aprile 753 a.C.) a tutto il periodo monarchico (753-509 a.C.) e parte del periodo repubblicano, fino al III secolo a.C., il commercio non si basava sull'uso della moneta, ma su una forma di baratto che sfruttava come mezzo di scambio scarti di lavorazione di bronzo informi (l' aes rude) di valore intrinseco, ossia la quantità di bronzo. La prima moneta standardizzata da parte dello stato Romano è stata l'aes grave (asse in italiano), introdotta con l'avvio dei commerci su mare intorno al 335 a.C. Nella Roma del I secolo d.C., con un asse si potevano acquistare 542 grammi di grano, due chili di lupini, un quarto di vino comune, mezzo chilo di pane, o entrare alle terme; quindi un asse poteva valere all'incirca 0,5 € e un sesterzio circa 2 €.

Il rapporto fra le centurie dell'esercito e quelle dei comizi centuriati rimane piuttosto oscuro. Secondo una dottrina ispirata alle dichiarazioni di Dionisio, sembra che ogni centuria dell'ordinamento serviano (o almeno ogni centuria di iuniores nelle classi dei pedites) dovesse fornire alle leve annuali un contingente di 100 uomini. Ma anche calcolando in 19 le campagne alle quali ogni iunior era tenuto a partecipare entro i 28 anni d'iscrizione, il continuo guerreggiare dei Romani e il calcolo dei morti in battaglia e d'invalidi, presupporrebbe negli iuniores della prima classe, centurie di 300 uomini (e di 100 nei seniores); sicché alla prima classe avrebbero dovuto appartenere 16.000 uomini validi. Quanto alle classi inferiori, anche a voler ammettere che l'addensamento non superasse da classe a classe il 33%, non avrebbero potuto aver meno di 40.000 uomini complessivamente: con la cavalleria e il proletariato, si sarebbero raggiunti 60.000 uomini validi, un numero di cui Roma non poteva disporre al tempo del re Servio e nemmeno per secoli a venire. Si aggiunga che non solo le operazioni del censimento, ma anche quelle della leva annuale si facevano, come concordemente rilevano gli antichi, fra le tribù in cui la popolazione era divisa (nella sistemazione definitiva le tribù erano 35, 4 urbane e 31 rustiche).
Pare quindi che le due iscrizioni di ogni cittadino fossero indipendenti, e si consideri poi che vista la maggioranza dei cavalieri e prima classe nelle votazioni dei comizi centuriati, devono essere state minime le occasioni di voto delle altre classi.

Si deve rilevare quindi che Livio e Dionisio abbiano descritto l'ordinamento centuriato con 193 centurie in una fase nella quale era già venuta meno l'eventuale originaria funzione delle centurie come distretti di leva e che la struttura primordiale fosse molto più semplice. Non è assurdo supporre che la distinzione fra seniores e iuniores non sia originaria (come ha sostenuto Beloch) e inoltre l'uso, corrente anche in età avanzata, di chiamare 'classici' i pedites della prima classe e 'infra classem' i rimanenti, può far pensare che nei primordi vigesse soltanto questa distinzione elementare, sicché 80 sole centurie (40 di classici e 40 infra classem) fornissero i contingenti alla fanteria. Se poi si pensa che prima della presa di Crustumerium (circa 450 a.C.) le tribù erano venti, la commensurabilità fra tribù e centurie sarebbe stata stabilita almeno per un periodo iniziale.

Ma una siffatta ipotesi urterebbe con il fatto che proprio l'ordinamento descritto dagli antichi è condotto in ogni particolare sulla falsariga di un esercito di due legioni. Le centurie di iuniores delle prime tre classi darebbero 6.000 uomini di armatura pesante (3.000 per legione): le classi quarta e quinta darebbero 2.500 uomini di armatura leggera, con una minima differenza in più rispetto ai 1.200 per legione. Solo i seicento cavalieri delle legioni disporrebbero di un numero triplo di unità comiziali: ma il punto di partenza dei 600 è evidente nella posizione privilegiata dei sex suffragia, i cavalieri di ordine pubblico. In quest'ordine di idee, preferiamo ritenere che l'ordinamento attribuito a Servio  Tullio non abbia mai avuto rapporto con la leva, anzi abbia distribuito i partecipanti al comizio ad  imitazione della distribuzione delle forze nell'esercito


Secondo ogni probabilità, i comizi dell'epoca regia non ebbero mai competenza legislativa né elettorale e durante il passaggio (graduale) dalla monarchia alla repubblica, era mediante acclamazione che l'esercito eleggeva i suoi capi prima di muovere guerra. Era naturale che, trasformandosi l'acclamazione in elezione e trasferendola, dall'esercito in armi alla popolazione maschile atta alle armi, questa si ordinasse sull'esempio di quello.

Quanto alla data approssimativa dell'ordinamento centuriato, poiché dalla critica delle liste dei tribuni militum consulari potestate sembra risultare che il raddoppiamento della legione avvenne circa nel 405 a.C., l'adozione del comizio centuriato è quasi coevo; se ne ha una riprova nella diffusione che proprio allora ebbe la piccola proprietà fondiaria.

agli eserciti romani.

Il logo della Repubblica di Roma:
Senatus Popolus Quirites Romani

SENATO al POTERE e CONFLITTO degli ORDINI a ROMA nella PRIMA età REPUBBLICANA (509 a.C. 367 a.C.) Nel 509 a.C.,  a Roma viene  cacciato l'Etrusco Tarquinio il Superbo, l'ultimo re di Roma, e viene proclamata la  Repubblica, che adotta come epigrafe S.P.Q.R., Senatus Popolus Quirites Romani: Senato, Popolo (nel latino arcaico, per popolus si intendeva la forza militare, visto che nel latino arcaico populare  significava devastare) e Quiriti (l'insieme del corpo civico) Romani, mentre molte emanazioni degli ordinamenti, nell'epoca monarchica, erano firmati solo "Populus Romanus Quirites". 

L'ultimo re di Roma, Tarquinio il Superbo, pur avendo ottenuto il rinnovo del trattato di pace con gli Etruschi, nel contesto di una più ampia esautorazione del potere etrusco dall'area dell'antico Latium vetus, alla fine è rovesciato. Roma, i cui possedimenti non si estendevano oltre le 15 miglia dalla città, si dà un assetto repubblicano, una forma di governo basata sulla rappresentatività popolare, in contrasto con la precedente autocrazia monarchica. Nel 509 a.C., il re deposto, Tarquinio il Superbo, la cui famiglia si narra fosse originaria di Tarquinia in Etruria, ottenuto il sostegno delle città di Veio e Tarquinia, in rivalsa alle sconfitte subite in passato dai Romani, tenta di riconquistare Roma, ma i due consoli romani, Publio Valerio Publicola e Lucio Giunio Bruto, avanzano con le forze romane contro di loro e l'ultimo giorno del mese di febbraio si combatte la sanguinosa  battaglia della Selva Arsia,  durante la quale cadono moltissimi uomini, sia da una parte che dall'altra; tra questi anche il console Bruto. Lo scontro è interrotto da una violenta e improvvisa tempesta quando l'esito della battaglia è ancora incerto e tanti sono i morti che giacciono sul campo di battaglia. Entrambe le parti reclamano la vittoria, finché «...Numeratisi poscia i cadaveri, trovati furono undicimila e trecento quelli dei nemici, e altrettanti, meno uno, quei dei Romani» (Plutarco, La vita di Publicola).

La vittoria è dei Romani, e quindi sarà Res Publica. La Roma repubblicana adotta un proprio alfabeto, il Latino, derivato da quello dei Greci di Cuma, mentre la sua struttura economica sarà basata prevalentemente sulla pastorizia (il termine stesso per il denaro, "pecunia", deriva da "pecora") e sull'agricoltura, tanto che l'esercito è formato prevalentemente da allevatori e proprietari terrieri, ritenuti gli unici ad avere la motivazione per partecipare alla politica difensiva e/o espansionistica di Roma con le armi, e arruolati con una di leva obbligatoria: ogni membro dell'esercito doveva provvedere, a proprie spese, all'equipaggiamento per la battaglia, generalmente composto da spada e lancia per i "pedites", i fanti, fra cui i più benestanti potevano permettersi anche le protezioni di scudo e armatura. La formazione di combattimento per quest'ultimi era la falange. I più ricchi sono gli "equites", i cavalieri, che potevano mantenersi il cavallo e disporre di protezioni (elmi, scudi e corazze) oltre alle armi offensive. 

Le legioni combattevano schierate a falange, formazione a cui spettava sostenere l’urto frontale con il nemico, costituita da 3 linee distanziate di fanteria pesante, formate da hastati (1200), principes (1200) e triarii (600); completavano i quadri i velites (1200), fanteria leggera, con il compito di prendere il primo contatto con il nemico, e gli equites, contingente di 300 cavalieri disposto ai lati dello schieramento cui era riservato l’inseguimento del nemico in rotta.  

La funzione tattica della cavalleria legionaria di epoca regia e di inizio Repubblica, si basava sulla mobilità e aveva compiti di avanguardia ed esplorazione, di scorta, nonché per azioni di disturbo o di inseguimento al termine della battaglia o infine per spostarsi rapidamente sul campo di battaglia e prestare soccorso a reparti di fanteria in difficoltà. I cavalieri usavano briglie e morsi, ma le staffe e la sella erano sconosciuti: non è quindi ipotizzabile una cavalleria "da urto". Quei cavalieri che, nelle stele funerarie appaiono armati di lancia e spada, protetti da un elmo, magari con scudo e piastra pettorale, erano molto probabilmente una sorta di fanteria oplitica mobile. Tito Livio racconta che ancora nel 499 a.C., il dittatore Aulo Postumio Albo Regillense, ordinò ai cavalieri di scendere dai cavalli ed aiutare la fanteria contro quella dei Latini in prima linea: «Essi obbedirono all'ordine; balzati da cavallo volarono nelle prime file e andarono a porre i loro piccoli scudi davanti ai portatori di insegne. Questo ridiede morale ai fanti, perché vedevano i giovani della nobiltà combattere come loro e condividere i pericoli. I Latini dovettero retrocedere e il loro schieramento dovette ripiegare.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 20). Si trattava delle fasi conclusive della battaglia del lago Regillo. I cavalieri romani risalirono, infine, sui loro destrieri e si diedero ad inseguire i nemici in fuga. La fanteria li seguì e venne conquistato il campo latino.

A Roma dunque, i patrizi del Senato prendono il potere. Al di là della storia, vera o leggendaria, della cacciata di Tarquinio il Superbo, sul finire del V secolo a.C. il potere etrusco e latino nel Lazio andava perdendo presa a favore della città di Roma e non è da escludere che il Senato abbia complottato per cacciare gli ultimi re etruschi e prendere direttamente il potere. Il racconto tradizionale, la cui fonte primaria si trova nell'opera "Ab Urbe condita libri" di Tito Livio, narra che i patrizi, che nel Senato  possedevano il loro organo di governo, una volta preso il potere esecutivo, detronizzando Tarquinio il Superbo e abbandonando definitivamente la monarchia nel 509 a.C., si arrogarono il potere di limitare ai soli componenti del loro ordine (la classe sociale aristocratica) il governo della città, nominando ogni anno due consoli, scelti fra i patrizi, che per quell'anno condividessero il potere esecutivo, sia in tempi di pace che di guerra. 

Consoli della Repubblica
di Roma.
Inizialmente solo i patrizi, di almeno 40 anni, potevano divenire consoli
Dopo diversi conflitti sociali, chiamati "conflitti degli Ordini", con le cosiddette Leges Liciniae Sextiae (del 367 a.C.), i plebei ottennero il diritto a eleggerne uno; il primo console plebeo fu Lucio Sestio, nel 366 a.C.

Gli incarichi religiosi e di arbitraggio sul diritto, erano svolti dai Pontefici, ed erano quindi separate le figure dei capi politico-militari da quelle dei sacerdoti-giudici.

La plebe rimaneva comunque "classe inferiore", componente della massa cittadina e rilevante solamente per l'economia e per il servizio militare, mentre ai patrizi erano riservate tutte le magistrature e l'accesso esclusivo ai collegi sacerdotali e al Senato. I patrizi col tempo, finirono per abusare della loro posizione dominante, utilizzando ad esempio l'istituto del nexum per portare i debitori alla schiavitù e favorendo il loro ceto a discapito della plebe, gestendo, nei comizi centuriati,  la maggioranza nelle votazioni, determinata dai soli voti dei cavalieri e della prima classe. Era quindi preponderante il peso dei più ricchi.

Il Nexum era una forma di garanzia, forse la più solenne che fosse prevista nell'ordinamento legale di Roma, codificato in forma scritta nelle Leggi delle XII tavole: « Quando taluno fa un nexum o una mancipatio, come solennemente pronuncia, così sarà il suo diritto (cioè il tenore e la portata del diritto dipenderanno esattamente dalle parole proferite). » (Leggi delle XII tavole - TABVLA VI sulla Proprietà).
La sua solennità probabilmente derivava dal fatto che le garanzie sottintese al nexum erano della massima delicatezza per chi vi si sottoponeva. Con l'accettazione del nexum il debitore forniva come  garanzia di un prestito l'asservimento di se stesso, o di un membro della sua famiglia su cui avesse la potestà (un figlio ad esempio), in favore del creditore fino all'estinzione del debito. Il "nexum" trovò spesso applicazione anche come "negotium imaginarium": in questo caso il "nexus" chiedeva al creditore di un proprio debito rimasto insoluto di accettare la propria persona in qualità di "nexus"; questo accadeva perché nel sistema processuale romano arcaico il soggetto insolvente "iudicatus" era suscettibile di "addictio" definitiva al creditore, il quale poteva ridurlo in schiavitù od ucciderlo. L'estinzione del debito poteva avvenire con il pagamento in contanti, in beni oppure con servizi prestati per un determinato tempo che, naturalmente veniva fissato in relazione al debito. In genere, d'altronde, il nexum portava alla schiavitù perpetua di chi vi era sottoposto per le ovvie implicazioni dell'operatività di chi era asservito. Non potendo gestire la propria vita in modo da allargare i guadagni diventava sempre più difficile all'asservito poter raccogliere le somme necessarie a pagare il riscatto. Probabilmente per la rarità dell'evento, la manomissione del soggetto avveniva in forma solenne e celebrata davanti alle magistrature della città. Si parlava, in questo caso di solutio per aes et libram.
Con il termine manomissione (manumissio) si indica in diritto romano l'atto con cui il proprietario libera un servo dalla schiavitù. All'interno della disciplina giuridica romana classica erano conosciute tre forme di manomissione: la manumissio vindicta, la manumissio testamento e la manumissio censu. Queste tre manumissiones si caratterizzano poiché, oltre alla libertà, consentono al servo di acquistare simultaneamente anche la cittadinanza romana, e sono dette manomissioni civili.
Nel 352 l'azione dei mensari nominati dai consoli Publio Valerio Publicola e Gaio Marcio Rutilo, limitò l'azione del nexum il cui istituto pare sia stato abolito nel 312 a.C. dopo che già dal 342 a.C. Appio Claudio Cieco aveva posto mano ad una prima riforma per favorire il reclutamento di truppe durante le Guerre sannitiche.
mensari erano stati un gruppo di cinque aristocratici cittadini che nella Roma del IV secolo a.C. si adoperarono per aiutare i cittadini plebei che, a causa di difficoltà economiche dovute al protrarsi delle guerre, rischiavano di cadere sotto le prescrizioni del nexum, la schiavitù per debiti.

Dal 482 a.C. si combattono le guerre fra Roma e Veio. Nel capitolo 43 del suo secondo libro, che racconta episodi del 482 a.C. circa, durante il consolato di Quinto Fabio Vibulano e Gaio Giulio Iullo, Tito Livio narra che i Veienti, gli etruschi di Veio, approfittando dell'impegno di Roma per riprendere la supremazia sulle  popolazioni latine, ripresero (o forse non avevano mai posato) le armi, venendo a stento tenuti a freno. 
L'anno successivo, consoli Cesone Fabio Vibulano e Spurio Furio Fusone, «Gli Equi attaccarono una città latina, Ortona e i Veienti, ormai sazi di bottino, minacciavano di attaccare la stessa Roma.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 43, op. cit.). 

Gaio Giulio partì contro gli Equi mentre Fabio portò l'esercito contro Veio. Fu una pagina nera nella storia dell'esercito romano. 
Per i motivi di frizione sopra sommariamente descritti, nonostante la bravura militare del console che schierò le truppe per consentire alla sola carica della cavalleria di sgominare il nemico, i fanti, componenti della plebe, si rifiutarono persino di inseguire i nemici in fuga, volsero le spalle e ritornarono agli accampamenti. 

L'anno seguente l'aristocrazia cambiò tattica: sotto l'impulso di Appio Claudio, il senato iniziò a cercare l'aiuto di almeno uno dei tribuni, per metterlo contro il collega e neutralizzare, con una forza uguale e contraria, i difensori della plebe. La posta era una delle molte ripresentazioni di una legge agraria che voleva contrastare lo strapotere dei ricchi possidenti. Questi, per potenza economica o politica riuscivano spesso ad impossessarsi dei terreni conquistati dall'esercito dirigendo gli sforzi dell'intera popolazione (anche della plebe) verso poche e ricche tasche

La mossa politica riuscì e «avvenne la partenza per la guerra contro Veio, cui erano giunti aiuti da ogni parte dell'Etruria, non per particolare gratitudine ai Veienti, ma per la speranza che quella fosse l'occasione in cui Roma, logorata dalla lotta intestina, potesse subire il tracollo.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 44, op. cit.). 

Nei prodromi della battaglia, si assistette ad astute resistenze di consoli ad attaccare per aumentare la vergogna e quindi l'ira dei Romani, gli atti di eroismo dei semplici combattenti e dei componenti della gens Fabia che affiancavano il consanguineo console Quinto Fabio e della morte dell'altro console Gneo Manlio Cincinnato merita una voce a sé stante. 
Questa, ad ogni modo, è la prima descrizione accurata di una battaglia fra Romani e Veienti. In questo periodo i Fabi sorsero in grande importanza all'interno di Roma, la famiglia dava ogni anno un console alla città. L'anno successivo, infatti, Cesone Fabio Vibulano salvò Roma da un attacco dei Veienti che il collega del console, Tito Virginio Tricosto Rutilo, aveva sottovalutato. Da quel momento con i Veienti si instaurò una situazione di "non-pace e non-guerra" con azioni di puro brigantaggio nei territori avversari. Gli etruschi non affrontavano le legioni romane, ritirandosi dentro le mura e quando i Romani si allontanavano uscivano per compiere razzie. Poiché gli eserciti di Roma erano spesso impegnati in vari altri fronti, i Fabii giunsero a chiedere una sorta di appalto della guerra contro Veio

Mentre la città poteva portare i suoi eserciti contro Equi e Volsci, la gens Fabia avrebbe preso su di sé l'intero peso della guerra con Veio, impegnandosi a «salvaguardare l'autorità di Roma nel settore e condurre la guerra come un affare di famiglia, finanziandola privatamente senza che la città dovesse impegnare né denaro né uomini.». (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 48, op. cit.). 

La guerra con Veio diventò endemica generando un famoso episodio della storia di Roma. I Fabii condussero la guerra, una sorta di bracconaggio invero, provocando i Veienti, rubando le loro messi e le loro mandrie, resistendo agli attacchi dei nemici fino a quando questi, stanchi di "perdere la faccia", non si organizzarono, articolando una trappola e trucidando tutti i componenti della gens Fabia nella Battaglia del Cremera. Era il 13 luglio del 477 a.C.; dei Fabii rimase un solo componente, il futuro console Quinto Fabio Vibulano. Come conseguenza i Veienti ripresero coraggio e arrivarono persino al Gianicolo senza saper approfittare dell'occasione. Si fecero sconfiggere nuovamente con un trucco simile a quello utilizzato contro i Fabii e vennero sterminati.

Essendo l'esercito romano composto per lo più da cittadini agricoltori, le continue guerre di Roma con i popoli vicini rendevano spesso impossibile alle famiglie della classe plebea, che si sostenevano con il diretto lavoro dei campi svolto dal capofamiglia e dai figli maschi, di pagare i debiti che contraevano per sopravvivere durante la loro assenza. La conseguente e fiscale applicazione del  nexus permetteva perciò al patriziato di impadronirsi delle terre e perfino delle vite degli sfortunati agricoltori-combattenti e dei loro famigliari.

Le leggi, fino al 450 a.C. circa (promulgazione delle Leggi delle XII tavole da parte dei Decemviri), erano tramandate per tradizione orale da un pater familias al successore e solo i patrizi avevano accesso a questa conoscenza. L'ovvia conseguenza era che le interpretazioni delle leggi, e perfino la decisione di quale fosse il giorno giusto per il dibattimento di una causa, restavano in mano ai patrizi attraverso i collegi degli auguri che decretavano i "giorni fausti" e i "giorni infausti". D'altra parte anche le leggi delle XII tavole non portarono che miglioramenti limitati. La fissazione su bronzo e l'apposizione del testo nel Foro romano, richiedevano anche la definizione di altre decisioni accessorie. Anche i giorni infausti, dovettero essere ben definiti, poiché in quei giorni era chiusa ogni attività forense. Queste leggi, inoltre, rimanevano molto discriminatorie nei confronti della plebe. Basti citare la legge che vietava il matrimonio fra componenti dei due ordini e che fu abrogata dopo pochi anni con l'approvazione - fra immani contrasti - della Lex Canuleia nel 445 a.C. In questa situazione di oppressione, grazie al Conflitto degli ordini, con varie secessioni della plebe, i plebei riuscirono ad ottenere l'istituzione dei tribuni (rappresentanti delle tribù) della plebe, la cui autorità per proteggerli dagli eccessi dei patrizi fu da questi accettata. Queste prime forme di emancipazione furono ottenute grazie alle secessioni, cioè la decisione di uscire in massa dalla città e di non rientrarvi fino alla soddisfazione delle richieste, con la chiusura di botteghe e attività artigianali e soprattutto rendendo impossibile la chiamata della leva militare contro i confinanti ed eventuali nemici, convincendo  infine Senato e patrizi  a condividere il loro potere quasi assoluto. Anche dopo avere ottenuto l'istituzione dei tribuni della plebe, i  contrasti continuarono per anni, fino a quando nel 367 a.C. i tribuni della plebe Gaio Licinio Stolone e Lucio Sestio riuscirono a far promulgare le leges Liciniae Sextiae, con cui si stabiliva che uno dei due consoli  dovesse sempre essere eletto fra i componenti dell'ordine plebeo. Non molto tempo dopo, come conseguenza, ai plebei fu aperto l'accesso ad altre magistrature, come quelle di dittatorecensore e pretore

Durante il cosiddetto "conflitto degli ordini", che si era scatenato nella Repubblica Romana dall'anno 444 a.C. e si era poi  riacceso dall'anno 398 a.C. al 394 a.C. e, dopo un breve interludio, dall'anno 391 a.C. fino al 367 a.C., erano eletti, invece che i consoli, dei tribuni militum consulari potestate (tribuni militari con potestà consolare) o più brevemente tribuni consolari, che avevano potere consolare. 
Secondo Tito Livio e Dionigi di Alicarnasso, la magistratura dei tribuni militum consulari potestate fu creata nel periodo del conflitto degli ordini, assieme alla carica di censore, allo scopo di permettere all'ordine plebeo l'accesso alle più alte cariche del governo, senza per questo dover riformare la carica di console che il patriziato difendeva come riservata al suo ordine. Con l'introduzione della figura del tribuno consolare si oltrepassava il problema formale pur dando alla  plebe l'accesso al massimo potere. Nonostante la prima nomina sia avvenuta nel 444 a.C., occorrerà aspettare il 400 a.C., perché si possa registrare la nomina di un plebeo, Publio Licinio Calvo Esquilino, alla magistratura del tribunato consolare. La scelta della forma di governo di un dato anno - con consoli o tribuni consolari - era comunque affidata al popolo al momento delle elezioni e quindi si osservano anni in cui Roma era guidata da consoli e altri in cui la guida era affidata ai tribuni consolari. Molto probabilmente la scelta avveniva scegliendo le "persone" più che i "tipi di carica" in relazione alla capacità dei singoli candidati di attrarre i voti delle tribù. L'elezione dei tribuni consolari ebbe termine quando, nel 367 a.C. con l'approvazione delle leges Liciniae Sextiae, la plebe riuscì ad ottenere l'accesso alla carica di console, accesso che fu poi regolamentato dalla lex Genucia, approvata nel 342 a.C.

Con l’istituzione della dualità consolare l’esercito è sdoppiato in due legioni (secondo alcune fonti, già nell'esercito serviano si contavano 2 compagini legionarie, una utilizzata per difendere la città e l'altra per compiere campagne militari esterne) con gli effettivi dimezzati pur conservando gli stessi quadri (3000 fanti su 60 centurie, invece di 6000). Dalla critica delle liste dei tribuni militum consulari  potestate, sembra risultare che il raddoppiamento della legione avvenne circa nel 405 a.C.

Da epoca remota, probabilmente dal tempo dell'introduzione dell'ordinamento timocratico, la  cavalleria romana è permanente, nel senso che lo stato assicura il reclutamento della cavalleria corrispondendo a un numero fisso di cittadini (nell'epoca storica 1.800) un'indennità per l'acquisto di uno o due cavalli (aes equestre) e per il foraggio (aes hordiarium); si riconoscono cioè le speciali esigenze di  addestramento e di allenamento che richiede il servizio a cavallo. La scelta dei cavalieri era fatta dai magistrati supremi, re e consoli nel tempo più antico, dai censori dopo l'istituzione di questa carica; e alle stesse persone spettava la rassegna periodica della cavalleria per accertarsi delle attitudini militari dei cavalieri e della tenuta delle cavalcature e delle armi. Lo stato si riservò tuttavia il diritto, almeno da una certa epoca, d'imporre il servizio a cavallo anche a coloro che, pur non godendo dell'assegno equestre, possedessero però un determinato patrimonio, che gli mettesse di provvedere con mezzi propri al reperimento di cavalli da guerra. Così si fissò per tempo il cosiddetto "censo equestre" e a questi cavalieri si ricorreva quando non fossero stati sufficienti  gli equites equo publico.

CAVALLERIA aristocratica e FANTERIA cittadina dei GRECI antichi - Nella mitologia greca i Lapìti erano un popolo leggendario che abitava le cime del Pindo, del Pelio e dell'Ossa nella valle del Peneo in Tessaglia e che si vantavano di discendere dalla divinità fluviale Peneo e dalla ninfa Creusa (Diod. Sic., IV, 69 ss.). Nella mitologia greca i Lapìti presero parte alla caccia calidonia (nella mitologia greca, il cinghiale di Calidone o calidonio è un essere ferino di straordinaria possanza che compare in diversi miti come antagonista di grandi eroi. Era detto essere figlio della scrofa di Crommio e fu mandato da Ares, per gelosia, a uccidere Adone quando costui si innamorò di Afrodite. La fiera trovò la morte nella "caccia calidonia", una battuta di caccia al cinghiale organizzata dal re Oineo di Calidone. Il cinghiale era stato inviato da Artemide a distruggere i campi di Calidone perché Oineo era venuto meno nelle offerte votive succedute all'eccellente raccolto calidonio trascurando la dea, e per liberarsi della belva, Oineo organizzò una caccia in cui chiese la partecipazione di quasi tutti gli eroi del mito greco; tra gli altri, Castore e Polluce, i Cureti, Ida e Linceo, Admeto e Atalanta), alla spedizione degli Argonauti, lottarono con Eracle e compaiono in varie leggende, tra cui la più famosa narra la lotta da essi sostenuta contro i Centauri.. L'origine dei Lapìti, al pari dei Mirmidoni e delle altre tribù tessale, risale ad un'epoca pre-ellenica. Le antiche genealogie sostenevano che la loro stirpe fosse imparentata con quella dei Centauri: in particolare, secondo una leggenda, Lapite e Centauro sarebbero stati fratelli gemelli figli di Apollo e della ninfa Stilbe, figlia del dio fluviale Peneo. Lapìte era un abile guerriero, mentre Centauro era un essere deforme che visse insieme a dei cavalli e si accoppiò con delle giumente, generando i Centauri, creature metà uomini e metà cavalli. Lapite divenne invece il progenitore della stirpe che da lui prende il nome, e tra i suoi discendenti si trovano re e guerrieri come Issione, Piritoo, Ceneo e Corono, nonché i veggenti Idmone e Mopso. La madre di Piritoo era Dia figlia di Deioneo (o Eioneo) mentre, come era comune per molti eroi, egli aveva sia un padre divino che un padre mortale. Il suo padre immortale era Zeus che però, per mettere incinta Dia, aveva dovuto assumere la forma di un cavallo, ragion per cui i Lapiti divennero anche abili cavalieri. A loro era attribuita l'invenzione del morso delle briglie
Metopa del Partenone: lotta fra
un Centauro e un Lapita.
Secondo l'Iliade i Lapiti parteciparono alla guerra di Troia con quaranta navi sotto il comando di Polipete, figlio di Piritoo e di Leonteo, figlio di Corono. La più famosa leggenda che coinvolge i Lapìti è quella della loro battaglia contro i Centauri in occasione della festa nuziale di Piritoo, la cosiddetta "Centauromachia". I centauri erano stati invitati ai festeggiamenti ma, non essendo abituati al vino, ben presto si ubriacarono, dando sfogo al lato più selvaggio della loro natura. Quando la sposa Deidamia arrivò per accogliere gli ospiti, il centauro Euritione balzò su di lei e tentò di stuprarla. In un attimo anche tutti gli altri centauri si lanciarono addosso alle donne e ai fanciulli. Naturalmente scoppiò una battaglia nella quale anche l'eroe Teseo, amico di Piritoo, intervenne in aiuto dei Lapìti. I centauri furono alla fine sconfitti e scacciati dalla Tessaglia e a Euritione furono mozzati naso e orecchie. Durante lo scontro cadde il lapite Ceneo e il centauro Cillaro. Ceneo, uno tra i Lapìti più famosi, originariamente era una ragazza di nome Ceni ed era la favorita di Poseidone che, per esaudire una sua supplica, la trasformò in un uomo rendendola un guerriero invulnerabile. Donne guerriere di questo tipo, a stento distinguibili dagli uomini, erano comuni tra i cavalieri Sciti e furono ancora presenti nella tradizione albanese. Nel corso della battaglia contro i centauri Ceneo si era dimostrato invulnerabile ancora una volta, finché i Centauri non decisero semplicemente di schiacciarlo con dei massi e dei tronchi d'albero: a quel punto egli sprofondò ancora apparentemente illeso nelle profondità della terra, dalle quali riemerse trasformato in un uccellino. Quando l'interpretazione dei miti greci cominciò a essere mediata dall'influenza del pensiero filosofico, la battaglia tra Lapìti e Centauri fu vista come un'allegoria della lotta interiore tra gli istinti selvaggi dell'uomo e l'educazione basata sulla civiltà, rappresentata dalla giusta comprensione da parte dei dell'uso che andava fatto del vino donato dagli dei, che deve essere allungato con acqua e bevuto senza abbandonarsi agli eccessi. Gli scultori greci della scuola di Fidia concepirono questa battaglia come una lotta tra l'umanità e dei mostri maligni che simbolicamente rappresentava il conflitto tra la civile Grecia e i barbari dell'Impero Persiano. I Lapìti appaiono per la prima volta nel campo figurativo con la rappresentazione di Ceneo su di una lastra in bronzo, a Olimpia (VII sec. a.C.). La battaglia tra Lapìti e Centauri è rappresentata sulle sculture dei fregi che decorano il Partenone, per richiamare il reciproco rispetto e l'alleanza tra l'ateniese Teseo e il Lapìte Piritoo, nonché su quelle del tempio di Zeus a Olimpia. Fu inoltre un tema estremamente popolare per i decoratori di vasellame.

Finito il predominio degli aristocratici Achei, la cui arma caratteristica era il carro da guerra, ovviamente trainato da cavalli, nacquero e si svilupparono delle milizie cittadine di fanteria “pesante”, gli opliti (in greco antico ὅπλον = òplon, era il loro scudo), a cui si affiancarono più tardi quelle “leggere” dei peltasti, col loro scudo di legno rivestito di cuoio chiamato pelta. In Grecia il cavallo è stato usato fin dall'età micenea (dai resoconti di Omero) per trainare i carri da guerra, ai quali è subentrata la cavalleria, che i Greci conobbero nell'Asia Minore, specialmente in Lidia e Assira. La cavalleria in Grecia non si è sviluppata uniformemente. Nelle regioni in cui il terreno si prestava al suo impiego e in cui la nobiltà mantenne più a lungo la sua supremazia politica (i due fatti sono di solito in stretta relazione), la cavalleria fiorì; così in Macedonia, Tessaglia, Beozia, Eubea, parecchie città greche dell'Asia Minore, Cirene, Cipro, Creta, Sicilia. Invece nelle regioni montuose o a precoce sviluppo democratico, la borghese fanteria degli opliti ebbe la prevalenza e la cavalleria o fu presto soppressa o ebbe scarsa importanza. Così, mentre in Tessaglia la proporzione fra cavalieri e fanti stava come 1 a 2 (v. Aristot., fr. 498 Rose; Xenoph., Hell., VI, I, 8), a Sparta invece nell'VIII o VII secolo la stessa guardia a cavallo del re fu appiedata, conservando il titolo di ἱππεῖς=cavalieri a ricordo della sua antica condizione, seppur l'esercito cittadino spartano fosse formato di soli opliti. In Atene la cavalleria, che esisteva ancora al tempo dei Pisistratidi, che ricorsero però spesso all'eccellente cavalleria dei Tessali, loro alleati, fu abolita pare da Clistene, e a Maratona e a Platea gli Ateniesi non avevano cavalleria, pur continuando i cittadini della classe più elevata a chiamarsi ἱππεῖς=cavalieri.
Si pensa che siano stati gli Spartani a inventare la falange oplitica poiché all’epoca di Senofonte, agli inizi del IV secolo a.C., la loro era di gran lunga la più organizzata ed efficace.

Tratto da https://studiahumanitatispaideia.blog/2013/10/27/difendere-la-citta/: È lecito ritenere che siano stati gli Spartani a inventare la falange, anche se l’unico vero tratto che distingueva gli opliti lacedemoni da quelli delle altre póleis rimase il loro distintivo mantello rosso (τρίβων), che si avvolgevano completamente intorno al corpo, sia d’estate sia d’inverno, senza mai lavarlo, ma che d’altronde non usavano in battaglia: le fonti tramandano che fosse stato Licurgo a stabilire per i Lacedemoni indumenti rossi, perché essi non tolleravano la minima somiglianza con l’abbigliamento femminile. Plutarco invece riporta che gli Spartiati, i cittadini-guerrieri di Sparta discendenti dei Dori, che avevano occupato la Laconia e schiavizzato i Messeni, indossavano mantelli rossi in battaglia affinché non fossero visibili loro eventuali ferite, apparendo così invulnerabili. La falange oplitica appare come la logica trasposizione, sul campo di battaglia, di quello stretto cameratismo che veniva inculcato negli Spartiati e della loro società di «eguali» (ὅμοιοι).

La falange greca, formazione serrata con cui
combattevano gli opliti dell'antica Grecia.
L’unità minore della falange spartana era l’ἐνωμοτία (la squadra), originariamente composta da ventitré opliti, disposti in tre file da otto elementi, e due ufficiali: l’ἐνωμοτάρχης=balivo, che si posizionava davanti alla prima linea, e l’οὐραγός, che occupava uno dei posti dell’ultima fila e aveva la responsabilità del mantenimento della coesione della formazione. Due ἐνωμοτίαι (squadre) formavano una πεντηκοστή=cinquantina, ciascuna comandata da un πεντηκόνταρχος=quartiermastro, e quattro squadre formavano una compagnia (λόχος) unità della falange, che quindi, nei tempi più antichi, era costituita da un centinaio di uomini al comando di un capitano (λοχαγός). Tuttavia la compagnia descritta da Senofonte a proposito della falange spartana al termine della Guerra del Peloponneso, è di centoquarantaquattro elementi, stante la tendenza ad aumentare la profondità delle file di ciascuna squadra, formata da trentasei opliti disposti su tre file da dodici di profondità, oppure su sei file da sei di profondità. A Sparta, ai tempi di Senofonte quattro compagnie (λόχοι) formavano una «divisione» (composta quindi da 400/576 fanti), ovvero una μόρα=battaglione, sei delle quali costituivano l’intero esercito lacedemone; in tempi anteriori, la denominazione di λόχος=compagnia poteva essere attribuita anche ad unità più consistenti, anche perché la parola μόρα=battaglione in Erodoto è del tutto assente.
Un segnale di tromba, dato a meno di duecento metri di distanza dall’esercito nemico, dava inizio all’assalto vero e proprio (ἐπίδρομος=incursione), durante il quale gli ufficiali continuavano a incitare i propri commilitoni con frasi del tipo: «Chi seguirà? Chi si dimostrerà coraggioso? Chi sarà il primo ad abbattere il nemico?», che i soldati ripetevano fino a quando non giungevano a contatto con gli avversari. Gli opliti procedevano ora di corsa – al ritmo di otto chilometri l’ora – dopo aver posizionato lo scudo, fino ad allora portato di fianco, in modo da coprire la maggior parte del corpo, e la lancia in posizione d’attacco, che non si sa se fosse sopra o sotto la spalla, poiché le raffigurazioni la rappresentano in entrambi i modi.
In linea di massima, un generale cercava di far scattare l’attacco prima degli avversari, per valersi dell’abbrivio (impulso iniziale), ma doveva prestare attenzione a non farlo partire troppo presto, per non far stancare i propri uomini, che avevano bisogno di tutte le loro energie per il corpo a corpo. Il momento dell’impatto tra le due schiere era sancito dal rombo assordante degli scudi che cozzavano l’un contro l’altro e, subito dopo, dalle urla degli opliti delle file successive, che incitavano i commilitoni impegnati nello scontro e cercavano di fare la loro parte, spingendoli contro il muro avversario per scompaginarne la coesione, o sostituendo i caduti. La saldezza degli uomini schierati nelle linee posteriori era fondamentale per mantenere la coesione della falange e la pressione sullo schieramento nemico. Non meno decisiva era la volontà di ciascun oplita di prevalere sull’avversario diretto e su quelli vicini, per assicurarsi la sopravvivenza di chi combatteva immediatamente al suo fianco e che, spesso, era un suo vicino parente: ad Atene e in molte altre póleis greche i λόχοι=compagnie, infatti, erano costituiti su base distrettuale, e vi prestavano servizio più membri di una stessa famiglia. Infine, altro fattore in grado di influenzare il risultato era la tendenza di ciascun oplita a cercare la protezione dello scudo del compagno sulla destra, con il conseguente spostamento dell’intero schieramento verso quella direzione e una forza d’impatto generale che poteva risultare meno efficace. Tra un oplita e l’altro si svolgeva un combattimento quasi di scherma con le lance, nel quale ciascuno dei contendenti affondava la propria arma nel tentativo di colpire l’avversario sopra e sotto lo scudo, in particolar modo alla gola, all’inguine e alle cosce. Accadeva però spesso che la lancia si spezzasse, costringendo il soldato a proseguire con la spada. Lo scontro conservava una certa staticità fino a quando in uno dei due schieramenti si aprivano dei varchi, dovuti ai caduti e a quanti non erano in grado di conservare lo scudo al braccio. Era come se qualche mattone venisse sottratto a un muro, provocandone la caduta: i nemici si affrettavano a penetrare in quei buchi e diventava molto più facile, per loro, infliggere colpi mortali agli avversari. Non è detto che la battaglia finisse con la rotta degli sconfitti e l’inseguimento da parte dei vincitori. I comandanti potevano anche sancire la conclusione dello scontro facendo squillare le trombe per la ritirata quando si rendevano conto che la propria compagine stava prevalendo, né si curavano di darsi all’inseguimento dei nemici, poiché la carenza di effettivi di cavalleria, d’altronde, l’avrebbe reso inefficace. In linea di massima, se lo sconfitto mandava un araldo a negoziare una tregua per portare via i morti dal campo di battaglia, ciò implicava l’ammissione della sconfitta. Prima della rimozione dei caduti, tuttavia, i vincitori si sentivano in diritto di spogliare i cadaveri dei nemici, cui sottraevano le armature, oltre agli eventuali effetti personali che si portavano addosso. L’intero bottino veniva diviso tra i soldati, salvo un decimo che era dedicato alle divinità cui il comandante aveva consacrato l’eventuale vittoria, oppure affidato a dei banditori che lo mettevano all’asta perché la pólis vittoriosa ne percepisse il ricavato. Le armi andavano a costituire un trofeo (τροφεῖον) eretto sul punto in cui lo scontro era stato decisivo. Mόρα=battaglione era la denominazione dell’unità di cavalleria aggregata a una «divisione» (composta da 400/576 fanti) di falange, che non doveva annoverare più di sessanta elementi, e che iniziò a comparire nell’armata spartana solo nel corso della Guerra del Peloponneso, precisamente nel 424 a.C. In seguito passò a cento effettivi, divisi in due squadroni da cinquanta cavalieri ciascuno, che si piazzavano ai fianchi degli opliti, in dieci file da cinque elementi ciascuna. Non è detto che le battaglie che si combattevano allora finissero con la rotta degli sconfitti e l’inseguimento da parte dei vincitori. I comandanti potevano anche sancire la conclusione dello scontro facendo squillare le trombe per la ritirata quando si rendevano conto che la propria compagine stava prevalendo, né si curavano di darsi all’inseguimento dei nemici, poiché la carenza di effettivi di cavalleria  l’avrebbe reso inefficace. In linea di massima, se lo sconfitto mandava un araldo a negoziare una tregua per portare via i morti dal campo di battaglia, ciò implicava l’ammissione della sconfitta.

La Tessaglia era famosa per i suoi cavalli e i suoi cavalieri. Durante la Guerra del Peloponneso, quando ad Atene, finita la politica di Cimone e dopo l'assassinio di Efialte, la guida politica passò a Pericle, Atene stupulò in chiave anti-spartana un'alleanza con Argo e con la Tessaglia, così da poter disporre di un potente esercito e di una cavalleria formidabile, oltre che della flotta più potente dell'Egeo. Nella seconda spedizione ateniese in Sicilia o grande spedizione ateniese in Sicilia, per distinguerla da quella del 427 a.C., avvenuta tra la primavera-estate del 415 e quella del 413 a.C., dopo le prime vittorie ateniesi, che avevano messo in seria difficoltà l'esercito siracusano, le sorti della guerra furono capovolte grazie ai rinforzi spartani sotto il comando di Gilippo, ma soprattutto si evidenziava la carenza della cavalleria. 


Da QUI: Gli ateniesi erano stati danneggiati dalla loro riluttanza ad apportare innovazioni nelle tattiche militari alternative agli (o almeno integrative degli) scontri fra opliti in campo aperto, nonostante le sortite fallimentari degli spartani in Attica e la sorte degli stessi a Sfacteria avessero iniziato a palesarne la necessità: gli strateghi di Atene non avevano capito qual era il tipo di organizzazione militare che occorreva per ottenere la vittoria in Sicilia, un'isola remota le cui vaste pianure e la cui vegetazione ricordavano più il panorama della Tessaglia che quello dell'Attica o del Peloponneso. Le informazioni sulla natura dei combattimenti da affrontare, sull'affidabilità degli alleati e sulle risorse dei nemici erano inesatte o inesistenti. Nicia aveva accennato agli ateniesi che occorrevano reparti di cavalleria, ma essendo un soldato di vecchio stampo dedicò, prevedibilmente, un'attenzione maggiore al fabbisogno di opliti. Anche Alcibiade, un esperto soldato di cavalleria, aveva assicurato ai suoi concittadini che avrebbero potuto sconfiggere facilmente Siracusa proprio perché gli stati siciliani erano notoriamente deboli a livello di fanteria! Ma appena arrivati, gli ateniesi scoprirono che le migliaia di opliti di cui disponevano erano sostanzialmente irrilevanti per la vittoria, e che non avevano l'unica risorsa – una cavalleria degna di questo nome – in grado di fornire loro la protezione di cui avevano bisogno per portare a termine vittoriosamente un assedio. Solo uno sciovinismo oplita poteva spiegare quell'ingenuità strategica. Dopotutto, gli ateniesi sapevano già che un maggior numero di cavalleggeri avrebbero avuto un peso strategico a Spartolo (429), e che proprio attraverso la cavalleria avevano tenuto costantemente sotto pressione gli spartani in Attica – operazioni nelle quali sia Nicia sia Alcibiade erano stati pienamente coinvolti […] Per vincere questa guerra, gli ateniesi avevano bisogno di cavalleggeri in abbondanza, allo scopo di proteggere i tagliapietre e gli incursori, gli unici in grado di isolare Siracusa dal suo hinterland erigendo delle fortificazioni. Se i siracusani avessero optato per una battaglia convenzionale tra opliti, i cavalieri ateniesi sarebbero stati necessari per coprire i fianchi dello schieramento e inseguire le truppe in rotta nelle pianure della Sicilia. E quando gli ateniesi iniziarono a devastare le campagne e a negare agli agricoltori l'accesso ai loro fondi, i soldati a cavallo erano nuovamente indispensabili. Lamaco, che aveva combattuto più volte contro gli spartani in Attica e quindi conosceva bene la tattica delle devastazioni e dei saccheggi, era convinto che appena sbarcati, i suoi uomini avrebbero dovuto battere sistematicamente le campagne siracusane per procurarsi derrate alimentari nelle fattorie incustodite e tagliar fuori la città dal suo vitale hinterland. Bisognava intraprendere un'azione risolutiva per creare deterrenza nei confronti di quella che si sarebbe rivelata la più grande cavalleria nemica affrontata dagli ateniesi dopo le invasioni persiane di oltre mezzo secolo prima. Ma la cavalleria era una risorsa di cui gli ateniesi erano deplorevolmente privi nella spedizione in Sicilia. Per paura dei mari tempestosi che separavano la Grecia occidentale dall'Italia meridionale, o per l'esigenza di tenere uno squadrone di cavalleria a protezione della campagna attica nell'eventualità di un ritorno degli spartani, gli ateniesi erano partiti con un solo carico di cavalli e 30 cavalieri... 
...Della devastante sconfitta ateniese, anche in ragione dell'ascendente del popolarissimo Alcibiade, membri della Lega di Delo come Chio e Mileto approfittarono per unirsi a Sparta, che poté così estendere il campo delle operazioni nell'Egeo, usufruendo ancora dell'aiuto dei siracusani (sempre guidati da Ermocrate), nonché di finanziamenti del satrapo persiano Tissaferne, a sua volta interessato a sottomettere le città della costa meridionale dell'Asia minore (Caria) ancora legate ad Atene, che aveva vietato la riscossione del tributo da lui richiesto per ottemperare ai propri obblighi con l'impero. Tale accordo, che sostanzialmente restaurava l' «impero persiano entro i confini detenuti prima di Salamina», dimostrava intrecci di interessi e possibilità di coalizioni impensabili nel corso della guerra di settant'anni prima, come l'ambiguità già a quel tempo dimostrata dagli Spartani, che continuavano ad aver bisogno dell'aiuto persiano per vincere la guerra e, una volta capito che non c'era niente da fare con Tisaferne, si rivolsero a Farnabazo, satrapo delle regioni settentrionali dell'Asia Minore, per negoziare. Il persiano accettò di finanziare la flotta di Sparta in cambio di una serie di compromessi territoriali, per cui nel maggio del 411 a.C. le triremi peloponnese si piazzarono nell'Ellesponto», ovvero nello stretto dei Dardanelli, dove di conseguenza la nuova leadership ateniese egemonizzata rilanciò la propria offensiva... ...Fu così che, nel 410, le vittorie riportate da Alcibiade e Trasibulo ad Àbido e Cìzico comportarono la pressoché totale distruzione della flotta spartana (e siracusana), ed ulteriori successi a Calcedonia, Selimbria e Bisanzio, portando «alla riconquista di gran parte dei territori persi dopo il disastro in Sicilia», fecero sentire Atene abbastanza forte da rifiutare una proposta di pace di Sparta, come del resto questa stessa aveva fatto, l'anno prima, con quella del governo oligarchico precedente: «la lunghissima guerra aveva ormai una posta in gioco troppo alta e sanguinosamente perseguita per anni e anni: non poteva finire in piscem con un accomodamento di compromesso». Comunque sia, tali risultati permisero, nel 409, una restaurazione della democrazia. La novella potenza della città poco poteva, tuttavia, contro la rinnovata alleanza fra Sparta e Persia, propiziata dall'incontro delle ambizioni del navarco (capo della flotta) Lisandro, intenzionato a primeggiare tra i propri concittadini, e del figlio dell'imperatore Dario II, Ciro il giovane, mirante a rafforzarsi per potergli succedere al posto del fratello maggiore Artaserse. Fu così che nel 406 i sovvenzionamenti persiani consentirono allo spartano di aumentare le paghe in modo da sottrarre ad Atene, ormai impoverita, alcuni dei suoi stessi rematori, e di infliggere così al poco capace vicecomandante di Alcibiade, Antioco, una dura sconfitta a Nozio, che portò alla destituzione di quello (e dei suoi colleghi Teramene e Trasibulo) ed alla sua scelta di andare in esilio nei propri castelli del Chersoneso... ...Finalmente, dopo quasi un anno di assedio per terra e mare, nel marzo del 404 a.C., Atene, stremata e timorosa di rappresaglie, decise di arrendersi: gli ateniesi furono obbligati a consegnare la flotta (tranne 12 navi), a sciogliere la lega delio-attica, ad abbattere le Lunghe Mura, ad accettare al Pireo una guarnigione spartana, con a capo un armosta, che aveva il compito di sorvegliare il rispetto degli accordi e di garantire la subordinazione della città alla politica estera di Sparta. Infine, gli spartani imposero ad Atene di richiamare gli esuli e di modificare le istituzioni in senso oligarchico; tale regime, presto, sotto la guida di Crizia, sarebbe divenuto noto come il governo dei Trenta Tiranni.

Durante la guerra del Peloponneso, conclusa nel 404 a.C., Sparta aveva goduto del sostegno della maggior parte delle poleis greche e dell'Impero persiano. Finito il conflitto un certo numero di isole del mar Egeo passarono sotto il suo controllo. Questa solida base di sostegno, tuttavia, si frammentò negli anni successivi. Infatti, nonostante la vittoria fosse stata ottenuta dalla Lega peloponnesiaca, solo Sparta ricevette il bottino conquistato agli sconfitti e i tributi dell'antico Impero ateniese. Tebe, alleata di Sparta durante la guerra, non venne premiata per il contributo dato alla causa spartana, così in risposta sospese gli aiuti conferiti fino ad allora, offrendo addirittura asilo ai loro acerrimi nemici democratici vittime delle persecuzioni perpetrate dai 30 tiranni. Gli alleati furono ulteriormente delusi nel 402 a.C., anno in cui Elis, una città membro della Lega, che aveva fatto infuriare gli Spartani nel corso della guerra del Peloponneso, venne attaccata. Corinto e Tebe si rifiutarono di inviare truppe per aiutare Sparta nella sua campagna. I rapporti con la Persia però, mettevano in difficoltà le relazioni con le poleis greche in Asia e viceversa: infatti, sebbene Sparta a Ciro non potesse rifiutare nulla, lasciandogli quindi il controllo delle città ioniche, nell'Ellesponto si contrapponeva al satrapo Farnabazo, mantenendo il controllo delle polis della regione con governi oligarchici istituiti da Lisandro. La morte del pretendente al trono diede la possibilità di rompere tali vincoli e un esercito lacedemone sbarcò in Asia già nel 400 a.C., unendo le proprie forze ai soldati rimasti dell'anabasi (la spedizione dalla costa verso l'interno). Tebe, Corinto e Atene rifiutarono inoltre di partecipare a una spedizione in Ionia nel 398 a.C., mentre i Tebani osarono addirittura interrompere un sacrificio che il re di Sparta Agesilao aveva tentato di eseguire nel loro territorio prima della sua partenza. Nonostante le assenze, Agesilao condusse una campagna efficace contro i Persiani in Lidia, avanzando nell'entroterra fino a Sardi. Il satrapo Tissaferne fu giustiziato per la sua incapacità di fermare Agesilao, e il suo sostituto, Titrauste, corruppe gli Spartani convincendoli a spostarsi verso nord, nella satrapia di Farnabazo. Agesilao eseguì, ma allo stesso tempo iniziò a preparare una poderosa flotta. Incapace di sconfiggere l'esercito di Agesilao, Farnabazo decise di costringerlo a ritirarsi sollevando contro Sparta le città della Grecia; inviò Timocrate di Rodi, nativo di Rodi, a distribuire diecimila dracme d'oro nelle principali città del continente, incitandole ad agire contro Sparta. Timocrate visitò Atene, Tebe, Corinto e Argo, riuscendo a persuadere consistenti fazioni in ciascuna di quelle città a perseguire una politica anti-spartana (Senofonte afferma che Atene non accettò questo denaro, ma George Cawkwell, concordando colle Elleniche di Ossirinco, non è dello stesso avviso); i Tebani, che già in precedenza avevano dimostrato la loro insofferenza verso Sparta, si impegnarono a intraprendere una guerra contro l'odiata nemica. Anche Corinto, dove Timolao tenne un discorso contro Sparta riportato da Senofonte, si unì alla lotta contro Sparta.

Sparta, dopo aver vinto la prima guerra del Peloponneso su Atene e i suoi alleati grazie ai suoi imbattibili opliti, si era quindi affermata come città egemone di tutta l'Ellade, imponendo la sua supremazia alle altre città appoggiando regimi oligarchici a loro alleati anche tramite presidi militari. Tebe si trova così col proprio governo democratico usurpato da aristocratici filospartani  e le speranze dei democratici tebani in esilio sono affidate al politico e generale Epaminonda, che riuscirà a restituire la libertà alla città e ad affermarne la preminenza tebana sulla Grecia. Lo scontro finale con Sparta avvenne nella battaglia di Leuttra nel 371 a.C. Il temibile esercito spartano guidato da re Cleombroto I, aveva marciato all’interno della Beozia fino a incontrare l’esercito di Epaminonda alle porte del piccolo villaggio di Leuttra. Nella battaglia che ne seguì si rivelò tutto l’ingegno tattico del generale tebano. Epaminonda decise di affidarsi ai soli soldati tebani, su cui era sicuro della volontà di combattere, congedando i timorosi alleati spaventati dall’aura leggendaria che circondava l'esercito spartano. Rimase così con circa 7.500 uomini e 1.500 cavalieri contro 10.000 fanti nemici (di cui 2.000 spartani) e 1.000 cavalieri. La formazione a falange usata dagli eserciti greci tendeva nettamente ad avanzare verso destra durante la battaglia, "perché la paura fa fare ad ogni uomo del suo meglio per riparare il suo lato disarmato con lo scudo dell'uomo alla sua destra". Per effetto quindi dell'armamento utilizzato (lancia nella mano destra e scudo sul braccio sinistro) le due file contrapposte degli eserciti tendevano a ruotare in senso antiorario durante il combattimento. Di solito, per sfruttare appieno le loro potenzialità, le truppe migliori venivano schierate sul fianco destro assecondando questa rotazione. Tradizionalmente, quindi, una falange si schierava con le truppe scelte sul lato destro per contrastare questa tendenza. Così, nella falange spartana a Leuttra, gli Spartiati (cittadini-guerrieri di Sparta discendenti dei Dori, che avevano occupato la Laconia e schiavizzato i Messeni) e il loro re  Cleombroto si trovavano a destra, mentre gli alleati peloponnesiaci con meno esperienza si trovavano sulla sinistra. Epaminonda, dovendo tener conto del vantaggio numerico spartano, promosse due innovazioni tattiche. Per prima cosa dispose le migliori truppe dell'esercito su cinquanta file (a differenza delle normali otto o dodici) sulla fascia sinistra, di fronte a Cleombroto e agli Spartiati, con Pelopida e il battaglione sacro all'estrema sinistra; in secondo luogo, capendo che non avrebbe potuto opporre le sue truppe alla larghezza dello schieramento dei Peloponnesiaci (anche prima dell'infossamento del lato sinistro), abbandonò ogni tentativo di farlo.

Invece, ponendo le truppe più deboli sul fianco destro, egli "ordinò loro di evitare la battaglia e di ritirarsi gradualmente durante l'attacco del nemico"; la tattica della falange obliqua era stata anticipata da Pagonda, un altro generale tebano che usò una formazione di una profondità di 25 file nella battaglia di Delio (424 a.C.). Tuttavia l'inversione della posizione delle truppe d'élite e una linea obliqua di attacco erano innovazioni molto importanti; sembra che Epaminonda fosse il responsabile della tattica militare dell'evitare lo scontro da un fianco. Il combattimento a Leuttra si aprì con una vittoria della cavalleria tebana su quella spartana, inferiore per numero; quest'ultima si dovette ritirare tra i ranghi della fanteria, destabilizzando la falange. Subito dopo la battaglia si estese anche agli altri reparti dei due eserciti: il lato sinistro dei Tebani, rafforzato dalle truppe migliori, marciava per attaccare a velocità doppia, mentre il fianco destro si ritirava. Dopo un intenso combattimento, il fianco destro degli Spartani cominciò a retrocedere sotto l'impeto della massa tebana e Cleombroto fu ucciso; gli Spartani resistettero abbastanza a lungo per reimpossessarsi del corpo del re, ma il loro schieramento venne presto spezzato dall'enorme forza dell'assalto tebano. Anche gli alleati peloponnesiaci sul lato destro, vedendo gli Spartani in fuga, cominciarono a scappare e a rompere le file, spargendo il caos nell'intero schieramento. L'intuizione che portò alla vittoria Epaminonda nasceva dall'interpretazione geniale di un fatto ben noto riguardante le battaglie combattute da opliti: per effetto dell'armamento utilizzato (lancia nella mano destra e scudo sul braccio sinistro) le due file contrapposte degli eserciti tendevano a ruotare in senso antiorario durante il combattimento. Di solito, per sfruttare appieno le loro potenzialità, le truppe migliori venivano schierate sul fianco destro assecondando questa rotazione. Epaminonda invece, puntando sul fatto che si sarebbe trovato gli opliti spartani (i più forti) sul proprio fianco sinistro, sperimentò un inedito schieramento obliquo tenendo il fianco destro arretrato, e quadruplicando la profondità delle falangi sulla sinistra. Oltre ciò affidò alla cavalleria, che per la prima volta ebbe un’importanza fondamentale in una battaglia tra greci, il compito di aggirare il nemico sul lato sinistro. Il risultato fu che gli spartani entrarono in combattimento con il “muro” di opliti tebani e furono sconfitti da essi molto prima che il resto dell'esercito arrivasse a contatto col nemico. Visti battuti e in fuga gli spartani, i loro alleati andarono in rotta senza aver combattuto. Questa imprevedibile sconfitta di quella che da secoli era la più potente forza militare ellenica, segnò la fine di un'epoca e il sorgere dell'egemonia di Tebe su tutta la Grecia. La gloria della città beota fu però breve, infatti a nord re Filippo II di Macedonia, un piccolo stato al confine con la Tracia, che proprio a Tebe aveva trascorso gli anni del suo esilio, unificherà tutte le genti greche sotto il suo comando grazie alla vittoria nella battaglia di Cheronea del 338 a.C., dove gli Spartani, che erano stati al centro della resistenza alle invasioni persiane del V secolo a.C., si vendicarono non andando a combattere.

Importanza della CAVALLERIA a CARTAGINE - Da QUI: Grande importanza nella storia militare dell'antichità ebbe la cavalleria cartaginese, specialmente con Annibale. Poiché gli eserciti cartaginesi dal principio del sec. V vennero sempre più largamente formati con mercenarî di svariata provenienza, la cavalleria cartaginese risultava composta da elementi di diverse nazionalità, con diversi armamenti diverse tattiche. I Numidi, longe primum equitum in Africa... genus (Liv., IX, 34, 5), ne formavano il grosso. Montati su piccoli e resistenti cavalli indigeni (a volte tenevano un cavallo dì ricambio), i Numidi, agilissimi, armati di un piccolo scudo di cuoio e di giavellotto, caricavano al galoppo il nemico gridando e scagliando le loro armi, ripetendo l'attacco se il primo impeto non fosse riuscito. Grande era la loro abilità nelle scorrerie e nelle esplorazioni ed erano terribili nell'inseguimento di una truppa battuta. Dopo la conquista della Spagna, si ebbero anche importanti contingenti di cavalleria spagnola, composti di mercenarî e di sudditi. I Cartaginesi reclutarono cavalieri mercenarî anche fra i Galli, i Campani d'Italia e altre popolazioni. La cavalleria cartaginese era necessariamente divisa per nazioni, suddivisa per provenienza (Numidi, Spagnoli, Galli, ecc.). L'ufficialità inferiore apparteneva alla stessa nazione della truppa e talvolta principi alleati comandavano l'intero loro contingente, ma i gradi elevati erano in genere affidati a Cartaginesi, specialmente quello di comandante l'intera cavalleria. Nelle guerre contro i Romani, i Cartaginesi furono in genere superiori nella cavalleria (contro Regolo, in Africa, schierarono 16.000 fanti e 2.000 cavalieri, Annibale disponeva di 11.000 cavalli alla Trebbia e 10.000 a Canne contro i 4.000 e 6.000 dei Romani: il rapporto  risulterà invece inverso a Zama, quando i Numidi erano dalla parte di Scipione), e avevano inoltre migliorato l'armamento di parte della loro cavalleria, facendone una cavalleria di linea. Nelle battaglie annibaliche la cavalleria si schierava alle ali, con l'obiettivo di spazzar via la cavalleria nemica e avviluppare quindi la fanteria nemica: l'esempio classico è stata la battaglia di Canne.

CAVALLERIE degli ITALICI - Da QUI: Anche presso le popolazioni dell'Italia antica, nelle battaglie ai cocchi si aggiunse e poi subentrò completamente la cavalleria. Notizie sulla storia dell'arma della cavalleria ne abbiamo solo per Roma, ma i monumenti ci danno  un'idea abbastanza chiara dell'armamento e del modo di combattere dei cavalieri italici, specialmente degli Etruschi e delle popolazioni sabelliche dell'Italia meridionale, la cui cavalleria è celebrata anche dalle fonti letterarie, specialmente la sannita e la campana. I cavalieri dell'Italia meridionale portavano elmo, spesso con cresta e penne o corna, corazza e alle volte anche un grande scudo, erano armati di una o due lance e per poter vibrare con maggior violenza il colpo o per altre circostanze particolari, smontavano talvolta da cavallo e combattevano a piedi.

Luoghi della Cultura celtica
di Golasecca con le varie
genti Liguri, Celto-Liguri e
Celtiche lì stanziate.
Il CAVALLO fra i guerrieri CELTI - Nel 700 a.C., per gli abitanti della Cultura celtica di Golasecca, rispetto ai secoli precedenti, la situazione climatica era piuttosto migliorata, e a testimonianza di ciò apparvero complessi abitativi e necropoli lungo le due sponde del Ticino, allo sbocco nel lago Maggiore. Si suppone che quelle genti controllassero la zona strategica che va dai passi alpini  che conducono dalle alte valli del Rodano e del Reno, seguendo le vie fluviali verso sud, fino al Po. Tra gli scavi effettuati a Golasecca, Castelletto Ticino e Sesto Calende, spiccano due tombe a incinerazione databili al VII secolo a.C., la cui ricchezza principesca fuga ogni dubbio sul rango che dovevano detenere i guerrieri  all’interno della cultura di Golasecca. Infatti al loro interno sono stati ritrovati un carro a due ruote, un elmo e gambiere di bronzo, una spada e una lunga lancia di ferro con l’asta munita di tallone e situla di bronzo istoriata, un servizio da bevande, il cui bacile (il calderone dei Celti) spicca per importanza in quanto è decorato con una tecnica molto diversa da quelle utilizzate dai contemporanei etruschi e italici o veneti e differisce perfino dallo stile celtico hallstattiano; ciò  significa che tale opera va attribuita ad una produzione autoctona, in seguito esportata anche oltralpe. La principale caratteristica di tale decorazione sta nel fatto che mentre nelle altre zone italiche si iniziava ad eseguire decorazioni in rilievo, mediante tratti continui, al fine di dare maggior contorno e realismo all’immagine, tecnica che caratterizzerà anche l’arte celtica lateniana, a Golasecca si utilizzava invece una tecnica che derivava direttamente dalla fine dell’età del bronzo, ovvero si rappresentavano  figure volutamente non realiste, mediante una serie di punti sbalzati dal rovescio.
Bacile in bronzo ritrovato a
Castelletto Ticino.
La volontà di non rappresentare figure simili alla realtà traspare anche dal fatto che tutte le rappresentazioni figurative sono in stile antropomorfo e questo non per incapacità o mancanza di originalità, ma per una precisa volontà. Un esempio per tutti è il bacile bronzeo ornato con leoni e persone alate ritrovato a Castelletto Ticino.
Stele di Bormio.
Esiste comunque una raffigurazione che consente di identificare l’aspetto dei celti di Golasecca, si tratta di una stele ritrovata a Bormio, (vedi figura "stele di Bormio") in Valtellina, estremamente importante sia perché è l'unico ritrovamento del suo genere, sia per la rappresentazione che fornisce e che si ricollega all'aspetto guerriero golasecchiano, dandoci possibili indizi sul perché sono state ritrovate solo due tombe del livello sopra descritto. In questa raffigurazione spicca un personaggio di faccia, coperto da un grande scudo e con in testa un elmo, che tiene in mano un’insegna militare, tale insegna è parallela ad una lancia che sta dietro un piccolo scudo rotondo e che potrebbe trattarsi di un trofeo. Tale personaggio potrebbe essere sia un capo militare, sia il Dio protettore del popolo, messo in una posizione che dà l’impressione di assistere ad una parata militare preceduta da trombettieri. Questa raffigurazione unita ai ritrovamenti nelle due famose tombe, possono significare che in alcuni momenti della loro storia, i Celti di Golasecca hanno avuto la necessità di formare un apparato militare; il carro a due ruote (trainato quindi da cavalli) è un segno di questa urgenza, in quanto è databile al VII secolo a.C. mentre nel resto d’Europa si diffuse nel V secolo a.C. Una cosa è certa, nonostante in Italia la cultura di Golasecca sia ignorata, è stata invece un elemento fondamentale della cultura europea, ne ha  influenzato le mode e lo stile artistico. Lungo le vie commerciali che collegavano le due sponde delle Alpi, le creazioni golasecchiane si sono diffuse un po’ ovunque nel resto dell’Europa: Francia, Belgio, Renania e Boemia, soprattutto oggettistica di bronzo prodotta grazie sia alle materie prime che transitavano sul territorio golasecchiano (come lo stagno proveniente dalla Boemia e dalla Gran Bretagna), sia dalle materie prime estratte nelle Alpi, come il rame. La produzione bronzea era svariata, comprendeva recipienti, pendenti, oggetti ornamentali, porta fortuna e tutto ciò che col bronzo si poteva fare, oggettistica che si troverà frequentemente nelle tombe dei principi transalpini, insieme al carro a quattro ruote utilizzato per il trasporto del defunto, servizi per bevande con contenitori (calderoni) esageratamente grossi, fino alla capacità di 1.100 litri, come quello ritrovato a Vix.

Da https://www.treccani.it/enciclopedia/cavalleria-e-cavalieri_%28Enciclopedia-Italiana%29/: Popolo eminentemente cavaliere furono nell'Occidente i Galli. La nobiltà gallica combatteva volentieri anche a piedi, ma aveva grande passione per i cavalli. Ogni nobile cavaliere era accompagnato da due servi a cavallo, pronti a fornirgli, al bisogno, un altro cavallo, o, se egli veniva ferito, a prendere il suo posto nello squadrone che si manteneva così sempre compatto. L'armamento consisteva nella spada gallica a due tagli, lunga e, nel sec. III, senza punta; frequente è lo scudo, rari l'elmo e la corazza: portati più per ornamento; i Galli vestivano di solito solo le loro larghe brache e il mantello, quando non preferivano combattere a torso nudo. La tattica della cavalleria consisteva in una carica impetuosa, accompagnata da grida feroci e dal suono degli strumenti guerreschi. Molti popoli piegarono atterriti dinnanzi alla furia della cavalleria gallica, ma Greci e Romani, riavutisi presto dai terrori dei primi incontri, ne ebbero facilmente ragione per la superiorità del loro armamento. La cavalleria gallica fu però largamente assoldata dai re ellenistici e più tardi, specie dopo l'età di Cesare, diede numerosi squadroni.

Cesare al principio della guerra gallica aveva 4.000 cavalieri tutti Galli (Bell. Gall., 1, 15), e quando ebbe bisogno di una scorta a cavallo fidata, fece smontare i Galli e salire sui loro cavalli dei legionarî (ibid., 42). Da quest'epoca i contingenti gallici ebbero importanza sempre maggiore nella cavalleria romana e influirono fortemente sul suo armamento e sulla tattica.  

Carta della Venetia, X Regio
 della Roma Imperiale.
Il CAVALLO fra i VENETICI - Nel V secolo a.C. i Veneti vennero a contatto, ad occidente con i Galli: ad ovest si stanziarono i Galli Cenomani (con cui si sarebbero alleati, insieme ai Romani), a sud i Boi (con cui invece furono sovente in guerra) e a nord-est i Carni. A ad est e a sud-est rimasero prevalentemente in contatto con le popolazioni illiriche. Anche all'interno del Veneto vi fu qualche stanziamento di Galli, anche se in minima entità, probabilmente non sempre di tipo pacifico. L'influsso culturale celtico diventò comunque via via importante, e la cultura veneta lentamente mutò e si adeguò ai tempi; sempre importante si mantenne il rapporto con le popolazioni balcaniche di oltre Adriatico come quelle illiriche, con cui i Veneti venivano facilmente confusi dagli storici greci e che furono considerati parenti stretti dei Veneti fino al primo Novecento. Successivamente divenne decisivo il contatto con la civiltà romana, anche per i reiterati rapporti di alleanza che legarono i Veneti ai Romani e per la tradizionale ipotesi di parentela tra Veneti e Latini. La cultura veneta venne assimilata in quella romana già in età tardo repubblicana, anche se alcune specificità venete rimasero, presumibilmente, nelle zone marginali anche in tarda età imperiale.

Cavallo degli antichi Veneti o Venetici.
Il cavallo, chiamato Ekvo dai Veneti antichi, animale-totem della protostoria dell'Europa, giocò nella loro cultura un ruolo di prim'ordine. Questi animali erano allevati per la loro valenza economica e come simbolo di predominio aristocratico e militare. I cavalli dei Veneti erano noti per la loro abilità nella corsa ed erano spesso riprodotti negli ex voto, nelle aree più sacre. Centinaia di bronzetti a forma di cavallo o di cavaliere su cavallo provengono dai luoghi di culto dei Veneti. Al cavallo erano riservati appositi spazi di sepoltura nelle necropoli. Il cavallo compare in vari manufatti come immagine simbolica o elemento decorativo.

CAVALLERIA e FALANGE PESANTE MACEDONI - L'esercito del Regno di Macedonia sotto i monarchi Filippo II di Macedonia ed Alessandro Magno, è stata la più complessa macchina militare fino ad allora conosciuta. Comprendeva la cavalleria pesante dei nobili «compagni del re» (gli eteri), la cavalleria leggera (i prodromoi), la fanteria pesante (i pezeteri) ordinata in compatte falangi armate con la lunga picca chiamata sarissa, la fanteria leggera (i peltasti), altri corpi tra loro organicamente integrati (come gli arcieri) nonché macchine d'assedio. Il poliedrico insieme dei reparti era inquadrato da un vero e proprio corpo di ufficiali, istruiti e preparati da apposite scuole e al contempo impegnati come guardie del corpo (le somatofilachie) del sovrano.
La radicale riforma delle forze armate macedoni era stata attuata dal sovrano Filippo II di Macedonia a partire dal 364 a.C., anno del suo ritorno in patria (poiché precedentemente esiliato), finanziata con i proventi dei saccheggi a discapito dell'Illirico e della Tracia. Filippo II era stato prigioniero dei Tebani (nel 368-365 a.C.) quando Tebe era divenuta la maggior potenza militare della Grecia Antica grazie alla sconfitta inflitta a Sparta, ed ebbe così modo di vedere in azione il "Battaglione Sacro" di Epaminonda col suo rivoluzionario schieramento ad "Ordine obliquo". Fatto tesoro dell'esperienza tebana, Filippo riformò le forze di fanteria del Regno di Macedonia, superando il vecchio modello della falange oplitica anche grazie alla rivalutazione dei corpi di fanteria leggera operata dallo stratega ateniese Ificrate i cui peltasti si erano ben comportati nella Guerra di Corinto (392 a.C.).
Filippo riorganizzò dunque le sue forze di fanteria attingendo all'esperienza bellica che gli strateghi greci avevano accumulato negli ultimi due secoli:
- corpi di fanteria leggera come i peltasti, gli arcieri (toxotes) ed i frombolieri, solitamente utilizzati solo in fase ricognitiva o nell'inseguimento di unità nemiche, vennero integrati nelle operazioni sul campo dell'esercito;
La falange "pesante" Macedone.
- la fanteria pesante, da sempre nerbo dell'esercito greco antico, venne riorganizzata in un nuovo strumento bellico, la falange macedone. La falange di Filippo si componeva di una forza d'urto frontale, i pezeteri, pesantemente corazzati ed armati con la lunghissima picca macedone, la sarissa di 5/7 m, disposti su più file fino a divenire un vero e proprio istrice irto di lame, supportati sui fianchi da un corpo di opliti scelti, gli hypaspistai  o "portatori di scudi dei compagni", più versatili sul campo di battaglia dei compagni impacciati dalle sarisse.

La Cavalleria superava il modello greco. Durante il V sec. a.C., l'urto della cavalleria macedone aveva sempre sortito un buon effetto sui compatti schieramenti delle falangi greche. Filippo, mentre da una parte riformava la fanteria con le migliori innovazioni che il mondo militare mediterraneo poteva fornire, si assicura anche di avere a propria disposizione corpi di cavalleria perfettamente addestrati.

- L'élite della cavalleria macedone era composta dagli hetairoi (indicati dagli storici antichi come la miglior cavalleria mai apparsa al mondo), il corpo della cavalleria pesante, composto dai nobili delle montagne macedoni. Armati di una lunga lancia in legno di corniolo, lo xiston e privi di scudo o schinieri, gli hetairoi scompaginavano la fanteria nemica, facendosi largo nella mischia per il corpo-a-corpo con la spada monofilare makhaira, raccomandata da Senofonte come la più indicata per la cavalleria. Anche truppe di cavalieri della Tessaglia erano impiegate dai macedoni, equipaggiate più o meno come i macedoni con l'unica differenza nell'armamento, che era più leggero (lance più corte e giavellotti). Gli hetairoi ed i tessali erano solitamente schierati in formazione “romboidale”, una tattica che le popolazioni dell'areale greco avevano appreso dai cavalieri nomadi Sciti. Questa formazione era facilmente manovrabile, pronta ad una virata in senso diagonale, poiché, come osservato dallo storico Asclepiodoto Tattico: «Tutti i membri tenevano gli occhi fissi verso la punta, sul comandante dello squadrone, come uno stormo di gru che sta volando in formazione». Gli hetairoi della cavalleria pesante erano disposti sul fianco destro della fanteria pesante, il fianco tradizionalmente più debole della falange oplitica. Ai tessali era invece riservato il fianco sinistro dello schieramento macedone.
- Truppe di cavalleria leggera (i prodromoi) venivano utilizzate per ricognizioni e schermaglie. Questi esploratori erano forniti di lance sì lunghe ma certamente non delle sarisse. Durante le battaglie più impegnative, i prodromoi della cavalleria leggera si univano a hetairoi e tessali per aumentare il peso delle loro cariche.

La battaglia di Cheronea (del 338 a.C.) in Beozia, vinta da Filippo II di Macedonia, contiene in sé gli elementi che saranno tipici della tattica macedone alla base delle vittorie di Alessandro Magno, ovvero  la collaborazione tra fanteria e cavalleria come armi combinate: la falange di picchieri utilizzata come elemento di arresto del nemico e la cavalleria come forza decisiva dello scontro (incudine e martello). La battaglia di Cheronea, combattuta dall'esercito macedone contro un esercito di alleati greci, è la prima nella quale vediamo in azione la tattica macedone. Reperti archeologici rinvenuti sul luogo della battaglia permettono di ipotizzare che sia stata anche la prima in cui la falange macedone adottò le sarisse.

La sarissa (in greco: σάρισα o σάρισσα) era la picca usata dai guerrieri del regno di Macedonia. Lunga fino a 6-7 metri, aveva corpo in legno di corniolo di grande diametro, una grossa punta di ferro (circa 30 cm) e un tallone anch'esso metallico. L'intera lunghezza dell'asta era ottenuta con due rami distinti di corniolo uniti da un tubo centrale di bronzo, utile anche per bilanciare il centro di gravità. Arma formidabile, se maneggiata da soldati ben addestrati, la sarissa poteva vanificare gli attacchi di un carro falcato, di una carica di cavalleria (risultato comunque ottenuto anche dai normali opliti della Grecia Antica) e frenare le cariche della temuta fanteria pesante greca.

Per contrastare l'invasione di Filippo, l'esercito alleato aveva condotto una campagna dilatoria, ma il macedone riuscì ugualmente a costringere il nemico alla battaglia presso l'acropoli di Cheronea, in Beozia. Dal corso degli eventi successivi, si desume che lo schieramento macedone si presentasse obliquo rispetto a quello delle poleis greche alleate, in posizione forte, con entrambi i fianchi protetti: quello sinistro appoggiato sulle pendici dell'acropoli e quello destro protetto da una palude.

In questo modo gli alleati ritenevano di poter sopperire all'inferiorità della loro cavalleria. La loro forza consisteva in circa 35.000 uomini, in larga parte opliti assistiti da pochi contingenti di fanteria leggera, mentre i Macedoni avevano sul terreno una forza lievemente minore, consistente in 30.000 fanti e 2000 cavalieri. Gli opliti alleati appartenevano a diverse polis e il contingente più numeroso era quello tebano (12.000 uomini che tenevano l'ala destra), nel quale era compreso il “battaglione sacro,” seguito da quello ateniese (9.000 uomini schierati nell'ala sinistra) e da quello delle polis minori, tra le quali Ebea, Corinto, Megara, Leuca, Corcira (9.000 uomini che occupavano il centro). Le ali erano protette da due contingenti di fanteria leggera mercenaria (2.500 per ciascuna ala).
Il racconto della battaglia proveniente da Diodoro Siculo: «(IV.II.2) Affrontando gli Ateniesi a Cheronea, Filippo simulò una ritirata. Quando Stratocle, il comandante ateniese, ordinò ai suoi uomini di spingersi avanti, gridando "li inseguiremo fin nel cuore della Macedonia", Filippo osservò tranquillamente "gli ateniesi non sanno vincere" e ordinò alla sua falange di rimanere serrata e solida e di ritirarsi lentamente, riparandosi con gli scudi dagli attacchi del nemico. Quando egli con questa manovra ebbe attirato i nemici fuori dal loro terreno vantaggioso, e guadagnata una superiorità, egli si fermò e, incoraggiando le sue truppe ad un attacco vigoroso, fece così impressione al nemico da determinare una brillante vittoria in suo favore.».

Schema della battaglia di
 Cheronea, da https://it.wiki
pedia.org/wiki/Battaglia_
di_Cheronea_(338_a.C.)#/
media/File:Battle_of_
Chaeronea_338_BC.png
.
All'inizio della battaglia, dunque, gli Ateniesi furono forse attirati da una falsa ritirata che li indusse ad abbandonare la posizione o, più probabilmente, effettuarono una carica in discesa per sfruttare l'impeto, ma furono prima contenuti e poi respinti. Gli ipaspisti della destra macedone, a quanto riportano i resoconti, non tennero a bada gli Ateniesi con le picche di circa 4,5 metri di cui dovevano essere dotati, ma con i loro scudi. Gli Ateniesi, infatti, erano forse equipaggiati come opliti ificratei, ovvero con lance più lunghe di quella oplitica (oltre 3,5 metri) e con una corazza più leggera. Per utilizzare efficacemente lo scudo però, è improbabile che gli ipaspisti avessero le picche, le quali necessitavano l'impiego di due mani per essere utilizzate al meglio, impedendo quindi l'uso dello scudo. Se ne furono dotati è presumibile che si limitarono ad impugnarle con una mano sola, senza imprimere ad esse la forza necessaria ad offendere.
«Allora Alessandro, in cuore deciso a mostrare al padre il proprio valore e secondo a nessuno in volontà di vittoria, abilmente assecondato dai suoi compagni (gli hetairoi), per primo riuscì a rompere la solida fronte della linea nemica e, abbattendo molti, penetrò profondamente nelle truppe di fronte a lui. Lo stesso successo arrise ai suoi compagni e si aprivano varchi nella fronte nemica.»
Alessandro, quindi, dalla posizione occupata all'ala sinistra, muove impetuosamente all'attacco; difficile ipotizzare che si tratti di un'azione concordata con il padre, né che si getti a capofitto frontalmente su una falange oplitica ordinata. Possibile, invece, che la decisa avanzata ateniese abbia in qualche modo scompaginato la compattezza della falange alleata: gli Ateniesi cominciarono la lotta, raggiunti probabilmente in modo titubante dal contingente delle polis e guardati a distanza dai Tebani che, se si fossero mossi nella stessa direzione, si sarebbero trovati con il fianco destro scoperto e quindi rimasero fermi. L'unica loro possibilità di movimento era di mantenere la coesione con il centro mediante una rotazione verso sinistra. La crisi dello schieramento oplita si generò quindi centralmente ed è probabilmente qui che Alessandro indirizzò il suo attacco con la propria cavalleria. La battaglia ha visto fin qui un solo scontro su un'ala dello schieramento, ma la mobilità della cavalleria macedone permise ad Alessandro di approfittare dell'occasione.
«I cadaveri si accumulavano, finché Alessandro si aprì una via attraverso la linea e mise i suoi avversari in fuga. Allora anche il re in persona avanzò, ben in prima linea, e non concesse il merito della vittoria neppure ad Alessandro. Prima fece indietreggiare le truppe davanti a lui e quindi, costringendole alla fuga, divenne l'uomo responsabile della vittoria.»
Secondo Plutarco, Alessandro fu il primo a gettarsi contro il "battaglione sacro", i membri del quale, dopo la battaglia, giacevano morti, colpiti dalle picche dei Macedoni sul petto; sembra da escludere, quindi, che il primo attacco di Alessandro fosse diretto contro il "battaglione sacro", il quale più probabilmente venne accerchiato da un attacco frontale di picchieri macedoni e da uno alle spalle degli eteri.

Con l'andare del tempo entrerà nel meccanismo con un ruolo sempre più attivo anche la fanteria leggera, che a Cheronea non sembra aver avuto un ruolo particolarmente significativo, ma la macchina bellica macedone è già pronta a conquistare il mondo. Filippo II di Macedonia aveva: «costituito la prima ben equilibrata armata permanente nei Balcani; a cui poteva aggiungere i suoi sudditi stranieri, la cavalleria pesante tessala nella sua formazione "a diamante", i cavalieri leggeri ed i lanciatori di giavellotto delle tribù tracie, la fanteria greca che combatteva contro i compatrioti senza mostrare la minima riluttanza» (Robin Lane Fox). Scomparso il genitore, Alessandro ereditò quindi questa formidabile macchina bellica che, con la sua genialità strategica e la sua innegabile fortuna, fornirà all'esercito macedone la fama di invincibilità per almeno due secoli.


"Bucefalo", di Jacopo
Rumignani, da https://
artemagazine.it/tag/de
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Bucefalo era il cavallo di Alessandro Magno, Alessandro III di Macedonia (Pella, 20 o 21 luglio 356 a.C. - Babilonia, 10 o 11 giugno 323 a.C.). Il suo nome deriva dal greco boûs, bue, e da kephalḗ, testa e significherebbe quindi "testa di bue". Bucefalo era della migliore razza tessalica. Alcune ipotesi sostengono fosse un esemplare dell'odierna razza Akhal-Teke, discendente del cavallo turcomanno. Secondo alcuni la testa di bue di Bucefalo era un'allusione alla sua imponente stazza (molto più grande degli altri cavalli dell'epoca) e alla sua somiglianza con tale animale: fronte larga, narici distanti, profilo leggermente concavo (caratteristico dei cavalli di razza orientale, in particolar modo della razza della Tessaglia). Numerosi studi sembrano però dimostrare che bucefalo fosse il nome utilizzato per indicare i cavalli provenienti dalla Tessaglia, in quanto in quella regione si era soliti marchiare questi animali con la lettera greca alpha, rappresentata in alfabeto arcaico come una testa di bue. Bucefalo aveva un mantello nero e una stella bianca sulla fronte ed un occhio azzurro, di colore diverso dall'altro e sul fianco portava una macchia a forma di toro. Nel 342 a.C. Filippo il Macedone acquistò da Filonico di Tessaglia il cavallo Bucefalo all'impressionante somma di 13 talenti.

Un talento (in latino talentum, in greco antico: τάλαντον, talanton 'scala, bilancia, somma') era un'antica unità di misura della massa. Era un peso di riferimento per il commercio, nonché una misura di valore pari alla corrispondente quantità di metallo prezioso. Si parla del talento nell'Iliade, quando Achille dà mezzo talento d'oro ad Antiloco come premio, e nella Bibbia, in particolare nei Libri delle Cronache, ad esempio quando sono citati i talenti d'oro, d'argento, di bronzo e di ferro, donati per l'edificazione del primo tempio di Gerusalemme. La quantità di massa di un talento era diversa tra i diversi popoli: in Grecia il talento attico corrispondeva a 26 kg di metallo prezioso, a Roma valeva 32,3 kg, in Egitto 27 kg e a Babilonia 30,3 kg. Gli Ebrei e altri popoli orientali usavano il talento babilonese, anche se nel tempo ne modificarono la quantità: al tempo del Nuovo Testamento il peso del talento era di 58,9 kg.

Ben presto Filippo il Macedone si rese conto delle difficoltà di domare il cavallo e pensò di restituirlo al precedente proprietario, tanto questo era recalcitrante alla monta e turbolento. Il giovane Alessandro, osservando il comportamento del cavallo, si propose di montarlo e, nella sorpresa generale, vi riuscì. Alessandro aveva notato che Bucefalo aveva paura dei movimenti della propria ombra e quindi, lo rivolse col muso verso il sole prima di lanciarsi in groppa. Da allora, Bucefalo non si lasciò montare da nessun altro e Alessandro non ebbe un altro destriero. Il cavallo accompagnò per quasi un ventennio il suo padrone nelle battaglie, alla conquista del mondo conosciuto. Il sodalizio tra Bucefalo e Alessandro non fu spezzato che dalla morte: durante la battaglia dell'Idaspe, che contrappose i Macedoni di Alessandro all'armata di Poro, re indiano della regione del Punjab, nell'anno 326, Bucefalo riportò ferite mortali. Malgrado ciò, non permise al suo padrone di montare un altro cavallo e, facendo appello alle ultime sue forze, lo portò alla vittoria. Alla sera, coperto di sudore e di sangue, Bucefalo si stese al suolo e morì per le ferite ricevute, all'età di vent'anni. Fu sepolto con gli onori militari e sul luogo della sua sepoltura fu fondata la città Alessandria Bucefala. La leggenda narra che vi fosse un rapporto di speciale affinità tra Alessandro e Bucefalo; a quanto pare i due erano nati lo stesso giorno, a distanza di dieci anni l'uno dall'altro.

LEGIONI e CENTURIE a ROMA nella PRIMA età REPUBBLICANA (509 a.C. - 275 a.C.) - L'ultimo re di Roma, Tarquinio il Superbo, pur avendo ottenuto il rinnovo del trattato di pace con gli Etruschi, nel contesto di una più ampia esautorazione del potere etrusco dall'area dell'antico Latium vetus, alla fine è rovesciato. 

Roma, i cui possedimenti non si estendevano oltre le 15 miglia dalla città, si dà un assetto repubblicano, una forma di governo basata sulla rappresentatività popolare, in contrasto con la precedente autocrazia monarchica. Nel 509 a.C., il re deposto, Tarquinio il Superbo, la cui famiglia si narra fosse originaria di Tarquinia in Etruria, ottenuto il sostegno delle città di Veio e Tarquinia, in rivalsa alle sconfitte subite in passato dai Romani, tenta di riconquistare Roma, ma i due consoli romani, Publio Valerio Publicola e Lucio Giunio Bruto, avanzano con le forze romane contro di loro e l'ultimo giorno del mese di febbraio si combatte la sanguinosa  battaglia della Selva Arsia, durante la quale cadono moltissimi uomini, sia da una parte che dall'altra; tra questi anche il console Bruto. Lo scontro è interrotto da una violenta e improvvisa tempesta quando l'esito della battaglia è ancora incerto e tanti sono i morti che giacciono sul campo di battaglia. Entrambe le parti reclamano la vittoria, finché «...Numeratisi poscia i cadaveri, trovati furono undicimila e trecento quelli dei nemici, e altrettanti, meno uno, quei dei Romani» (Plutarco, La vita di Publicola).

La vittoria è dei Romani, e quindi sarà Res Publica. La Roma repubblicana adotta un proprio alfabeto, il Latino, derivato da quello dei Greci di Cuma, mentre la sua struttura economica sarà basata prevalentemente sulla pastorizia (il termine stesso per il denaro, "pecunia", deriva da "pecora") e sull'agricoltura, tanto che l'esercito è formato prevalentemente da allevatori e proprietari terrieri, ritenuti gli unici ad avere la motivazione per partecipare alla politica difensiva e/o espansionistica di Roma con le armi, e arruolati con una di leva obbligatoria: ogni membro dell'esercito doveva provvedere, a proprie spese, all'equipaggiamento per la battaglia, generalmente composto da spada e lancia per i "pedites", i fanti, fra cui i più benestanti potevano permettersi anche le protezioni di scudo e armatura. I più ricchi erano gli "equites", i cavalieri quasi sempre aristocratici, che potevano mantenersi il cavallo e disporre di protezioni (elmi, scudi e corazze) oltre alle armi offensive. 

La legione combatteva schierata a falange, formazione a cui spettava sostenere l’urto frontale con il nemico, costituita da 3 linee distanziate di fanteria pesante, formate  da hastati (1.200), principes  (1.200) e triarii (6.00); completavano i quadri i velites (1.200), fanteria leggera, con il compito di prendere il primo contatto con il nemico, e gli equites, contingente di 300 cavalieri disposto ai lati (le ali) dello schieramento cui era riservato l’inseguimento del nemico in rotta.
Cavaliere legionario dal
 Tabularium di Roma: rilievo
originale dell'episodio di Mezio
Curzio al Lacus Curtius.
Immagine di Lalupa - Opera
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.

La funzione tattica della cavalleria legionaria di epoca regia e di inizio Repubblica, si basava sulla mobilità e aveva compiti di  avanguardia ed esplorazione, di scorta, nonché per azioni di disturbo o di  inseguimento al termine della battaglia o infine per spostarsi rapidamente sul campo di battaglia e prestare soccorso a reparti di fanteria in difficoltà. I cavalieri usavano briglie e morsi, ma le staffe e la sella erano sconosciuti: non è quindi ipotizzabile una cavalleria "da urto". Quei cavalieri che, nelle stele funerarie appaiono armati di lancia e spada, protetti da un elmo, magari con scudo e piastra pettorale, erano molto probabilmente una sorta di fanteria oplitica mobile. 

Tito Livio racconta che ancora nel 499 a.C., il dittatore Aulo Postumio Albo Regillense, ordinò ai cavalieri di scendere dai cavalli ed aiutare la fanteria contro quella dei Latini in prima linea: «Essi obbedirono all'ordine; balzati da cavallo volarono nelle prime file e andarono a porre i loro piccoli scudi davanti ai portatori di insegne. Questo ridiede morale ai fanti, perché vedevano i giovani della nobiltà combattere come loro e condividere i pericoli. I Latini dovettero retrocedere e il loro schieramento dovette ripiegare.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 20). Si trattava delle fasi conclusive della battaglia del lago Regillo. I cavalieri romani risalirono, infine, sui loro destrieri e si diedero ad inseguire i nemici in fuga. La fanteria li seguì e venne conquistato il campo latino.


Si tramanda che l'organico dell'esercito sia passato da 3.000 a 4.000 unità nel V secolo a.C.

Secondo ogni probabilità, i comizi centuriati dell'epoca regia non ebbero mai competenza legislativa né elettorale e durante il passaggio (graduale) dalla monarchia alla repubblica, era mediante  acclamazione che l'esercito eleggeva i propri capi prima di muovere guerra. Quando poi si cominciò ad eleggere i capi militari, di cui quelli col grado più alto erano i consoli, anche nei comizi centuriati (popolazione maschile atta alle armi), si iniziò a votare.

Si deve rilevare che Tito Livio e Dionisio hanno descritto l'ordinamento centuriato formato da 193 centurie in una fase nella quale era già venuta meno l'eventuale originaria funzione delle centurie come distretti di leva e che la struttura  primordiale fosse molto più semplice. Non è assurdo supporre che la distinzione fra seniores e  iuniores non sia originaria (come ha sostenuto Beloch) e inoltre l'uso, corrente anche in età avanzata, di chiamare 'classici' i pedites della prima classe e 'infra classem' i rimanenti può far pensare che nei primordi vigesse soltanto questa distinzione elementare, sicché 80 sole centurie (40 di classici e 40 infra classem) fornissero i contingenti alla fanteria. Se poi si pensa che prima della presa di Crustumerium (circa 450 a.C.) le tribù erano venti, la commensurabilità fra tribù e centurie sarebbe stata stabilita almeno per un periodo iniziale.

Essendo l'esercito romano composto per lo più da cittadini agricoltori, le continue guerre di Roma con i popoli vicini rendevano spesso impossibile alle famiglie della classe plebea, che si sostenevano con il diretto lavoro dei campi svolto dal capofamiglia e dai figli maschi, di pagare i debiti che contraevano per sopravvivere durante la loro assenza. La conseguente e fiscale applicazione del  nexus permetteva perciò al patriziato di impadronirsi delle terre e perfino delle vite degli sfortunati agricoltori-combattenti e dei loro famigliari. Per questo dal 444 a.C. inizierà il conflitto degli ordini, in cui i plebei rivendicheranno i loro diritti.

Dal 407 a.C., a Roma è istituito uno stipendio per chi presta il servizio militare. Ne approfittarono quindi Hastati, Principes e Triarii che iniziarono ad utilizzare, da allora, i lunghi scudi ovali detti scutum e abbandonarono quelli rotondi, detti clipeus.

Nel corso del 407 a.C., quando l'esercito romano fu diviso in tre parti e mandato a saccheggiare il territorio dei nemici sotto il comando di tre dei quattro Tribuni militari (Lucio Valerio Potito si diresse su Anzio, Gneo Cornelio Cosso si diresse su Ecetra e Numerio Fabio Ambusto attaccò e conquistò Anxur lasciando la preda ai soldati di tutti e tre gli eserciti), fu istituito lo stipendio per i soldati, forse su indicazione dello stesso Furio Camillo. Ecco come lo racconta Tito Livio: «I patrizi poi aggiunsero un dono quanto mai opportuno per la plebe: il Senato, senza che mai prima plebe e tribuni vi avessero fatto menzione, decretò che i soldati ricevessero uno stipendio tratto dalle casse dello Stato. Fino a quel momento ciascuno adempiva al servizio militare a proprie spese. A quanto risulta, nessun provvedimento fu accolto con tanta gioia dalla plebe.». (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, IV, 59-60, op. cit.). Ovvie le conseguenze: ringraziamenti dei plebei, polemiche da parte di quei dei Tribuni che stimolavano alla battaglia prospettando vantaggi economici, proteste da parte di chi avrebbe dovuto pagare. 

Il vantaggio immediato fu che venne approvata una legge che dichiarava guerra a Veio e i nuovi Tribuni con potestà militare vi condussero un esercito in massima parte formato da volontari. E forse sempre in questa circostanza la legione potrebbe aver assunto come formazione di battaglia, quella manipolare, anche se secondo lo storico Tito Livio, si deve l'introduzione del manipolo (due centurie  formavano un manipolo agli ordini di un centurione Prior e uno Posterior) come elemento  tattico della legione, a Marco Furio Camillo (446 a.C. circa - 365 a.C.) durante il periodo del suo quarto tribunato consolare, nel 386 a.C.

Marco Furio Camillo (in latino Marcus Furius Camillus; 446 a.C. circa - 365 a.C.) è stato un politico e militare romano oltre che statista, di famiglia patrizia. Censore nel 403 a.C., ha celebrato il trionfo quattro volte, cinque volte è stato dittatore ed è infine stato onorato con il titolo di Pater Patriae, Secondo fondatore di Roma.

Le sue imprese: «Dal Senato fu inviato in qualità di dittatore contro i Veienti, che dopo vent'anni si erano ribellati, Furio Camillo. Egli li vinse prima in battaglia, quindi conquistò anche la loro città. Presa Veio, vinse anche i Falisci, popolo non meno nobile. Ma contro Camillo sorse un'aspra invidia, con il pretesto di un'ingiusta divisione del bottino, e per tale motivo fu condannato ed espulso dalla città. Subito i Galli Senoni calarono su Roma e, sconfitto l'esercito romano a dieci miglia dall'Urbe, presso il fiume Allia, lo inseguirono e occuparono anche la città. Nulla poté essere difeso tranne il colle Campidoglio; e dopo averlo a lungo assediato, mentre ormai i Romani soffrivano la fame, in cambio di oro i Galli levarono l'assedio e si ritrassero. Ma Camillo, che viveva da esiliato in una città vicina, portò il suo aiuto e sconfisse duramente i Galli. Ma non solo: Camillo inseguendoli ne fece tale strage che recuperò sia l'oro ch'era stato loro consegnato, sia tutte le insegne militari da essi conquistate. Così riportando il trionfo per la terza volta entrò in Roma e venne chiamato "secondo Romolo" come fosse egli stesso fondatore della patria.». (Eutropio, Breviarium ab Urbe condita lib. I,20).

Formazione a testuggine nella
colonna traiana. Foto di Cristian
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Un primo esempio di formazione “a testuggine” utilizzato dalla fanteria romana, viene menzionato da Tito Livio durante l’assedio di Veio e di quello di Roma degli inizi del IV secolo a.C.. In questa situazione i soldati romani serravano le file e si avvicinavano tra loro, quasi fossero delle tegole di un tetto che ripara dalla “pioggia di dardi e frecce”, sovrapponendo gli scudi, tenendoli di fronte a loro ed alzati sulle loro teste. La testuggine era una sorta di carro armato dell’antichità, che avanzava sotto i colpi degli arcieri nemici, limitando al minimo le perdite. Ovviamente questo tipo di formazione aveva anche i suoi punti deboli, primo fra tutti la lentezza e per questo era spesso utilizzata negli assedi, per avvicinarsi alle mura avversarie, oppure in battaglia in campo aperto, quando i legionari si trovavano circondati da ogni lato, come accadde nella campagna partica di Marco Antonio.

Quanto alla data approssimativa dell'operatività del comizio centuriato, poiché dalla critica delle liste dei tribuni militum consulari potestate sembra risultare che il raddoppiamento della legione avvenne circa nel 405 a.C., l'adozione del comizio centuriato è quasi coevo; se ne ha una riprova nella  diffusione che proprio allora ebbe la piccola proprietà fondiaria.

Le Centurie erano quindi le unità, originariamente di 100 uomini, in cui fu suddivisa la cittadinanza romana a scopo sia militare che politico, sulla base del censo. In ambito politico, l’ordinamento in centurie vigeva nell’assemblea popolare dei comizi centuriati mentre nell'ambito militare, la centuria era l’unità di base della legione. La centuria intesa come unità  fondamentale della legione romana, raggruppava un numero variabile tra i sessanta e i cento uomini, ma in alcuni casi arrivava fino a 160 e in alcune fonti si racconta addirittura di centurie formate da 300 elementi. Il centurione comandava una centuria legionaria. 

Il censo (lat. census), istituito da re Servio Tullio, era l'elenco dei cittadini e dei loro beni nella Roma antica. Il compito di stilare l'elenco era affidato ai censori. Col passare del tempo il termine venne inteso solamente come elenco dei beni  posseduti. Secondo la tradizione, fu Servio Tullio a compiere una prima riforma timocratica dei cittadini romani, che li suddivise per patrimonio, dignità, età, mestiere, funzione, inserendo tali dati in pubblici registri. Tale riforma era fondamentale ai fini di stabilire quali cittadini dovessero prestare il servizio militare  (obbligatoriamente e perciò chiamati adsidui).


È opinione di alcuni che, identificandosi i patrizi con la cavalleria, tutte le classi di pedites  fossero plebee. Il censo necessario per l'appartenenza a ciascuna classe viene riferito dagli antichi in danaro (100.000 assi per la 1ª classe, 75.000 per la 2ª, 50.000 per la 3ª, 25.000 per la 4ª, 12.000 o 11.000 per la 5ª), ma è probabile che questo criterio sia stato introdotto da Appio Claudio Cieco (nel 310 a. C.), mentre in precedenza erano censiti nelle cinque classi solamente gli adsidui (obbligati quindi a prestare servizio militare) proprietari di fondi, iscritti come tali nelle tribù. Inoltre la prima moneta  standardizzata da parte dello stato fu quindi l'aes grave (asse in italiano), introdotta con l'avvio dei commerci su mare intorno al 335 a.C., quindi le stime del censo delle centurie avvenute in tempi precedenti, erano effettuate in relazione alle estensioni delle unità fondiarie appartenute dagli adsidui.
A dimostrazione di ciò, poiché dalla critica delle liste dei tribuni militum consulari potestate sembra risultare che il raddoppiamento della legione avvenne circa nel 405 a.C., l'adozione del comizio  centuriato è quasi coevo; se ne ha una riprova nella diffusione che proprio allora ebbe la piccola  proprietà fondiaria.

La leva del 403 a.C. fu la prima a essere richiesta per una campagna che durasse più di una sola stagione e da quel momento in poi, tale pratica divenne gradualmente più comune, fino ad essere abituale.

Si tramanda che l'organico dell'esercito sia passato da 4.000 a 6.000 effettivi dopo il 400 a.C. Quest'ultimo organico di 6.000 uomini fu poi diviso in 60 centurie di 100 uomini ciascuna.

Nell'esercito i più ricchi erano gli "equites", i cavalieri, appannaggio dell'aristocrazia, che potevano possedere e mantenere un cavallo e disporre inoltre di protezioni oltre alle armi offensive (elmi e corazze), anche se la cavalleria romana, oltre alla funzione di guardia del corpo dei comandanti, si basava sulla  mobilità e aveva quindi solo compiti di avanguardia ed esplorazione, di ricognizione, scorta ed eventuale inseguimento al termine della battaglia; all'epoca fra  l'altro non si usavano  selle e staffe

Da epoca remota, probabilmente dal tempo dell'introduzione dell'ordinamento timocratico, la  cavalleria romana è permanente, nel senso che lo stato assicura il reclutamento della cavalleria corrispondendo a un numero fisso di cittadini (nell'epoca storica 1.800) un'indennità per l'acquisto di uno o due cavalli (aes equestre) e per il foraggio (aes hordiarium); si riconoscono cioè le speciali esigenze di  addestramento e di allenamento che richiede il servizio a cavallo. La scelta dei cavalieri era fatta dai magistrati supremi, re e consoli nel tempo più antico, dai censori dopo l'istituzione di questa carica; e alle stesse persone spettava la rassegna periodica della cavalleria per accertarsi delle attitudini militari dei cavalieri e della tenuta delle cavalcature e delle armi. Lo stato si riservò tuttavia il diritto, almeno da una certa epoca, d'imporre il servizio a cavallo anche a coloro che, pur non godendo dell'assegno equestre, possedessero però un determinato patrimonio, che gli mettesse di provvedere con mezzi propri al reperimento di cavalli da guerra. Così si fissò per tempo il cosiddetto "censo equestre" e a questi cavalieri si ricorreva quando non fossero stati sufficienti  gli  equites equo publico.

I cittadini romani adsidui dovevano disporre di un reddito/capitale di valore superiore o pari a 11.000 assi e nel I sec. d.C. un asse valeva all'incirca 0,50 €. Dovevano potersi armare a proprie spese ed erano raggruppati in centurie distinte in cinque classi, sulla base del censo. 

A loro volta gli adsidui erano distinti in seniores (maggiori di 46 anni fino a 60, i veterani) e iuniores  (tra i 17 e i 46 anni, i giovani). 
La sesta classe era quella dei non adsidui, i proletarii, non obbligati ad arruolarsi se non in occasioni eccezionali e armati a spese dello stato, poiché con reddito inferiore agli 11.000 assi,
In questo assetto la prima classe, la più facoltosa, poteva permettersi l'equipaggiamento completo da legionario (che prevedeva dispositivi difensivi come corazze elmi e scudi, oltre alle armi offensive, spade e lance) mentre quelle inferiori avevano armamenti via via più leggeri; le prime tre classi costituivano la fanteria pesante e le ultime due quella leggera.

Asse dell'antica Roma repubblicana, caratterizzato
dalla testa di Giano al diritto e da una prua di una
galea al rovescio, da https://it.wikipedia.org/wiki
/Asse_(moneta)#/media/File:Eckhel_i_3.jpg
.
La prima moneta standardizzata da parte dello stato fu quindi l'aes grave (asse in italiano), introdotta con l'avvio dei commerci su mare intorno al 335 a.C., quindi le stime del censo delle centurie avvenute in tempi precedenti, erano effettuate in relazione alle estensioni delle unità fondiarie appartenute dagli adsidui.

Con il passaggio alla monetazione al martello, l'asse diventerà una moneta fiduciaria, il cui valore cioè non era più quello del metallo che la costituiva. Durante la Repubblica di norma l'asse era caratterizzato dalla testa di Giano al diritto e da una prua di una galea al rovescio. Un sesterzio equivaleva a quattro assi e nel I secolo d.C. con un asse si potevano acquistare 542 grammi di grano, due chili di lupini, un quarto di vino comune, mezzo chilo di pane, o entrare alle terme; quindi un asse poteva valere all'incirca 0,5 € e un sesterzio circa 2 €.


Le classi definite dal censimento determinavano il loro impiego come militari di leva.
I più ricchi erano gli "equites", i cavalieri, che potevano possedere e mantenere un cavallo e disporre inoltre di protezioni oltre alle armi offensive (elmi e corazze), anche se la cavalleria romana, oltre alla funzione di guardia del corpo dei comandanti, si basava sulla mobilità e aveva quindi solo compiti di avanguardia ed esplorazione, di ricognizione, scorta ed eventuale inseguimento al termine della battaglia; all'epoca fra  l'altro  non si usavano selle e staffe
1) La prima classe dei "pedites", i fanti, era formata da 80 centurie di fanteria, che potessero disporre di un capitale di più di 100.000 assi. Era la classe maggioritaria che costituiva il cuore della falange oplitica dello schieramento romano regio, la prima linea.
2) La seconda classe dei pedites era formata da 20 centurie e i loro componenti disponevano di un capitale tra i 100.000 ed i 75.000 assi. Costituiva la seconda linea.
3) La terza classe dei pedites era costituita da altre 20 centurie di fanteria leggera e il capitale pro-capite era tra i 75.000 ed i 50.000 assi.
4) La quarta classe dei pedites era composta da ulteriori 20 centurie di fanteria leggera con un capitale tra i 50.000 ed i 25.000 assi.
5) La quinta classe dei pedites era formata da 30 centurie di fanteria leggera con un capitale di appena 25.000-11.000 assi a persona.
Chi era sotto la soglia degli 11.000 assi era organizzato in una sola centuria, dispensata dall'assolvere agli obblighi militari (i cui membri erano chiamati proletarii o capite censi), tranne quando vi fossero particolari pericoli per la città di Roma e, a partire dalle guerre puniche, venne impiegata nel servizio  navale

Pare, da altre fonti che una legione fosse costituita da: 
- 60 centurie di fanteria di linea (pesante), appoggiate da corpi di fanteria leggera e cavalleria, che combattevano nella tipica formazione a falange, che doveva sostenere l’urto frontale del nemico, costituita da 3 linee distanziate di fanteria pesante formate da hastati (1200), principes (1200) e triarii (600). La prima classe formava la schiera più avanzata rispetto alle altre. Effettuava il combattimento in modo estremamente compatto, armata di lancia e spada, difesa da scudo, elmo e corazza o da altre protezione pettorali. In battaglia, dietro la prima classe era posizionata la seconda, poi la terza classe che chiudeva lo schieramento. 
- Quarta e quinta classe costituivano la fanteria leggera, i velites (1200) che solitamente erano disposti al di fuori dallo schieramento, con il compito di prendere il primo contatto con il nemico.
- Un contingente di 300 cavalieri, gli equites, si disponeva ai fianchi (le alae). La funzione tattica della cavalleria legionaria di epoca regia e di inizio Repubblica, si basava sulla mobilità e aveva compiti di avanguardia ed esplorazione, di scorta, nonché per azioni di disturbo o di inseguimento  al termine della battaglia, o infine per spostarsi rapidamente sul campo di battaglia e prestare soccorso a reparti di fanteria in difficoltà. I cavalieri usavano briglie e morsi, ma le staffe e  la sella erano  sconosciuti e non era quindi ipotizzabile una cavalleria "da urto". I più ricchi erano proprio gli "equites", i cavalieri, (a parte le sex suffragia, le sei centurie di èquites equo  publico) che potevano possedere e mantenere un cavallo e disporre di protezioni oltre alle armi offensive (elmi e corazze). Secondo il De Francisci, la cavalleria venne organizzata non più in centuriae, ma in turmae (una turma era composta da trenta cavalieri, suddivisi in tre decurie; ogni decuria era comandata da un decurione).

Lo schema del numero di centurie nell'esercito, espresso dalla ripartizione in classi a seconda del censo dei cittadini, dato da Livio in I, 43 (Tito Livio, Patavium, l'attuale Padova, 59 a.C. - Patavium, 17 d.C., è stato l'autore della “Ab Urbe condita”, una storia di Roma dalla sua fondazione fino al 9 a.C.) e da Dionisio in IV, 16 segg. (Dionigi di Alicarnasso o anche Dionisio di Alicarnasso, Alicarnasso, 60 a.C. circa - 7 a.C., la sua opera principale è stata Antichità romane) è il seguente:

la cavalleria (gli equites) contava 18 centurie, 6 delle quali, col nome di sex suffragia, erano le sei centurie di èquites equo publico che aprivano la votazione nei comitia centuriata e avevano quindi una certa posizione di privilegio, poiché potevano determinare, insieme al resto della cavalleria e alla prima classe, la maggioranza nelle votazioni.
Le centurie della fanteria (i pedites) erano ripartite, secondo il censo, in classi e in ciascuna di esse vi erano pari centurie di seniores e di iuniores:
la prima classe contava 40 centurie di seniores e 40 di iuniores, complessivamente 80;
la seconda, la terza e la quarta erano composte ciascuna da 10 centurie di seniores e 10 di iuniores, in totale 20 per classe;
la quinta aveva 30 centurie (15 di seniores e 15 di iuniores).
Infine, erano assegnate agl'inermi 5 centurie, e precisamente due al genio (fabri tignarii ed aerarii), due alla fanfara (tubicines e cornicines), una agli accensi velati, portatori di bagagli e, all'occorrenza, complementi.
Totale 18+80+20+20+20+30+5=193 centurie.

Le centurie ottemperavano a funzioni sia militari che politiche; avevano il dovere di costituire l'esercito con la legione e il diritto di voto nel comizio centuriato, assemblea a cui, nel periodo della repubblica,  erano demandati i maggiori compiti di governo riservati al popolo, (per populus si intendeva l'esercito, dal latino arcaico populare=devastare), che consistevano principalmente nell'elezione delle magistrature maggiori (consolato, censura, pretura), nella legislazione (spesso in comunione col senato) e nella dichiarazione di guerre. 

Quanto alla data approssimativa dell'ordinamento centuriato, poiché dalla critica delle liste dei tribuni militum consulari potestate, sembra risultare che il raddoppiamento della legione avvenne circa nel 405 a.C., l'adozione del comizio centuriato è quasi coevo; se ne ha una riprova nella diffusione che proprio allora ebbe la piccola proprietà fondiaria.

Il comizio centuriato, che si riuniva, come l'esercito, nel campo Marzio, all'esterno delle mura cittadine, raccoglieva tutti i cittadini atti alle armi, cioè i maschi dai 17 ai 60 anni, con un censo di valore pari o superiore agli 11.000 assi (probabilmente 5.500 € attuali). Nel comizio centuriato la  deliberazione dell'assemblea non era decisa dalla maggioranza dei voti individuali, bensì da quelli prevalenti nelle centurie, che abbondavano nella prima classe (80) e calavano progressivamente nelle classi inferiori. La prima classe e i cavalieri possedevano la maggioranza delle centurie e quindi i voti dei più abbienti prevalevano su quelli dei meno facoltosi, così come i voti dei seniores (dai 46 ai 60 anni) prevalevano su quelli degli iuniores (dai 17 ai 45).

Denario emesso da Gaio Cassio
Longino nel 63 a.C.; un elettore
ad un plebiscito che deposita la
tabella col voto, contrassegnata
da una V che sta per 'Vti rogas',
equivalente ad un 'sì'. Da https:
//commons.wikimedia.org/
wiki/File:Roman_Election.jpg
Infatti le centurie non erano chiamate a votare contemporaneamente, né era necessario che votassero tutte. Per prime erano chiamate le sex suffragia della cavalleria di ordine pubblico, poi il resto dei cavalieri e la prima classe; le classi successive venivano chiamata soltanto se non si fosse raggiunta la maggioranza nell'esito della votazione. Quindi, quando lo scrutinio  delle centurie del primo bando  annoverava 97 voti in un senso, il comizio si scioglieva ed era comunque molto raro che le operazioni procedessero fino alla quinta classe.
Da notare che le centurie dei cavalieri e quelle della I classe  ammontavano in totale a 98 e disponevano quindi della  maggioranza.  
 
Il primo atto deliberativo di quest'assemblea, secondo Cicerone, fu la Provocatio ad populum, che nella sua prima formulazione prevedeva per i condannati a morte o alla fustigazione, la possibilità di appellarsi al popolo
comizi centuriati avevano anche il ruolo di tribunale nel caso di condanna a pena capitale, nel giudizio del reato di alto tradimento e, almeno nel periodo repubblicano, a loro si appellavano gl'imputati  passibili della pena di morte per essere sottratti al potere punitivo (ius  coërcitionis) del magistrato, e per essere sottoposti al giudizio popolare, la provocatio ad populum

Furio Camillo era quindi in esilio nel periodo della terribile sconfitta nella battaglia del fiume Allia, sconfitta che aveva permesso ai Celti Galli, come li chiamavano i Romani, Senoni di prendere Roma e saccheggiarla. La battaglia del fiume Allia si è combattuta il 18 luglio del 390 /388 a.C. nei pressi dell'Allia (il fiume Allia corrispondeva probabilmente all'attuale "Fosso Maestro", un piccolo affluente di sinistra del Tevere) fra i Romani e i Celti Galli Senoni. 

Ricostruzione di
Brenno dal Museo
della Marina
Francese, da https://it
.wikipedia.org/w
iki/Battaglia_del_
fiume_Allia#/me
dia/File:Brennus
_mg_9724.jpg
La presenza celtica nel nord Italia, che i Romani chiamavano Gallia Cisalpina (in latino cis = al di qua e trans = al di là), risaliva all'Età del bronzo e alle culture di Canegrate e Golasecca. Fu una penetrazione lenta e indolore; risale al VII sec. a.C. la più antica iscrizione celtica in Italia, oggi conservata nella Biblioteca di Castelletto sopra Ticino. Diversa fu la migrazione di massa del VI sec. a.C., che portò alla colonizzazione della Pianura Padana. In Emilia si stabilì la potente confederazione dei Boi, in Romagna e nelle Marche si stabilirono i Senoni in quello che venne denominato Ager Gallicus, dal fiume Montone, nell'attuale Romagna, fino ad Ancona. Attorno al 391 a.C. una tribù dei Senoni, al comando di Brenno (probabilmente un titolo, più che un nome proprio) si spinse nel cuore dell'Etruria, piantando il campo davanti a Chiusi, città etrusca sul confine toscano. Gli Etruschi di Chiusi chiesero aiuto ai Romani. Roma non diede un aiuto militare, ma inviò in qualità di ambasciatori, per trattare con i Galli, i tre figli di Marco Fabio Ambusto.
Costoro non solo condussero l'ambasceria in modo arrogante, ma addirittura presero parte ad un combattimento nelle file degli Etruschi di Chiusi contro i Senoni e uno di essi colpì e uccise un condottiero dei Galli. I Senoni chiesero alla repubblica romana la consegna dei temerari violatori del diritto delle genti (gli ambasciatori, essendo consacrati, durante le loro funzioni non potevano toccare il ferro né versare sangue). Il Senato romano, pur giudicando giusta la richiesta dei Senoni, rifiutò di dar loro soddisfazione per le pressioni della Gens Fabia; anzi, la potente gens riuscì a far nominare i tre Fabi addirittura tribuni consolari per l'anno 390 a.C. assieme a Quinto Sulpicio Longo, Quinto Servilio e Publio Cornelio Maluginense. Indignato, Brenno, comandante dell'esercito dei Galli, levò l'assedio a Chiusi e con tutta l'armata si volse verso Roma. I Romani allestirono in fretta un esercito improvvisato.

Lo scontro fra i due eserciti avvenne sul fiume Allia, «ad appena undici miglia dalla città, là dove il fiume Allia, scendendo dai monti Crustumini in una gola profonda, si getta nel Tevere poco sotto la Via Salaria»; il fiume Allia corrisponde probabilmente all'attuale "Fosso Maestro", un piccolo affluente di sinistra del Tevere. Mentre l'esercito celtico con ogni probabilità era ben addestrato ed equipaggiato, sebbene desse l'impressione di avanzare come un branco di predoni non organizzato, quello romano era poco più che raccogliticcio e composto da due legioni più gli alleati latini. La condotta dei Romani, così come descritta dai primi analisti e da Tito Livio, appare presuntuosa e temeraria. I tribuni militari schierarono l'esercito «senza aver scelto in anticipo uno spazio per il campo, senza aver costruito una trincea che potesse fungere da riparo in caso di ritirata, dimentichi, per non dire degli uomini, anche degli dèi, non essendosi minimamente preoccupati di trarre i dovuti auspici e di offrire sacrifici augurali». Dopo le prime manovre (le riserve romane avevano conquistato un'altura e i Galli si erano diretti contro di loro), il grosso dell'esercito romano si diede a una fuga precipitosa prima ancora che cominciasse il combattimento. 

Schema della battaglia
dell'Allia, da https://
best5.it/post/le-5-
sconfitte-peggiori-
dellimpero-romano/
Narra Livio: «Non appena le grida dei Galli arrivarono alle orecchie dei più vicini di fianco e ai più lontani alle spalle, i Romani, prima ancora di vedere quel nemico mai incontrato in precedenza e senza non dico tentare la lotta, ma addirittura senza far eco al grido di battaglia, si diedero alla fuga integri di forze e illesi. In battaglia non ci furono perdite. Gli uomini delle retrovie furono gli unici ad avere la peggio perché, nella confusione della fuga, si intralciavano a vicenda combattendo gli uni con gli altri. Sulla riva del Tevere, dove erano fuggiti quelli dell'ala sinistra dopo essersi liberati delle armi, ci fu una grande strage: moltissimi, non sapendo nuotare o stanchi, appesantiti dalle corazze e dal resto dell'armatura, annegarono nella corrente. Il grosso dell'esercito riuscì invece a riparare sano e salvo a Veio. E di lì non solo non furono inviati rinforzi a Roma, ma nemmeno un messaggero con la notizia della disfatta. Gli uomini schierati all'ala destra, che si era mantenuta lontana dal fiume in un punto più vicino alle pendici del monte, si diressero in massa a Roma e lì, senza nemmeno preoccuparsi di richiudere le porte, si rifugiarono nella cittadella.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, V, 38). Gli stessi Galli rimasero sbalorditi per la conclusione così improvvisa della battaglia. Il 18 luglio, anniversario della sconfitta nella battaglia del fiume Allia, era detto «dies alliensis», ed era considerato un giorno "nefasto" del calendario romano: non era possibile compiere nessuna azione che non fosse strettamente necessaria, né in pubblico né in privato.

In seguito alla disfatta dell'Allia e al sacco di Roma del 390-388 a.C. che ne seguì, venne distrutto l'archivio di stato e molte fonti storiche andarono dunque perdute.

Al di là del nuovo intervento di Furio Camillo descritto da Eutropio: «Ma Camillo, che viveva da esiliato in una città vicina, portò il suo aiuto e sconfisse duramente i Galli. Ma non solo: Camillo inseguendoli ne fece tale strage che recuperò sia l'oro ch'era stato loro consegnato, sia tutte le insegne militari da essi conquistate. Così riportando il trionfo per la terza volta entrò in Roma e venne chiamato "secondo Romolo" come fosse egli stesso fondatore della patria.», pare che da lì i romani adottarono le necessarie misure per ottenere un esercito più mobile e compatto. Infatti in seguito, i Galli verranno vinti in molte battaglie successive: Battaglia del Sentino, Battaglia di Talamone, Battaglia del lago Vadimone, ecc.


Simbolo di manipolo,
 di MatthiasKabel -
Opera propria QUI.
La LEGIONE romana (dal latino legio, derivato del verbo legere, "raccogliere assieme", che all'inizio indicava l'intero esercito) era l'unità militare di base dell'esercito romano. Nacque dalla trasformazione dell'esercito alto-repubblicano, dal modello falangitico a quello manipolare (dal latino  manipulus, «quanto può stare nel palmo di una mano») nel IV secolo a.C. 

manipoli erano fondamentalmente delle squadre e il numero dei loro componenti, che Livio narra fosse di due centurie, per un totale di 120 soldati di fanteria pesante della medesima classe, poteva essere probabilmente di numero piuttosto variabile. Sicuramente i manipoli, rispetto al precedente schieramento a falange, con 3 linee distanziate di fanteria pesante formate da 1.200 hastati, 1.200  principes e 600 triarii , risultavano molto più mobili sul campo di battaglia, permettendo rapidi mutamenti tattici delle singole unità nel contesto dell'assetto generale della legione e si prestavano bene, con la loro  maggiore agilità di combattimento, ai terreni irti e diseguali, come ad esempio le colline del Sannio.

Secondo Tito Livio (59 a.C. - 17 d.C.), intorno alla metà del IV secolo a.C., durante la guerra latina, le legioni erano composte da 30 manipoli, composti da 2 centurie ciascuno (conteggio poco  comprensibile, visto l'assetto complessivo dello schema, N.d.R.), con 3.600 - 4.800, fino ad un massimo di 5.000 fanti e 300 cavalieri per legione. Dal racconto di Livio, le legioni, prima della battaglia, si schieravano su 15 colonne o ordini, suddivise in tre differenti file, (triplex acies), nelle quali si aggiungevano, davanti all'inizio degli scontri e in seguito riparavano dietro, i fanti  leggeri, velites  e/o leves, armati di giavellotto (solitamente uomini giovani e deboli della quarta classe). Le file, partendo dalla prima linea erano, così composte:

Schieramento della legione manipolare secondo
Tito Livio, di Cristiano64 - Opera propria, CC BY
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.
- la I fila era costituita da quindici manipoli di Hastati"il fiore dei giovani alle prime armi";
- la II fila era costituita da quindici manipoli di Principes, armati di età più matura. Queste prime due schiere erano chiamate antepilani.
- la III fila era costituita da quindici unità triple, ognuna formata da un manipolo di Triarii, uno  di  Rorarii e l'ultimo di Accensi, lì riparati dopo le scaramucce iniziali. Ognuna di queste quindici unità constava di due vessilliferi e quattro centurioni, per un totale di 186 uomini. I Triari erano soldati veterani di provato valore, i Rorarii, più giovani e meno esperti, ed infine gli Accensi, ultima schiera di scarso affidamento. I Triarii, dopo aver accolto Hastati e Principes tra le loro file, serravano le file ed in un'unica ininterrotta schiera, si gettavano sul nemico. 

Ordine manipolare secondo Livio. Da
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 e https://commons.
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45852195

«Quando l'esercito aveva assunto questo schieramento, gli Hastati iniziavano primi fra tutti il combattimento. Se gli Hastati non erano in grado di battere il nemico, retrocedevano a passo lento e i Principes li accoglievano negli intervalli tra loro. [...] i Triarii si mettevano sotto i vessilli, con la gamba sinistra distesa e gli scudi appoggiati sulla spalla e le aste conficcate in terra, con la punta rivolta verso l'alto, quasi fossero una palizzata... Qualora anche i Principes avessero combattuto con scarso successo, si ritiravano dalla prima linea fino ai Triarii. Da qui l'espressione latina "Res ad Triarios rediit" ("essere ridotti ai Triarii"), quando si è in difficoltà.» (Livio, Ab Urbe condita libri, VIII, 8, 9-12.)


I legionari più "benestanti" erano i triarii, che potevano permettersi l'equipaggiamento più completo e pesante, mentre gli accensi erano i più poveri, presi dalla quarta classe di cittadini, secondo l'ordinamento censitario.

Ogni manipolo era comandato da un centurione Prior e uno Posterior, Il centurione più importante, paragonabile ad un ufficiale nel nostro ordinamento, era il primus pilus  (primipilo), comandante dei Triarii, uno dei pochi a servirsi del cavallo durante la marcia. Il primus pilus veniva scelto tra i soldati più coraggiosi ed esperti.

La fanteria era sempre coperta ai fianchi da unità di cavalleria e disponeva di avanguardie di fanti leggeri, che davano inizio alla battaglia disturbando il nemico con dardi o giavellotti sul nemico, per poi ritirarsi al sicuro. Mentre le prime linee dei manipoli impegnavano continuativamente il nemico, grazie al rapido movimento ad arretrare della prima linea, subito sostituita da quelle che gli stavano dietro, la cavalleria poteva tentare manovre evasive o di accerchiamento. I Triarii, dopo aver accolto Hastati e Principes tra le loro file, serravano le file ed in un'unica ininterrotta schiera si gettavano sul nemico. Nella tattica manipolare la prima linea (gli Hastati) proteggeva la ritirata dei Velites, la seconda linea dei Principes il rientro della prima e così via; l'esercito romano era, quindi, molto più manovrabile degli altri e riusciva a portare anche più di un assalto, a differenza degli avversari. 

Scutum romano,
di Redtony - Opera
propria, CC BY
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mons.wikimedia.org/
w/index.php?curid=
2704034
L'esercito romano passava così, dall'impiego del clipeus e dell'hasta all'utilizzo dello scutum, del pilum e in seguito del gladius, che divennero le armi  fondamentali delle legioni romane, del tutto efficaci e conformi alla nuova tattica bellica romana.

Tre pila romani,
immagine: Bratislav
- Opera propria, CC 
BY-SA 3.0, https://
commons.wikimedia
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rid=24717003
.
Il pilum (al plurale pila) era un giavellotto utilizzato dall'esercito romano nei combattimenti a breve distanza, costituito da un'asta di legno a cui era applicata una punta in ferro. Normalmente ognuno dei soldati che ne facevano uso (i pilani) ne portava due, uno leggero e un secondo più pesante. Fra i commentatori antichi che ne parlano maggiormente, vi sono Giulio Cesare, Vegezio e Plutarco. Esiste una grande varietà di pila risalenti a varie epoche e ritrovati un po' in tutte le parti dei territori conquistati dai Romani. La lunghezza poteva variare, in base anche alle diverse caratteristiche costruttive, da 150 a 190 centimetri. L'elemento che accomunava i diversi tipi di pilum era la punta in ferro più o meno lunga, che aveva lo scopo di attraversare lo scudo nemico e di raggiungerne il corpo. Ciò che invece poteva differire di molto tra un tipo di pilum e un altro era la modalità di raccordo tra la parte in legno e quella in ferro. Secondo alcune raffigurazioni scultoree pervenuteci, il pilum era talvolta appesantito con una sfera di metallo appena sotto la giuntura tra il metallo e il legno, probabilmente per aumentarne la forza di penetrazione. Le prime evidenze del pilum come arma romana partono dal IV secolo a.C. 

I Romani adottarono il pilum durante le guerre con i Celti e successivamente la impiegarono con successo anche contro le altre popolazioni del centro e sud Italia. Plutarco racconta che 13 anni dopo la battaglia del fiume Allia, in un successivo scontro con i Galli Senoni (databile al 377-374 a.C.), i Romani riuscirono a battere le armate celtiche, e ne fermarono una nuova invasione: «[...] Camillo portò i suoi soldati giù nella pianura e li schierò a battaglia in gran numero con grande fiducia, e come i barbari li videro, non più timidi o pochi in numero, come invece si aspettavano. Per cominciare, ciò mandò in frantumi la fiducia dei Galli, i quali credevano di essere loro ad attaccare per primi. Poi i velites attaccarono, costringendo i Galli ad entrare in azione, prima che avessero preso posizione con lo schieramento abituale, al contrario schierandosi per tribù, e quindi costretti a combattere a caso e nel disordine più totale. Quando infine Camillo condusse i suoi soldati all'attacco, il nemico sollevò le proprie spade in alto e si precipitò all'attacco. Ma i Romani lanciarono i giavellotti contro di loro, ricevendo i colpi [dei Galli] sulle parti dello scudo che erano protette dal ferro, che ora ricopriva gli spigoli, fatti di metallo dolce e temperato debolmente, tanto che le loro spade si piegarono in due; mentre i loro scudi furono perforati e appesantiti dai giavellotti [romani]. I Galli allora abbandonarono effettivamente le proprie armi e cercarono di strapparle al nemico, tentando di deviare i giavellotti afferrandoli con le mani. Ma i Romani, vedendoli così disarmati, cominciarono misero subito mano alle spade, e ci fu una grande strage dei Galli che si trovavano in prima linea, mentre gli altri fuggirono ovunque nella pianura; le cime delle colline e dei luoghi più elevati erano stati occupati in precedenza da Camillo, e i Galli sapevano che il loro accampamento poteva essere facilmente preso, dal momento che, nella loro arroganza, avevano trascurato di fortificarlo. Questa battaglia, dicono, fu combattuta tredici anni dopo la presa di Roma, e produsse nei Romani una sensazione di fiducia verso i Galli. Essi avevano potentemente temuto questi barbari, che li avevano conquistati in un primo momento, più che altro credevano che ciò fosse accaduto in conseguenza di una straordinaria disgrazia, piuttosto che al valore dei loro conquistatori.» (Plutarco, Vita di Camillo, 41, 3-6.).

Le prime versioni di pilum erano costituite da un bastone relativamente corto e da una punta più piccola di quella delle lance e probabilmente era chiamato iacula, ossia "oggetto da lancio", e adoperato per lo più dalle truppe da interdizione, i Velites. Le sue successive evoluzioni del II e I secolo a.C. lo portano ad essere un'arma più pesante e lunga in dotazione ai primi due ordini di soldati: i Principes e gli Hastati. In questo periodo il pilum gode della sua fortuna e vive la sua massima evoluzione con l'invenzione dell'accoppiata codolo piatto - anello antirottura (come nell'esempio di Oberaden), al fine di impedire che possa smorzare parte dell'energia nel piegamento o nella rottura. L'uso tattico del pilum aveva un'importante conseguenza: il lancio congiunto dalle prime file poteva  fermare l'assalto del nemico con un urto letale creando grande scompiglio.

Le truppe avversarie che si opponevano ai Romani dotati di pilum erano spesso truppe di fanteria leggera con scarse protezioni e quindi drammaticamente esposti ad una simile arma letale. Questo spiega la fortuna avuta dal pilum nell'uso contro i Celti in epoca repubblicana. 

velites (dal latino veles-itis, derivante da velox) o veliti (in italiano), erano fanti armati alla leggera, a partire dal IV secolo a.C. disposti davanti alla legione in ordine sparso. Il loro numero era lo stesso per ogni legione e vicino a quello degli hastati e dei principes, pari a 1.200. Il loro armamento consisteva in una leggera armatura in cuoio (molte volte assente), in un piccolo scudo di legno di forma rotonda (di tre piedi di diametro), una spada ed alcuni giavellotti (di dimensioni ridotte, pari a due cubiti di lunghezza dell'asta di legno ed una spanna, la punta molto sottile ed appuntita), che venivano scagliati ed assomigliavano grossolanamente agli odierni giavellotti delle discipline olimpiche. L'equipaggiamento era poi completato da un elmo semplice, che talvolta era ricoperto da una pelle di lupo, sia con lo scopo di aumentarne la protezione, sia per riconoscerli sul campo di battaglia. I veliti erano i primi soldati della legione ad attaccare battaglia, con il lancio continuo di giavellotti, che avendo la punta molto sottile e appuntita, penetrava negli scudi o nelle carni dell'avversario, piegandosi e non permettendo al nemico di riutilizzarli in occasione di un secondo lancio. Il loro scopo era quello di tormentare il nemico, cioè il loro lancio continuo costringeva le truppe nemiche ad 'affrettare' lo schieramento oppure portava allo scompaginamento delle file nemiche. Il fatto di avere armature leggere (o assenti) rendeva queste truppe molto veloci e agili, il che permetteva di compiere determinate azioni che non poteva compiere la fanteria pesante e questo rendeva l'intera legione più versatile. Infatti il punto di forza dei veliti era la velocità e il fatto che non combattessero in formazione, ma erano disposti in ordine sparso; questo permetteva loro di essere le truppe più efficaci a disposizione dei Romani contro i nemici 'inusuali' come carri da guerra ed elefanti. Tuttavia i veliti erano quasi completamente inefficaci nello scontro corpo a corpo e soprattutto contro la fanteria pesante. La loro efficacia era più psicologica che effettiva, non erano in grado di infiggere gravi perdite al nemico, ma la pioggia di dardi aveva effetti disastrosi sul morale dei nemici. Non erano tenuti in gran considerazione dai Romani, ma la loro azione iniziale era fondamentale, perché dava il tempo al resto dell'esercito di mettersi in formazione. All'interno dell'accampamento da marcia, completavano il servizio di guardia presidiando l'esterno dell'accampamento e disponendosi ogni giorno lungo l'intero vallum. Fornivano poi la guardia di dieci uomini davanti a ciascuna entrata del campo. All'epoca i soldati si pagavano generalmente da soli il proprio equipaggiamento militare, ragion per cui i veliti provenivano dalle classi più povere ed erano inoltre tra i più giovani. I veliti saranno aboliti da Gaio Mario.

Secondo lo storico Tito Livio, si deve l'introduzione del manipolo come elemento tattico della legione, a Marco Furio  Camillo (446 a.C. circa - 365 a.C.) durante il periodo del suo quarto tribunato consolare, nel 386 a.C.

tribuni militum consulari potestate (tribuni militari con potestà consolare) o più brevemente tribuni consolari, erano eletti con potere consolare durante il cosiddetto "conflitto degli ordini" che si era scatenato nella Repubblica Romana dall'anno 444 a.C. e si era poi  riacceso dall'anno 398 a.C. al 394 a.C. e, dopo un breve interludio, dall'anno 391 a.C. fino al 367 a.C.

Secondo Tito Livio e Dionigi di Alicarnasso, la magistratura dei tribuni militum consulari potestate fu creata nel periodo del conflitto degli ordini, assieme alla carica di censore, allo scopo di permettere  all'ordine plebeo l'accesso alle più alte cariche del governo, senza per questo dover riformare la carica di console che il patriziato difendeva come riservata al suo ordine. Con l'introduzione della figura del tribuno consolare si oltrepassava il problema formale  pur dando alla plebe l'accesso al massimo potere. Nonostante la prima nomina sia avvenuta nel 444 a.C., occorrerà aspettare il 400 a.C., perché si possa registrare la nomina di un plebeo, Publio Licinio Calvo Esquilino, alla magistratura del tribunato consolare. La scelta della forma di governo di un dato anno - con consoli o tribuni consolari - era comunque affidata al popolo al momento delle elezioni e quindi si osservano anni in cui Roma era guidata da consoli e altri in cui la guida era affidata ai tribuni consolari. Molto probabilmente la scelta avveniva scegliendo le "persone" più che i "tipi di carica" in relazione alla capacità dei singoli candidati di attrarre i voti delle tribù. L'elezione dei tribuni consolari ebbe termine quando, nel 367 a.C. con l'approvazione delle leges Liciniae Sextiae, la plebe riuscì ad ottenere l'accesso alla carica di console, accesso che fu poi regolamentato dalla lex Genucia, approvata nel 342 a.C.

Altri ufficiali superiori della legione erano 6 tribuni militum che sovrintendevano al servizio interno e comandavano collegialmente la legione, a turni mensili di 2 per volta. 

manipoli erano quindi le unità tattiche delle legioni che, disposti a scacchiera, permettevano una notevole agilità di  combattimento su terreni irti e diseguali, come ad esempio le colline del Sannio. Costituirà l'elemento fondamentale delle legioni romane fin dalle battaglie contro Equi e Volsci vinte da Furio Camillo (nel 386 a.C.) e, anche con schieramenti ordinati diversamente, i manipoli verranno adottati nelle guerre del Latium vetus contro i latini (dal 389 a.C. al III secolo a.C.), nelle guerre sannitiche, in quelle per l'egemonia sulla penisola italica (dal III al II secolo a.C.), nella Seconda guerra punica (218 - 202 a.C.) e più in generale fino ai consolati di Gaio Mario dal 107 a.C., in cui le legioni verranno schierate in coorti. 

Normalmente si arruolava una legione all'anno, ma nel 366 a.C. successe per la prima volta che due legioni fossero arruolate in uno stesso anno.

Carta con i territori teatro della
seconda guerra sannitica.

Con la seconda guerra sannitica, tra il 321 e il 315 a.C., per far fronte a situazioni eccezionali, si creò una terza legione. Secondo alcune fonti, in quel periodo invece, Roma raddoppiò la leva, passando da due a quattro legioni, divise ognuna in 30 manipoli

Intorno al 310 a.C. le legioni erano comunque 4, e raggiunsero, durante le guerre annibaliche, il numero di 28. Le operazioni di mobilitazione, congedo e ripartizione delle legioni, erano ogni anno stabilite dal senato. Ancora all’epoca di Polibio (206 - 118 a.C.) era ritenuto normale il numero di 4.200 fanti per

legione; in seguito salì a 5.000 per assestarsi al tempo di Mario (157-86 a.C.) sui 6.000 uomini.

Il contubernium era la più piccola unità militare dell'esercito romano e in epoca classica indicava anche un rapporto permanente tra servi o tra dominus e serva. Il contubernium era composto da otto uomini possibilmente facenti capo ad un decano e in alcuni casi uno o più servi erano a disposizione dei legionari che ne facevano parte, secondo le disponibilità economiche degli stessi soldati. Dieci contubernia formavano una centuria. I soldati di uno stesso contubernium condividevano la stessa tenda (per questo erano definiti contubernales) ed erano ricompensati o puniti insieme. Tale termine ha passato tutta la storia romana divenendo un termine adoperato addirittura dai soldati dell'esercito inglese del 1800 per indicare i compagni di tenda, esattamente come accadeva nelle legioni dell'antica Roma.

La decimazione era uno strumento estremo di disciplina militare inflitto ad interi reparti negli eserciti dell'antica Roma, per punire ammutinamenti o atti di codardia, uccidendo un soldato ogni dieci. La parola deriva dal latino decimatio che significava "eliminare uno ogni dieci". In questa accezione la decimazione è stata utilizzata ancora durante la prima guerra mondiale nel Regio Esercito del Regno d'Italia, e in Libia da parte del regime fascista italiano.

Il reparto che si voleva punire per decimazione, era diviso in gruppi di 10 legionari; ciascun gruppo sceglieva a sorte uno di loro che veniva ucciso dai suoi commilitoni per lapidazione o a bastonate. Ai soldati rimanenti era poi dato da mangiare un rancio a base di orzo invece che di frumento e quindi mandati a dormire all'addiaccio fuori dell'accampamento, senza la protezione del vallum. Il rischio e la paura di essere sorteggiati gravava indistintamente, dunque, su tutti. Polibio aggiunge che, nel caso fossero stati numerosi a commettere gli stessi reati sopra elencati, o che interi manipoli, pressati dal nemico, avessero abbandonato il proprio posto, i Romani preferivano evitare di infliggere a tutti quanti la pena della bastonatura (fustuarium) o della morte. La soluzione che essi avevano trovato era quella della decimazione. In questo caso, il tribuno, una volta riunita la legione, faceva condurre al centro dello spiazzo i responsabili dell'abbandono del posto, li rimproverava aspramente e poi alla fine sorteggiava tra tutti i colpevoli, ora cinque, ora otto, ora venti, in modo che il totale corrispondesse sempre alla decima parte del numero complessivo degli imputati.

Poiché la punizione colpiva a caso, tutti i soldati della coorte punita correvano il rischio di essere uccisi, indipendentemente dal grado o dai compiti svolti. Di conseguenza la minaccia della decimazione oltre che spaventare obbligava i legionari a mantenere un comportamento risoluto in battaglia. Tuttavia, poiché l'applicazione della decimazione riduceva in un sol colpo la forza del reparto del dieci per cento, si crede che essa fosse comminata molto raramente.
Il più antico riferimento ad una decimazione è quello del 471 a.C., perpetrato dall'arrogante console Appio Claudio Sabino Inregillense come ritorsione alle rivendicazioni plebee nelle operazioni militari durante le prime guerre della Repubblica romana contro i Volsci, ed è raccontato da Tito Livio. Questa pena fu ripresa anche da Marco Licinio Crasso nel 71 a.C. durante la Terza guerra servile contro Spartaco. La decimazione fu praticata anche durante l'Impero romano: Svetonio nella sua Vite dei Cesari tramanda che fu usata da Augusto nel 17 a.C.

È opinione di alcuni che, identificandosi i patrizi con la cavalleria, tutte le classi di pedites  fossero plebee. Il censo necessario per l'appartenenza a ciascuna classe viene riferito dagli antichi in danaro (100.000 assi per la 1ª classe, 75.000 per la 2ª, 50.000 per la 3ª, 25.000 per la 4ª, 12.000 o 11.000 per la 5ª), ma è probabile che questo criterio sia stato introdotto da Appio Claudio Cieco (nel 310 a. C.), mentre in precedenza erano censiti nelle cinque classi solamente gli adsidui (obbligati quindi a prestare servizio militare) proprietari di fondi iscritti come tali nelle tribù, e quindi il censo non era determinato dal denaro da loro posseduto, ma dal valore della loro proprietà, espresso in assi.

Quali fossero le estensioni territoriali minime per ciascuna classe, non sappiamo, ma l'affollamento  della prima classe sembra dimostrare che vi partecipassero tutti i proprietari che conservassero  intera l'unità fondiaria (7 iugeri? Lo iugum nell'antica Roma era l'unità di misura di superficie equivalente a 0,252 ha e indicava il terreno arabile in una giornata da una coppia di buoi attaccati allo stesso giogo), e che alle classi inferiori fossero iscritti quelli che per ragioni ereditarie o di altro ordine possedessero di quella unità rispettivamente i tre quarti, la metà, un quarto, o una frazione minore.

La prima moneta standardizzata da parte dello stato Romano e stata l'aes grave (asse in italiano), introdotta con l'avvio dei commerci su mare intorno al 335 a.C.

Asse grave romano in bronzo del 240-
225 a.C. di 259,53 g, di Classical
Numismatic Group, Inc. http://www
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Il peso dell'asse (aes grave) era pari ad una libbra romana (327,46 g) e avendo un peso costante può essere considerata come una prima unità di misura della monetazione, infatti il valore nominale, ossia quello "stampato, o meglio impresso sulla moneta" era uguale al valore intrinseco. Queste monete erano diverse per fattezza ma avevano lo stesso peso e quindi lo stesso valore standard. Multipli dell'asse furono il dupondio (2 assi), il tripondio (3 assi) ed il decusse (10 assi). Frazioni dell'asse furono il semisse (mezzo asse), il triente (un terzo d'asse), il quadrante (un quarto d'asse), il sestante (un sesto d'asse) e l'oncia (un dodicesimo d'asse).

Con il passaggio alla monetazione "al martello", l'asse diventerà una moneta fiduciaria, il cui valore non sarà più legato al contenuto in metallo. Il peso dell'asse conobbe una progressiva diminuzione, acquisendo via via il peso delle sue frazioni: mezza libbra romana nel 286 a.C., un sesto di libbra nel 268 a.C., 1 oncia (cioè un dodicesimo di libbra) nel 217 a.C. e mezza oncia nell'89 a.C. L'uso del bronzo in periodo repubblicano terminò nel 79 a.C., per riprendere solo durante il principato.

Nel I secolo d.C. con un asse si potevano acquistare 542 grammi di grano, due chili di lupini, un quarto di vino comune, mezzo chilo di pane, o entrare alle terme; quindi un asse poteva valere all'incirca 0,5   e un sesterzio circa 2 €.

Lo schema del numero di centurie nell'esercito, espresso dalla ripartizione in classi a seconda del censo dei cittadini, dato da Livio in I, 43 (Tito Livio, Patavium, l'attuale Padova, 59 a.C. - Patavium, 17 d.C., è stato l'autore della “Ab Urbe condita”, una storia di Roma dalla sua fondazione fino al 9 a.C.) e da Dionisio in IV, 16 segg. (Dionigi di Alicarnasso o anche Dionisio di Alicarnasso, Alicarnasso, 60 a.C. circa - 7 a.C., la sua opera principale è stata Antichità romane) è il seguente:

la cavalleria (gli equites) contava 18 centurie, 6 delle quali, col nome di sex suffragia, erano le sei centurie di èquites equo publico che aprivano la votazione nei comitia centuriata e avevano quindi una certa posizione di privilegio, poiché potevano determinare, insieme al resto della cavalleria e alla prima classe, la maggioranza nelle votazioni.
Le centurie della fanteria (i pedites) erano ripartite, secondo il censo, in classi e in ciascuna di esse vi erano pari centurie di seniores e di iuniores:
la prima classe contava 40 centurie di seniores e 40 di iuniores, complessivamente 80;
la seconda, la terza e la quarta erano composte ciascuna da 10 centurie di seniores e 10 di iuniores, in totale 20 per classe;
la quinta aveva 30 centurie (15 di seniores e 15 di iuniores).
Infine, erano assegnate agl'inermi 5 centurie, e precisamente due al genio (fabri tignarii ed aerarii), due alla fanfara (tubicines e cornicines), una agli accensi velati, portatori di bagagli e, all'occorrenza, complementi.
Totale 18+80+20+20+20+30+5=193.

Tutti i cittadini atti alle armi, cioè i maschi dai 17 ai 60 anni, facevano parte dei comizi centuriati ma, risultando la deliberazione  dell'assemblea non ottenuta dalla maggioranza dei voti individuali bensì da quelli prevalenti nelle centurie, che abbondavano nella prima classe (80) e calavano progressivamente nelle classi inferiori, la prima classe e i cavalieri possedevano la maggioranza delle centurie e quindi i voti dei più abbienti prevalevano su quelli dei meno facoltosi, così come i voti dei seniores (dai 46 ai 60 anni) prevalevano sugli iuniores (dai 17 ai 45).
Infatti le centurie non erano chiamate a votare contemporaneamente, né era necessario che votassero tutte. Per prime erano chiamate le sex suffragia della cavalleria di ordine pubblico, poi il resto dei cavalieri e la prima classe; le classi successive venivano chiamata soltanto se non si fosse raggiunta la maggioranza nell'esito della votazione. Quindi, quando lo scrutinio delle centurie del primo bando annoverava 97 voti in un senso, su un totale di 193 centurie, il comizio si scioglieva ed era comunque molto raro che le operazioni procedessero fino alla quinta classe.
Le centurie dei cavalieri più quelle della I classe ammontavano a 98 in totale e disponevano quindi della maggioranza; ciò spiega quindi come, nell'attività elettiva e legislativa dell'assemblea centuriata, prevalessero gli interessi dei ceti economicamente più elevati.  

Lo schema del numero di centurie nell'esercito, espresso dalla ripartizione in classi a seconda del censo dei cittadini, dato da Livio in I, 43 (Tito Livio, Patavium, l'attuale Padova, 59 a.C. - Patavium, 17 d.C., è stato l'autore della “Ab Urbe condita”, una storia di Roma dalla sua fondazione fino al 9 a.C.) e da Dionisio in IV, 16 segg. (Dionigi di Alicarnasso o anche Dionisio di Alicarnasso, Alicarnasso, 60 a.C. circa - 7 a.C., la sua opera principale è stata Antichità romane) è il seguente:
la cavalleria (gli equites) contava 18 centurie, 6 delle quali, col nome di sex suffragia, erano le sei centurie di èquites equo publico che aprivano la votazione nei comitia centuriata e avevano quindi una certa posizione di privilegio, poiché potevano determinare, insieme al resto della cavalleria e alla prima classe, la maggioranza nelle votazioni.
Le centurie della fanteria (i pedites) erano ripartite, secondo il censo, in classi e in ciascuna di esse vi erano pari centurie di seniores e di iuniores:
la prima classe contava 40 centurie di seniores e 40 di iuniores, complessivamente 80;
la seconda, la terza e la quarta erano composte ciascuna da 10 centurie di seniores e 10 di iuniores, in totale 20 per classe;
la quinta aveva 30 centurie (15 di seniores e 15 di iuniores).
Infine, erano assegnate agl'inermi 5 centurie, e precisamente due al genio (fabri tignarii ed aerarii), due alla fanfara (tubicines e cornicines), una agli accensi velati, portatori di bagagli e, all'occorrenza, complementi.
Totale 18+80+20+20+20+30+5=193.

Il rapporto fra le centurie dell'esercito e quelle dei comizi centuriati rimane piuttosto oscuro. Secondo una dottrina ispirata alle dichiarazioni di Dionisio, sembra che ogni centuria dell'ordinamento serviano (o almeno ogni centuria di iuniores nelle classi dei pedites) dovesse fornire alle leve annuali un contingente di 100 uomini. Ma anche calcolando in 19 le campagne alle quali ogni iunior era tenuto a partecipare entro i 28 anni d'iscrizione, il continuo guerreggiare dei Romani e il calcolo dei morti in battaglia e d'invalidi, presupporrebbe negli iuniores della prima classe, centurie di 300 uomini (e di 100 nei seniores); sicché alla prima classe avrebbero dovuto appartenere 16.000 uomini validi. Quanto alle classi inferiori, anche a voler ammettere che l'addensamento non superasse da classe a classe il 33%, non avrebbero potuto aver meno di 40.000 uomini complessivamente: con la cavalleria e il proletariato, si sarebbero raggiunti 60.000 uomini validi, un numero di cui Roma non poteva disporre al tempo del re Servio e nemmeno per secoli a venire. Si aggiunga che non solo le operazioni del censimento, ma anche quelle della leva annuale si facevano, come concordemente rilevano gli antichi, fra le tribù in cui la popolazione era divisa (nella sistemazione definitiva le tribù erano 35, 4 urbane e 31 rustiche).
Pare quindi che le due iscrizioni di ogni cittadino fossero indipendenti, e si consideri poi che vista la maggioranza dei cavalieri e prima classe nelle votazioni dei comizi centuriati, devono essere state minime le occasioni di voto delle altre classi.

Probabilmente la consapevolezza dei Romani di determinare il proprio destino (homus faber), concetto che li faceva sentire liberi da condizionamenti di entità immateriali e li rendeva consapevoli della propria autodeterminazione nella vita, gli permise la realizzazione di progetti grandiosi, in vari ambiti, compreso quello di modificare l'ambiente a misura delle proprie esigenze.

E dunque, prima per necessità militari, poi per ragioni logistiche, sono state le legioni ad edificare le strade, gli acquedotti, valli, fortificazioniponti nei territori di Roma, così come le "macchine" da guerra e le opere pubbliche.

Dal 312 a.C. a Roma inizia la costruzione delle strade e degli acquedotti.
La prima strada consolare a essere costruita fu la Via Appia. La costruzione delle strade inizialmente era stata dettata dalla necessità di spostare rapidamente le truppe in qualsiasi regione conquistata, ed infatti le prime strade furono costruite proprio dai legionari. Anche se in principio avevano una funzione militare permisero un notevolissimo sviluppo al commercio dell'Urbe favorendo lo spostamento di merci e mercanti, oltre che della gente comune e dei messaggeri. In poco tempo le prime vie Consolari come: l'Appia, l'Aemilia, la Salaria, la Postumia ed altre, vennero prolungate, fino a formare un complesso sistema che permetteva di raggiungere qualsiasi punto dell'Impero in poco tempo; si calcola che furono costruite più di 29 strade che percorrevano oltre 120.000 Km (due volte il giro della Terra!). Le strade romane avevano il compito fondamentale di mettere in comunicazione Roma con il resto dello Stato nel modo più rapido effettuabile. Per questo venivano tracciate il più rettilinee possibile per evitare allungamenti, anche a costo di lasciare isolati i centri più piccoli, i quali venivano comunque collegati con vie secondarie. La necessità di superare ostacoli naturali come specchi d'acqua o colline per dare continuità al tracciato venne compiuta  con la costruzioni di mirabili ponti, viadotti e gallerie in parte tuttora praticabili. Ricordiamo per tutti, il ponte più lungo dell'antichità costruito sul Danubio per volere di Traiano, con una lunghezza di oltre 2,5 km.
Questi sono solo alcuni dei segni più imponenti che questa civiltà ci ha lasciato, e che tra l'altro furono per secoli studiati per la loro perfezione. Nel Medioevo, per l'incapacità di eguagliare le strade e i ponti romani, li si chiamava per questo "sentieri dei giganti" e strade o ponti "del diavolo".
La via sacra dell'antica Roma.
La parola miglio deriva dall'espressione latina milia passuum, "migliaia di passi" (al singolare, mille passus = mille passi), che nell'Antica Roma denotava l'unità pari a mille passi (1 passo = 1,48 metri). Occorre ricordare che per gli antichi romani il passus era inteso come la distanza tra il punto di distacco e quello di appoggio di uno stesso piede durante il cammino, quindi il doppio rispetto all'accezione moderna.
Ad ogni miglio, veniva posto ai bordi della strada una pietra cilindrica alta anche 3 o più metri, sulla quale erano incise le miglia percorse dalla città precedente, e quelli alla prossima, oltre che alla distanza da Roma; erano inoltre incisi il nomi di coloro che la facevano costruire. Al centro dell'Urbe, vicino al Foro, l'Imperatore Ottaviano Augusto fece collocare accanto ai Rostri il Miliarium Aureus ossia una pietra miliare dorata con le distanze di tutte le principali città dell'Impero; inoltre non lontano c'era anche una grande mappa bronzea dell'Impero detta Forma Imperii, accanto a quella di Roma detta Forma Urbi. La velocità di percorrenza giornaliera media delle strade era di  30 Km orari in carro, 7-8 Km/h a piedi, ed 80 Km giornalieri al massimo per i messaggeri imperiali del cursus publicus ossia i corrieri a staffetta per i funzionari di Governo.
Le strade che gli antichi
Romani hanno edificato
in Italia. 
Le principali strade in Italia erano:
I. Via Appia: fatta costruita nel 312 a.C. dal console Appio Claudio Cieco, che essendo appunto non vedente, ne controllava la regolarità sfiorandola col palmo del piede. Essendo la più antica delle vie Consolari è chiamata regina viarum, cioè la regina delle strade. Inizialmente fu tracciata fino a Capua, grande centro della Campania, ma fu poi prolungata fino a Beneventum, Venosa, Tarantum e Brundisium ove c'era un importantissimo porto.
Nel II secolo d.C. l'Imperatore Marco Ulpio Traiano crea una un percorso alternativo tra Benevento e Brindisi passando attraverso gli Appennini, dando origine alla Via Appia Traiana, la quale permetteva di risparmiare oltre un giorno di marcia. Questa opera è ricordata sopratutto per il fatto che durante i lavori di costruzione, per riuscire a oltrepassare uno scaglione di roccia molto alto, i Romani lo fecero letteralmente tagliare e tutt'ora è possibile vedere ciò che ne resta.
II. Via Aemilia: altro non era che il proseguimento della via Flaminia verso Nord-Ovest. Essa congiungeva Ariminum con Placentia, toccando Caesena, Forum Livi, Bononia, Mutina, Regium Lepidum e Parma.
III. Via Capua-Rhegium: si staccava dalla via Appia a Capua , proseguiva fino a Rhegium, passando per Consentia e Vibo Valentia.
IV. Via Aurelia: strada costiera che andava a Nord: collegava l'Urbe con Vada Sabatia (Vado Ligure), attraverso Pisae, Luna e Genua. Venne poi edificata la Via Julia Augusta che proseguiva per le Gallie attraversando il sito dei Balzi Rossi, nei pressi dell'attuale confine sulla costa Ligure fra Italia e Francia.
V. Via Domitiana: si separava dalla Via Appia a Sinuessa (Mondragone) e giungeva fino a  Neapolis.
VI. Via Popilia-Annia: altro proseguimento della via Flaminia, verso Nord-Est: partiva da Ariminum passando per Rabenna, Atria (Adria), Patavium (Padova), Altinum, Aquileia, Tergeste (Trieste).
VII. Via Latina: collegava l'Urbe direttamente con Capua passando per Anagnia, Frusino, Casinum.
VIII. Via Flaminia: univa Roma con Ariminium (Rimini), toccando Fanum Fortunae (Fano) e Pisuarum.
IX. Via Salaria: prende il nome dalla materia prima (il sale) che per secoli fu trasportata lungo il suo tracciato. Essa partiva da Roma e giungeva fino Castrum Truentinum (Porto d’Ascoli), passando per  Reate e Asculum.
X. Via Postumia: passando per la Pianura Padana univa  Genua con Aquileia, attraversando Cremona, Verona, Vicetia.
XI. Via Valeria: collegava l'Urbe Ostia Aterni (Pescara), passando per Tibur (Tivoli) e Teate Marrucinorum (Chieti).
XII. Via Cassia: congiungeva l'Urbe al Nord Italia, passando attraverso Arretium, Florentia, Pistoia, Luca.
XIII. Via Clodia: collegava  Roma a Saturnia.
Manto stradale sezionato che
mostra i vari strati di cui erano
costituite le strade romane. 
Nonostante le strade fossero ben lastricate, comunque in carro non era possibile andare troppo veloci, anche perché spesso erano tirati dai buoi, si preferivano se possibile i viaggi per mare, che si rivelavano più rapidi ma anche più pericolosi a causa delle frequenti tempeste. Le strade in epoca imperiale vennero sviluppate soprattutto per garantire un efficiente servizio postale e un rapido spostamento di messaggeri. Per facilitare ciò a intervalli regolari sorgevano stazioni per il cambio dei cavalli (mutationes) e locande per le soste notturne (mansiones), che erano attive per tutti anche per i Cittadini i quali all'interno trovavano dipinte sulle pareti delle vere e proprie guide stradali, chiamate "intineraria picta", con segnalati i punti di sosta tra un itinerario e l'altro, le città, le distanze e tutte le strade importanti. Di queste mappe non sono rimaste tracce, tuttavia esiste una copia d'epoca medioevale di eccezionale importanza, chiamata Tabula Peutingeriana, che ci da un'idea di come fossero strutturate, e quali nozioni geografiche avessero i Romani. Questa mappa, lunga sei metri e alta trenta centimetri rappresenta tutto il mondo conosciuto allora dai Romani dalle colonne d'Ercole fino all'estremo Oriente.
Roma nella tavola
Peutingeriana, copia medievale
di una antica carta Romana.
E' da notare, che nelle mappe antiche l'Oriente è posto verso l'alto, infatti nella foto della Tabula Peutingeriana qui a lato il tratto di terra orizzontale è l'Italia, e in alto c'è il Mare Adriatico mentre sotto c'è il Mar Tirreno, si notano inoltre Roma seduta sul trono, e Ostia al di sotto, con il porto. Secondo il Diritto romano, il transito sulle strade dell'Impero era libero, ma la manutenzione del manto stradale spettava agli abitanti della Provincia attraversata dalla strada, tuttavia con la riforma del governo iniziata dall'Imperatore Augusto, la gestione fu affidata al Curator Viarum che dava l'ordine, o la concessione, per la ristrutturazione o la costruzione della strada. Facendo una piccola osservazione si può ben notare come tutte le autostrade attuali in Europa seguano il percorso delle strade romane, conservandone talvolta il nome.
Le strade che i Romani hanno
edificato in Europa.
L'attuale termine strada deriva da viae strata cioè "via lastricata". Ogni strada romana, aveva una struttura ben precisa e si sviluppava in modo più o meno rettilineo. Originariamente le dimensioni delle strade erano sancite dalle XII Tavole: per esempio la larghezza media andava dai 4 ai 6 metri, potevano avere due marciapiedi (margines) laterali di 2/3 metri di larghezza circa o anche più. Avevano uno spessore che andava dai 90 ai 120 cm, ed erano formate da una massicciata di tre strati di pietre sempre più piccole, legate con malta (ciò per permettere una maggior resistenza e durata nel tempo), e dal piano stradale lastricato, costituito da uno strato di blocchi di pietra spianati e accostati. La costruzione iniziava con il scavare un "letto" tra due solchi, i quali ne delimitavano la larghezza, nel quale sarebbero stati posati i vari strati di pietre. Lo strato più basso, era composto da pietre molto grandi come sassi ed era detto statumen, il secondo chiamato rudus era formato da ciottoli di medie dimensioni, il terzo da ghiaia mista ad argilla detto nucleus, ed il quarto era il vero e proprio manto stradale chiamato pavimentum: esso era composto da lastre grosse e piatte adagiate in orizzontale, ma con una forma lievemente convessa per facilitare lo scolo delle acque piovane, verso le canalette di scolo, sempre presenti nelle vie cittadine. Se nelle strade dell'Impero regnava l'ordine quasi assoluto, non si poteva dire lo stesso dell'Urbe, dove al contrario le strade erano tutt'altro che ordinate e rettilinee. Questo è facilmente spiegabile dal fatto che Roma è nata e si è estesa senza dei piani urbanistici; questi infatti verranno ideati appena alla fine della Repubblica per opera di Giulio Cesare,  Ottaviano Augusto ed altri Imperatori. Quindi fatta eccezione per alcune vie principali, che sono rettilinee poiché penetrazioni urbane delle vie Consolari, molte altre strade sono strette e intricate e alcune addirittura senza marciapiedi. Tuttavia bisogna dire che i marciapiedi a Roma non erano necessari visto che per un decreto di Giulio Cesare, i carri (fatte alcune eccezioni) non potevano transitare in città di giorno ma solo la sera e la notte. L'Urbe era inoltre una città caotica e rumorosa soprattutto nelle zone centrali, dove c'erano i  mercati, i Fori e gli edifici pubblici più importanti.
Tra le opere più grandi e vistose lasciateci dai Romani, sicuramente ricordiamo gli imponenti acquedotti. Gli acquedotti vengono ideati a Roma nel IV sec. a.C. perché ormai la fornitura idrica dell'Urbe, che fino ad allora si affidava al Tevere o ai pozzi, non era più sufficiente. Roma si stava trasformando nella più grande metropoli di tutta l'Antichità e non solo, quindi si decise di costruire un' acquedotto che collegasse una sorgente e portasse l'acqua fresca in città, il primo fu l'Aqua Appia costruito nel 312 a.C. per volere dell'omonimo Console Appio Claudio, lo stesso che diede il nome alla celeberrima via. Con il passare degli anni ne vennero costruiti altri di maggior portata. In totale c'erano ventiquattro acquedotti, che trasportavano ogni giorno nell'Urbe oltre 1 milione di metri cubi d'acqua percorrendo in totale oltre 400 Km di condutture.
Se oggi possediamo molte informazioni sugli acquedotti e l'edilizia idraulica lo dobbiamo all'opera del Curator Aquarum Sesto Giulio Frontino, contemporaneo dell'Imperatore Nerva, il quale scrisse un libro, il De aqueductu Urbis Romae (letteralmente Sugli acquedotti della Città di Roma),  nel quale spiega i metodi di costruzione, i materiali edili, ma anche nomi e percorsi delle condutture idriche, l'ubicazione delle sorgenti e molto altro. Dalla prosa ricca di tecnicismi di Frontino traspare la consapevolezza e l'orgoglio che porta lo scrittore, cives romanus, a compiacersi della mole degli acquedotti, sostenuti per chilometri da imponenti arcate, e a sorridere, con un certo disprezzo, delle piramidi egiziane ed ai templi greci, opere famose ma inutili. Dietro la costruzione di un acquedotto stanno tutta una serie di problematiche, che gli ingegneri Romani hanno saputo perfettamente risolvere. Per esempio la forza motrice dell'acqua. L'acqua non si sposta da sola! E' necessario un "motore", e i Romani ne trovarono uno veramente "autonomo" cioè la forza di gravità. Gli ingegneri avevano intuito che sarebbe stato sufficiente dare una certa pendenza all'acquedotto e mantenerla per tutto il tragitto, e poi la forza di gravità avrebbe fatto tutto il resto, così capirono che un'inclinazione del 25%, in media un metro di pendenza ogni chilometro, avrebbe fatto scorrere l'acqua senza problemi fino alla città. Era inoltre necessario saper scegliere la sorgente giusta, in modo da fare defluire una giusta quantità d'acqua tutto l'anno senza periodi di secca e periodi di piena.
La struttura degli
acquedotti romani
sopraelevati.
Una volta scelta la sorgente adeguata, si stabiliva il percorso che l'aqueductus avrebbe compiuto per arrivare in città, per fare ciò si tracciava un profilo della geografia del terreno segnando coline e avvallamenti, pianure e corsi d'acqua. Per questo lavoro i tecnici adoperavano uno strumento di legno simile all'attuale livella, ma di dimensioni assai più grandi: il coròbate. Questo poteva dirsi in esatta posizione orizzontale quando i fili a piombo attaccati al suo ripiano di legno pendevano parallelamente alle gambe e quando l'acqua che colmava una vaschetta scavata sul ripiano non debordava. guardando attraverso il coròbate i tipografi potevano tracciare un'immaginaria linea orizzontale che seguiva tutto il percorso dell'acquedotto e segnare su questa linea, a intervalli di 10 metri, le distanze verticali tra essa e il terreno. Unendo tutti i segni presi con una linea si otteneva il vero profilo del terreno e gli ingegneri stabilivano se appoggiare le condotte al livello del suolo, se farle passare sotto, oppure elevarle di alcuni metri. A questo punto si procedeva alla sua edificazione. Spesso per la necessità di mantenere una pendenza costante le condotte facevano percorsi molto lunghi con molte curve, e non andavano mai in linea retta, in tal modo l'acqua defluiva senza problemi fino alla "foce artificiale", che quasi sempre era costituita da una grossa cisterna. 
Il percorso dell'acquedotto era per la maggior parte interrato o talvolta scavato sotto colline e montagne; in questo caso la condotta era formata solo da una struttura di laterizio parallelepipeidale impermeabilizzata e areata con dei pozzetti posti ogni 20-30 metri, usati anche per la manutenzione periodica. Solo talvolta la conduttura doveva superare fiumi o pianure  ed era quindi necessario costruire una struttura di sostegno (aquae pensiles). Uno degli esempi più famosi è il ponte-acquedotto sul fiume Gard nell'attuale Francia, che riforniva la città di Nemasus l'odierna Nimes. 
Francia, ponte di acquedotto romano sul fiume
Gard, che riforniva di acqua la città di Nemasus,
l'odierna Nimes.
La realizzazione iniziava con l'edificazione delle fondamenta dei pilastri: se passavano sulla terra si scavava una buca profonda vari metri e si costruiva una solida base a tronco di piramide con grossi blocchi di pietra. Se invece si trattava di un fiume era necessario preparare un recinto di legno impermeabilizzato con la pece tutto intorno all'area della costruzione di ogni singolo pilastro: in tal modo si poteva asportare prima l'acqua, poi la fanghiglia e la ghiaia per poter edificare una solida base di grossi blocchi di pietra. Fatto ciò iniziava la costruzione dei piloni veri e propri. Questi potevano essere sia di pietra che di laterizio, e venivano sovrapposti tra loro alternati e uniti con malta. Solo a questo punto si univano i pilastri con gli archi i quali si costruivano utilizzando delle strutture di sostegno di legno dette centine che permettevano la collocazione dei conci fino alla chiusura della "chiave di volta". Costruita la prima arcata si procedeva all'edificazione delle altre arcate che poggiavano sempre sugli stessi pilastri, all'ultimo piano sorgeva in laterizio la vera e propria condotta dell'acquedotto. Una città come Roma con il suo milione e mezzo di abitanti doveva essere ben rifornita di acqua, anche perché questa non serviva solo direttamente ai suoi Cittadini ma anche ai complessi termali, i quali sembra consumassero molta acqua. Roma si avvaleva di undici acquedotti costruiti in varie epoche a partire dal II sec. a.C. e che rimasero sempre tutti in funzione, e che nel complesso portavano nell'Urbe oltre un milione di metri cubi di acqua al giorno.

I. Aqua Appia - Fu il primo acquedotto di Roma, edificato nel 312 a.C. dal Console Appio Claudio Cieco, lo stesso che fece costruire la Via Appia. Le sorgenti sono situate sulla via Collatina ed è lungo ben 16 Km, anche se il suo percorso è quasi del tutto sotterraneo, e giungeva fino al foro boario.
II. Aqua Ania o Anio Vetus - Lungo oltre 63 km, prende il suo nome dalla valle dell'Aniene presso Tivoli, le sue acque giungevano fino alle Terme di Diocleziano, mentre una ramificazione secondaria giungeva erogava l'acqua necessaria alle terme di Caracalla.
III. Acqua Marcia - Il nome deriva dal Pretore M. R. Marcius, e fu edificato nel 114 a.C. La sorgente era situata presso Marano Equo
IV. Acqua Tepula - Costruito nel 126 a.C. prendeva le acque dalla Valle Preziosa scorrendo esclusivamente in condotte sotterranee. Il suo nome deriva dl fatto che la temperatura dell'acqua rimaneva sempre sui 18 gradi circa.
V. Acqua Iiulia - Edificato nel 33 a.C. da Marco Vipsanio Agrippa, convogliava le acque dalle sorgenti nelle vicinanze di Grottaferrata.
VI. Acqua Vergine - Fu costruito sempre da Agrippa verso il 19 a.C. convogliando le acque ubicate presso la tenuta della Rustica. E' tuttora perfettamente funzionate.
Alcune derivazioni dall'acquedotto giungevano presso il Campidoglio e Trastevere.
VII. Aqua Augusta - Costruito per volere dell'Imperatore Augusto nel 2 d.C., serviva a portare l'acqua a Trastevere ove si tenevano le naumachie (o battaglie navali) in un lago artificiale.
VIII. Aqua Claudia - Iniziato dall'Imperatore Claudio nel 38 d.C. ma terminato da Caligola è uno dei più imponenti. Le sue sorgenti erano ubicate presso la Valle dell'Aniene, e portava le sue acque fino a Porta Maggiore ove una diramazione giungeva presso il Palazzo e riforniva l' area circostante al Colle Palatino.
IX. Aqua Ania Nova o Anio Novus - Costruito per volere di Caligola ma terminato dall'Imperatore Claudio nel 52 d.C. circa prendeva l'acqua dal Fiume Aniene, con la sua lunghezza di oltre 84 Km è l'aquedotto più grande del mondo.
X. Aqua Traiana - Voluto dall'Imperatore Traiano nel 109 d.C. circa convogliava le acque del lago Sabatino nella zona di Trastevere.
XI. Aqua S. Severa - Fu edificato dall'Imperatore Settimio Severo nel 226 d.C.

I Romani inventano tra le altre cose la calcee una variante di essa detta idrica poiché resisteva all'acqua ed era utilizzata nelle cisterne o negli acquedotti appunto per impermeabilizzare, è tuttora utilizzata.
Con questa invenzione rivoluzionarono le tecniche costruttive utilizzate fino a quel momento, che prevedevano l'utilizzo di blocchi di pietra sovrapposti a incastro, per utilizzare invece mattoni di terracotta e calce, a cui era mischiata la pozzolana, una calce lavica di origine vulcanica che conferiva estrema durezza e resistenza al calcestruzzo così ottenuto. 
Inoltre, con la tecnica degli archi, poco materiale poteva sostenere grandi pesi e giungere a grandi altezze. In quei tempi le case di Roma avevano diversi piani, generalmente così non era per le altre città.
Percorsi di Pirro nella penisola
italica, da QUI.

Intorno al 310 a.C. le legioni erano dunque 4, fino a giungere, durante le guerre annibaliche a 28. La mobilitazione, il congedo, la ripartizione delle legioni erano ogni anno stabiliti dal senato. Ancora all’epoca di Polibio era ritenuto normale il numero di 4.200 fanti per legione; in seguito salì a 5.000 per assestarsi al tempo di Mario (157-86 a.C.) a 6.000.

A partire dalle guerre pirriche (280 a.C. - 275 a.C.) furono mossi i primi importanti assedi ad opera dei Romani, tra cui l'assedio di Lilibeo, che comportò per la prima volta l'attuazione di tecniche d'assedio  complesse

Cartina della penisola italica nel
272 a.C. con l'estensione dei
territori della Repubblica di
Roma in rosso, i limiti a nord
dei fiumi Magra e Rubicone.
 In blu i territori controllati
da Cartagine.
A ROMA nella MEDIA età REPUBBLICANA (264-146 a.C.) - Nella sistemazione territoriale definitiva delle tribù romane sul suolo italico, si arrivò a 35 tribù, di cui 4 urbane e 31 rustiche.
L'importanza che nell'andare del  tempo assunsero i comizi (o concilia plebistributi, nei quali erano unità votanti le 35 tribù, fece sentire l'opportunità di stabilire fra tribù e centurie una corrispondenza. Della riforma, probabilmente attuata nel 241 a.C. dai censori C. Aurelio Cotta e M. Fabio Buteone, le fonti indicano soltanto certe direttive fondamentali: adeguamento del numero delle centurie a quello delle tribù, conservata separazione fra seniores e iuniores e diminuzione del privilegio dei più abbienti.  

Nella prima fase della repubblica romana l'esercito aveva continuato ad evolversi e, sebbene tra i romani vi fosse la tendenza ad attribuire tali cambiamenti a grandi riformatori, è più probabile che i cambiamenti fossero il prodotto di una lenta evoluzione piuttosto che di singole e deliberate politiche di riforma. 

Secondo il militare e storico greco Polibio (206 - 118 a.C.), l'adozione della formazione manipolare nella legione romana era stata probabilmente copiata da quella adottata dai Sanniti, quando avevano sconfitto i romani, nei loro territori a sud di Roma, durante la Seconda guerra sannitica. Non a caso Polibio scriveva dei Romani: «I Romani, quando vennero a conoscenza di [determinate] armi [e tattiche], subito le imitarono, perché più di qualsiasi altro popolo sono capaci di cambiare abitudini e di puntare al meglio.» (Polibio, VI, 25.11.)

I cittadini romani erano obbligati a prestare servizio militare, entro il quarantaseiesimo anno di età, per almeno 10 anni per i cavalieri e 16 anni per i fanti (o anche 20 in caso di pericolo straordinario). 

Il cursus honorum prevedeva che nessuno potesse intraprendere la carriera politica senza aver prestato almeno 10 anni di servizio militare.

Erano esclusi dal servizio militare legionario coloro che avevano un censo inferiore alle 400 dracme (paragonabili a 4.000 assi secondo il Gabba, quindi molto meno del censo minimo del valore di 11.000 assi della prima età repubblicana) anche se venivano poi impiegati nel servizio navale.


Ogni legione era formata da 4.200 fanti (portati fino a 5.000, in caso di massimo pericolo) e da 300 cavalieri.

I 300 cavalieri erano divisi in dieci squadroni di trenta elementi (turmae), a capo di ognuno dei quali erano posti tre comandanti. Il primo ufficiale comandava lo squadrone di trenta elementi, mentre gli altri due svolgevano la funzione di decadarchi, e tutti e tre erano chiamati decurioni. In caso di assenza del più alto in grado, gli succedeva il secondo e poi il terzo. L'armatura dei cavalieri era simile a quella dei Greci, mentre lo scudo di pelle di bue (di scarsa consistenza), fu abbandonato a vantaggio di quello greco (oplon), assai più solido e saldo, utile sia contro attacchi da lontano, sia contro assalti da vicino. La lancia, che in tempi più antichi era sottile e fragile, quindi di scarsa utilità poiché spesso si spezzava, fu sostituita con una di tipo greco, robusta e rigida, col puntale in entrambi gli estremi. 

Nell'esercito Romano i contingenti di cavalleria più numerosi erano formati dalle unità alleate dei socii italici (ovvero le Alae, poiché erano poste alle "ali" dello schieramento della legione), costituite dallo stesso numero  di fanti della legione ma superiori di tre volte nei cavalieri (900 per unità). 


La tattica delle legioni utilizzata in epoca repubblicana, prevedeva una o più possibili fasi di interdizione della fanteria leggera, i Velites, quindi il lancio congiunto dei pilum dalla prima fila di Hastati per arrestare l'impeto dell'assalto nemico e poi procedere con il gladio in pugno. L'utilizzo delle seconde e terze file di Principes e Triarii avveniva solo se l'ordine precedente rompeva i ranghi. In quel caso i Triarii, dopo aver accolto Hastati e Principes tra le loro file, serravano le file ed in un'unica ininterrotta schiera e si gettavano sul nemico.

manipoli, composti da due centurie, per un totale di 120 soldati di fanteria pesante della medesima classe, risultavano abbastanza mobili sul campo di battaglia per permettere rapidi cambiamenti tattici delle singole unità di fanteria pesante nel contesto dello schieramento della legione. La fanteria era sempre coperta ai fianchi da unità di cavalleria e disponeva di avanguardie di fanti leggeri, che davano inizio alla battaglia disturbando il nemico con dardi o giavellotti sul nemico, per poi ritirarsi al sicuro. Mentre le prime linee dei manipoli impegnavano continuativamente il nemico, grazie al rapido movimento ad arretrare della prima linea, subito sostituita da quelle che gli stavano dietro, la cavalleria poteva tentare, inoltre, manovre evasive o accerchiamenti. 

Le unità alleate di socii (ovvero le Alae, poiché erano poste alle "ali" dello schieramento) erano costituite, invece di un numero pari di fanti, ma superiori di tre volte nei cavalieri (900 per unità). Sappiamo inoltre, sempre da Polibio, che se ai cavalieri romani erano date razioni mensili per sette medimni di orzo e due di grano (che il questore detraeva poi dallo stipendium), agli alleati (socii) invece erano dati gratuitamente un medimno e un terzo di frumento e cinque di orzo al mese, considerando che 1 medimno equivaleva a 52 kg.

Fondamentale novità del periodo relativo alla legione manipolare, dovendosi condurre campagne militari sempre più lontane dalla città di Roma, vide il proprio gruppo di genieri costretti a trovare nuove soluzioni difensive adatte al pernottamento in territori spesso ostili. Ciò indusse i Romani a creare, sembra a partire dalle guerre pirriche, un primo esempio di accampamento militare da marcia fortificato, per proteggere le armate romane al suo interno. 

Altro apporto del genio fu la costruzione di strade militari, utilizzate inizialmente per migliorare e velocizzare gli spostamenti delle armate ed in seguito dalla stessa popolazione civile dopo che l'area era stata pacificata.

Lo schieramento in battaglia dell'esercito consolare (secondo Polibio, nel III secolo a.C.), prevedeva al centro le legioni con i manipoli disposti a scacchiera e sui fianchi le ali di cavalleria legionaria e degli alleati italici (le Alae Sociorum). La fanteria al centro era sempre coperta ai fianchi da unità di cavalleria e disponeva di avanguardie di fanti leggeri, che davano inizio alla battaglia disturbando il nemico con dardi o giavellotti sul nemico, per poi ritirarsi al sicuro. I Triarii, dopo aver accolto Hastati e Principes tra le loro file, serravano le file ed in un'unica ininterrotta schiera si gettavano sul nemico.
Mentre la prima linea centrale impegnava il nemico, grazie al rapido movimento ad arretrare dei manipoli, la cavalleria poteva tentare, inoltre, manovre evasive o accerchiamenti.

Nell'epoca classica, la cavalleria romana è attribuita alle legioni (ciò non escludeva però che sul campo di battaglia essa venisse riunita in una o due masse sulle ali) e secondo la proporzione tradizionale di 1 a 10, cioè 300 cavalieri per i 3000 fanti in linea della legione. L'armamento dei cavalieri, pesante nell'epoca regia, s'era venuto prima alleggerendo, e Polibio (VI, 25, 3 seg.; passo molto discusso) dice che la cavalleria romana più antica (III sec.?) non portava corazza ma un cinturone, due aste leggiere e senza σαυρωτήρ (punta al calcio della lancia) che servivano poco e si spezzavano facilmente, scudo leggero ovale e concavo di pelle di bue che si guastava con la pioggia e non assicurava una sufficiente protezione. Perciò la cavalleria romana all'età di Polibio aveva da tempo adottato un armamento regolamentare di tipo greco, che consisteva nell'elmo (cassis), di solito di tipo italico, corazza corta con gonnellino, di cuoio solo o con sopra una cotta di maglia metallica o a squame (lorica) o di maglia e squame combinate in varia forma, e scudo leggiero ovale di legno, cuoio e metallo (scutum equestre); armi offensive: una sola lancia con sauroter (dal greco antico "uccisore di lucertole", il tallone in metallo dell'asta) come l'hasta o la tragula e la spada che fu poi la iberica, portata a sinistra. I cavalieri ricevevano triplo soldo del fante, cioè un denaro al giorno, e tripla razione, ed erano dispensati dai lavori dell'accampamento, nel quale avevano invece per turno l'ispezione ai posti di guardia. Ma la cavalleria cittadina romana cominciò molto per tempo (già dalla fine del sec. III) a decadere come arma combattente. Molti degli equites prestavano servizio come magistrati o come ufficiali superiori e gli altri provavano una crescente riluttanza a servire nella truppa degli squadroni; gli equites si trasformarono così in una classe che, quando prestava servizio, esigeva di prestarlo come ufficiale. Il governo romano non tentò rimedî a questa trasformazione della cavalleria cittadina, che aveva cause profonde d'ordine politico e sociale, e provvide alla cavalleria degli eserciti ricorrendo sempre più largamente agli alleati e agli ausiliarî stranieri. Al tempo di Polibio, mentre il contingente di fanteria degli alleati era all'incirca pari o di poco superiore alla fanteria della legioni romane, quello della cavalleria era il triplo (Polib., VI, 26, 7); cioè per un esercito di due legioni sei alae di 300 cavalli comandate da ufficiali romani.


Il titolo di "Cavaliere" era un titolo personale, come ad esempio "Senatore", che sottintendeva  funzioni militari ma poteva anche prevedere compiti civico-politici. Così come i senatore dovevano disporre di cospicui capitali, anche la funzione di cavaliere, in generale, richiedeva un patrimonio consistente, di almeno 400.000 sesterzi, pari a circa 800.000 €. Ma i soldi non bastavano, occorreva una buona prestanza fisica, saper addestrare un cavallo, saperlo cavalcare e aver militato nell'esercito per almeno 10 anni, un vero cursus honorum. Anche se generalmente la cavalleria era appannaggio degli aristocratici, non c'erano reali restrizioni di provenienza familiare o stato sociale, tutti i soldati potevano diventare Cavalieri, e un legionario con 10 anni di servizio, poteva aver accumulato, coi bottini di guerra la ricchezza necessaria per il ceto dei Cavalieri.
Le guerre infatti potevano procurare grandi ricchezze per i bottini distribuiti tra i soldati, per cui tra i Cavalieri c'erano proprietari fondiari, finanzieri, commercianti, pubblicani (cioè esattori delle tasse nelle province), procuratores (cioè amministratori), nonché storici e avvocati, ai più alti livelli dello stato.

Da epoca remota, probabilmente dal tempo dell'introduzione dell'ordinamento timocratico, la  cavalleria romana è permanente, nel senso che lo stato assicura il reclutamento della cavalleria corrispondendo a un numero fisso di cittadini (nell'epoca storica 1.800) un'indennità per l'acquisto di uno o due cavalli (aes equestre) e per il foraggio (aes hordiarium); si riconoscono cioè le speciali esigenze di  addestramento e di allenamento che richiede il servizio a cavallo. La scelta dei cavalieri era fatta dai magistrati supremi, re e consoli nel tempo più antico, dai censori dopo l'istituzione di questa carica; e alle stesse persone spettava la rassegna periodica della cavalleria per accertarsi delle attitudini militari dei cavalieri e della tenuta delle cavalcature e delle armi. Lo stato si riservò tuttavia il diritto, almeno da una certa epoca, d'imporre il servizio a cavallo anche a coloro che, pur non godendo dell'assegno equestre, possedessero però un determinato patrimonio, che gli mettesse di provvedere con mezzi propri al reperimento di cavalli da guerra. Così si fissò per tempo il cosiddetto "censo equestre" e a questi cavalieri si ricorreva quando non fossero stati sufficienti  gli equites equo publico.

In merito all'armamento dei cavalieri, Polibio precisava che, nel passato: «Anche le lance non erano di alcuna utilità, principalmente per due motivi: prima di tutto, essendo sottili e fragili, non erano minimamente in grado di raggiungere il bersaglio e prima che la punta provasse a conficcarsi in qualcosa, spesso si spezzava a causa della vibrazione generata dal movimento del cavallo; [in secondo luogo], poiché erano costruite senza il puntale inferiore, potevano colpire di punta solo la prima volta, poi si spezzavano e non erano più utilizzabili.» (Polibio, VI, 25.5-6.). Riguardo invece allo scudo, Polibio scrive: «Portavano uno scudo di pelle di bue [...], ma non era possibile servirsene contro gli attacchi nemici, perché non era sufficientemente consistente e, quando la pelle esterna che lo ricopriva veniva a mancare, in caso di pioggia si infradiciava e diventava totalmente inservibile.» (Polibio, VI, 25.7.).
Questi i motivi per cui, sempre per lo storico greco, questo genere di armamento fu in seguito sostituito (almeno a partire dalle guerre puniche) con quello di tipo greco, consistente in un elmo, uno scudo  rotondo (il clipeus, che in latino indicava il grande scudo cavo dell'oplita greco) in bronzo, una lancia leggera e una spada

Polibio, nel suo VI libro delle Storie, descrive inoltre il fatto che, almeno al principio della seconda guerra punica (218-202 a.C.), i cittadini romani erano obbligati a prestare servizio  militare entro il quarantaseiesimo anno di età, per almeno 10 anni i cavalieri e 16 anni per i fanti (o anche 20 in caso di pericolo straordinario).

Al tempo delle guerre puniche, la paga per i legionari era fissata a 2 oboli al giorno, ovvero un terzo di dracma. 
La dracma è stata la prima moneta d'argento battuta dall'antica Roma, nel corso del III secolo a.C.
È difficile attribuire un valore a questa moneta che sia comparabile con le valute attuali, a causa delle profonde differenze tra le economie. Gli storici classici affermano regolarmente che tra la fine della Repubblica romana e gli inizi dell'Impero romano, il salario giornaliero di un operaio era di una dracma, e 1 dracma = 6 oboli.
In aggiunta, ogni fante aveva diritto ad una quota del bottino di guerra (animali, tesori, armi e altri beni) oltre a una quota dei ricavi sulla vendita come schiavi dei prigionieri. I centurioni ricevevano il doppio della paga dei propri uomini, vale a dire 4 oboli ovvero due-terzi di una dracma al giorno. Quanto alla razione di viveri, ai fanti erano distribuiti circa due terzi di un medimno attico di grano al mese. Nell'Attica, un medimno (che corrispondeva a 192 cotili), era pari a circa 51,84 litri.

Sappiamo inoltre, da Polibio, che se la paga distribuita ai cavalieri romani era di una dracma al giorno, tre volte di quanto prendeva un fante, le razioni mensili erano di sette medimni di orzo e due di grano. Agli alleati (socii) invece erano dati gratuitamente un medimno ed un terzo di frumento, oltre a cinque medimni di orzo al mese. Mentre agli alleati i viveri venivano assegnati gratis, ai Romani invece, il questore detraeva dallo stipendium il prezzo stabilito per il grano, il vestiario e per ogni arma di cui avessero bisogno.

Dopo il 211 a.C., lo stipendio dei legionari per una campagna militare, ammontava a un denario, che equivaleva a quattro sesterzi e nel I secolo d.C. 1 denario valeva all'incirca 8 €.

La legione manipolare al principio della seconda guerra punica, secondo Polibio, veniva generalmente schierata su tre file, dette triplex acies, alle  quali si aggiungevano i fanti leggeri, detti leves, per un totale che variava tra i 4.200 e i 5.000 effettivi a seconda del periodo: costituita da quindici manipoli di Hastati, da quindici manipoli di Principes e quindici unità formate da un manipolo di Triarii, uno di Rorarii e l'ultimo di Accensi. Questa differenziazione esisteva, oltre che sulla base dell'esperienza dei soldati, anche sulla base del censo, tanto che ogni soldato era tenuto a provvedere autonomamente all'equipaggiamento.

Il comando della legione era affidato al legatus, un magistrato facente le veci dei consoli nel comando di una specifica legione. Secondo nella gerarchia era un tribuno esperto, il tribuno laticlavio (in latino: tribunus laticlavius), affiancato da altri cinque tribuni angusticlavi (dal latino angustum, «più stretto, in riferimento alla striscia purpurea ridotta degli equestri»). In assenza di tribuni, il comando era affidato al praefectus castrorum.

Il numero delle legioni raggiunse, durante le guerre annibaliche, il numero di 28

Annibale Barca
(Barca in cartaginese
significava Folgore).
Durante la seconda guerra punica (218-202 a.C.), la grande capacità tattica di Annibale aveva messo in crisi l'esercito romano. Le sue manovre imprevedibili, repentine, affidate soprattutto  alle ali di  cavalleria cartaginese e numidica, avevano distrutto numerosi eserciti romani anche se superiori di numero, come era avvenuto soprattutto nella battaglia di Canne, dove perirono 50.000 Romani. 

La battaglia di Canne del 2 agosto del 216 a.C., è stata una delle principali battaglie della seconda guerra punica ed ebbe luogo in prossimità della città di Canne, nell'antica Apulia (Puglia odierna). L'esercito di Cartagine, comandato con estrema abilità da Annibale, accerchiò e distrusse quasi completamente un esercito numericamente superiore della Repubblica romana, guidato dai consoli Lucio Emilio Paolo e Gaio Terenzio Varrone. È stata, in termini di caduti in combattimento, una delle più pesanti sconfitte subite da Roma, seconda solo alla battaglia di Arausio del 105 a.C., ed è considerata come una delle più grandi manovre tattiche della storia militare.

Ci sono tre resoconti principali della battaglia, nessuno di loro contemporaneo ad essa. Il più vicino è quello di Polibio, scritto 50 anni dopo la battaglia. Tito Livio ha scritto il proprio al tempo di Augusto, e Appiano di Alessandria ancora più tardi. Il resoconto di Appiano descrive eventi che non hanno alcuna relazione con quelli di Tito Livio e di Polibio. Polibio ritrae la battaglia come il nadir finale di fortuna romana, fungendo da espediente letterario in modo tale che la successiva ripresa romana fosse più drammatica. Ad esempio, alcuni sostengono che i suoi dati sulle vittime siano esagerati, "più simbolici che reali". Gli studiosi tendono a sottovalutare il resoconto di Appiano. Il giudizio di Philip Sabin "una farragine senza valore", è tipico.

Polibio narra che Annibale, ancor prima dell'arrivo dei nuovi consoli, mosse con le sue truppe da Geronio e, giudicando vantaggioso costringere i nemici a combattere a ogni costo, si impadronì della rocca della città di nome Canne, in una posizione strategica rispetto a tutto il territorio circostante. In questa i Romani avevano raccolto il grano e gli altri vettovagliamenti dal territorio di Canusio, e da qui li portavano nell'accampamento romano presso Geronio a mano a mano che se ne presentava il bisogno. Secondo i vari scrittori di epoca imperiale (secoli I-II d.C.), la rocca di Canne era situata nella Regio II Apulia et Calabria, presso il fiume Aufidus (l'odierno Ofanto); Annibale così si mise tra i Romani e le loro fonti principali di approvvigionamento. Come fa notare Polibio, la cattura di Canne «ha causato grande scompiglio nell'esercito romano, perché non è stata solo la perdita del posto e delle scorte in essa che li angosciava, ma il fatto che essa dominava il distretto circostante».I nuovi consoli, dopo aver deciso di affrontare Annibale, marciarono verso sud alla ricerca del generale cartaginese.

Riorganizzatisi dopo le precedenti sconfitte nelle battaglie della Trebbia (218 a.C.) e del lago Trasimeno (217 a.C.), i Romani avrebbero deciso di affrontare Annibale a Canne, con 8 legioni, circa 86.000 tra soldati romani e truppe alleate. Tuttavia, alcuni autori hanno suggerito che la distruzione di un esercito di 90.000 uomini sarebbe stata impossibile e sostengono che Roma abbia messo in campo probabilmente 48.000 fanti e 6.000 cavalieri contro i 35.000 fanti e i 10.000 cavalieri di Annibale. Anche se non esiste alcun numero definitivo delle truppe romane, tutte le fonti concordano sul fatto che l'esercito cartaginese affrontò un esercito avversario avente una grande superiorità numerica. Le legioni romane avevano due terzi degli effettivi costituiti da reclute, i cosiddetti tirones, ma c'erano almeno due legioni formate da legionari esperti e preparati, provenienti dall'esercito del console del 218 a.C., Publio Cornelio Scipione.

«Il Senato decise di mettere in campo otto legioni, il che non era mai stato fatto prima a Roma, ogni legione composta da 5.000 uomini, oltre agli alleati. [...] I Romani combattono la maggior parte delle loro guerre con due legioni al comando di un console, con i loro contingenti di alleati, e raramente utilizzano tutte e quattro le legioni in una sola volta e per un solo compito. Ma in questa occasione, tanto grande era l'allarme e il terrore di ciò che sarebbe potuto accadere, che decisero di mettere in campo non solo quattro, ma otto legioni.» (Polibio, Storie III, 107.9-11[16])

«Affermano alcuni che per reintegrare le perdite si arruolarono diecimila nuovi soldati; altri parlano di quattro legioni nuove, per affrontare la guerra con otto legioni; e si dice pure che le legioni furono accresciute di forze, tanto di fanti quanto di cavalieri, aggiungendo a ciascuna circa mille fanti e cento cavalieri, così che risultassero di cinquemila fanti e di trecento cavalieri, e che gli alleati diedero un numero doppio di cavalieri ed egual numero di fanti.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri (testo latino) XXII, 36)

L'esercito cartaginese era composto da circa 10.000 cavalieri, 40.000 soldati della fanteria pesante e 6.000 della fanteria leggera sul campo di battaglia, esclusi i distaccamenti. L'esercito cartaginese era una combinazione di guerrieri reclutati in differenti aree geografiche. C'erano 22.000 fanti iberici e celti fiancheggiati da due corpi di fanteria pesante africana in riserva tattica, costituiti complessivamente da 10.000 libici. Anche la cavalleria proveniva da regioni diverse. Annibale disponeva di una cavalleria composta da 4.000 numidi, 2.000 iberici, 4.000 galli e 450 libici-fenici. Infine, Annibale aveva circa 8.000 guerrieri della fanteria leggera fra frombolieri delle Isole Baleari e lancieri di nazionalità mista. Ognuno di questi gruppi diversi di guerrieri apportava le sue specifiche qualità militari allo schieramento cartaginese. Il fattore unificante nell'esercito cartaginese era il forte legame di lealtà e fiducia che ciascun gruppo aveva con Annibale. Anche se normalmente i Cartaginesi schieravano elefanti nelle battaglie per terrorizzare i cavalli nemici e scompaginare la fanteria, nella battaglia di Canne non era presente alcun elefante, in quanto nessuno di quelli che erano partiti dall'Iberia e che riuscirono a valicare le Alpi era sopravvissuto.

Se l'esercito romano non fosse stato così numeroso, ciascuno dei due consoli avrebbe comandato la propria parte dell'esercito, ma dal momento che i due eserciti erano stati concentrati insieme, la legge romana prevedeva di alternare il comando su base giornaliera. È possibile che Annibale avesse capito che al comando dell'esercito romano si alternavano i due consoli e avesse pianificato la sua strategia di conseguenza. Nel racconto tradizionale Varrone deteneva il comando il giorno della battaglia ed egli avrebbe deciso di affrontare il combattimento in campo aperto, nonostante il parere contrario di Emilio Paolo: gran parte della colpa per la sconfitta è stata attribuita dagli storici antichi all'avventatezza del console popolare. Tuttavia esistono controversie riguardanti chi fosse realmente al comando il giorno della battaglia, poiché secondo alcuni studiosi potrebbe essere stato Emilio Paolo il capo dell'esercito quel giorno.

La cronologia degli avvenimenti secondo il racconto di Polibio, è semplice e chiara: il primo giorno (27 luglio) i Romani partirono da Geronio verso la località dove si trovavano i Cartaginesi. Sotto il comando di Emilio Paolo, giunti il secondo giorno (28 luglio) in vista dei nemici, si accamparono alla distanza di circa cinquanta stadi (circa 9,25 km) dalle loro posizioni. Nella giornata successiva (29 luglio) tolsero il campo per ordine di Varrone e avanzarono verso i Cartaginesi, ma vennero attaccati da Annibale mentre erano in marcia. Varrone respinse con successo l'attacco cartaginese e al sopraggiungere della notte gli avversari si separarono. Questa vittoria, in realtà una semplice scaramuccia senza alcun valore strategico, rafforzò fortemente la fiducia dell'esercito romano e avrebbe anche rinsaldato la sicurezza e l'aggressività di Varrone.

Il giorno successivo (30 luglio), per ordine di Emilio Paolo, i Romani costruirono due accampamenti presso il fiume Aufido: il maggiore, occupato da due terzi delle forze, su una riva del fiume a ovest, e il minore, con un terzo delle forze, sull'altra riva a levante del guado. Lo scopo di questo secondo accampamento sarebbe stato quello di proteggere le azioni di foraggiamento dall'accampamento principale e di intralciare quelle del nemico.

Secondo Polibio, i due eserciti rimasero nelle rispettive posizioni per due giorni. Durante il secondo giorno (1º agosto), Annibale, consapevole che Emilio Paolo era in quel momento al comando dell'esercito romano, lasciò il suo accampamento e schierò l'esercito per la battaglia. Emilio Paolo, tuttavia, non volle entrare in combattimento. Dopo che il nemico ebbe rifiutato di entrare in battaglia, Annibale, riconoscendo l'importanza dell'acqua dell'Aufidus per le truppe romane, mandò i suoi cavalieri numidi verso l'accampamento romano più piccolo per infastidire il nemico e per danneggiare l'approvvigionamento d'acqua. A questa circostanza forse si collega lo stratagemma, non riportato da Polibio, che Annibale avrebbe intorbidito l'acqua per rovinare la salute dei Romani o, addirittura, vi avrebbe fatto gettare dentro dei cadaveri. Secondo Polibio, la cavalleria di Annibale cavalcò audacemente fino ai limiti dell'accampamento minore romano, causando confusione e la completa interruzione dell'approvvigionamento di acqua. L'unico motivo che trattenne i Romani dall'attraversare immediatamente il fiume e disporsi a battaglia sarebbe stato il fatto che quel giorno il comando supremo era in mano ad Emilio Paolo. Così, il giorno successivo, Varrone, senza aver consultato il collega, fece esporre il segnale di battaglia e fece attraversare il fiume alle truppe schierate, mentre Emilio Paolo lo seguiva, poiché non poteva non assecondare questa decisione.

Annibale, nonostante la netta superiorità numerica del nemico, era assolutamente desideroso di combattere e, a dispetto dei timori e dei dubbi manifestati da alcuni suoi subordinati, mostrò fiducia e imperturbabilità davanti all'imponente schieramento romano che si stava accuratamente posizionando di fronte alle sue truppe a est del fiume, dove era l'accampamento minore romano, la mattina del 2 agosto. Infatti, secondo quanto riferisce Plutarco, a un ufficiale cartaginese di nome Gisgo che, stupefatto, aveva evidenziato quanto fosse sterminato l'esercito romano, Annibale avrebbe risposto ironicamente: «Un'altra cosa che ti è sfuggita, Gisgo, è ancora più sorprendente: che anche se ci sono così tanti Romani, non ce n'è nemmeno uno tra loro che si chiami Gisgo».

I consoli Terenzio Varrone ed Emilio Paolo scelsero coscientemente di affrontare la battaglia a est del fiume Aufidus, schierando il loro enorme esercito a nord delle forze avversarie, con fronte a mezzogiorno e il fianco destro a contatto con il corso del fiume, e ritennero di poter minimizzare la superiorità della cavalleria nemica e l'abilità tattica di Annibale proprio grazie alla configurazione del terreno. Varrone e Paolo credevano che i legionari, numericamente superiori, avrebbero duramente pressato i Cartaginesi, fino a spingerli nel fiume dove, senza spazio di manovra, sarebbero morti nel panico. Tenendo presente che le due vittorie precedenti di Annibale erano state in gran parte decise dalla sua abilità e scaltrezza, Varrone e Paolo ricercarono un campo di battaglia scoperto e privo di insidie. Il campo di Canne sembrava corrispondere a questa esigenza, perché privo di luoghi dove nascondere truppe per compiere un agguato al nemico; inoltre, la presenza di alcune colline sul fianco sinistro dei Romani avrebbe dovuto impedire anche in questa zona le agili manovre della cavalleria numida ed evitare manovre di aggiramento in profondità.

Annibale non era preoccupato per la sua posizione vicina al fiume Aufidus; al contrario, questo fattore venne da lui utilizzato per favorire la sua strategia. A causa del fiume i Romani non avrebbero potuto effettuare una manovra a tenaglia intorno all'esercito cartaginese, in quanto uno dei fianchi dell'esercito di Annibale era schierato troppo vicino al fiume. I Romani erano intralciati sul loro fianco destro dal fiume Aufidus, e quindi il fianco sinistro era l'unica via praticabile di ripiegamento. Inoltre, le forze cartaginesi avrebbero manovrato in modo che i Romani avessero la faccia rivolta a sud. In tal modo il sole del mattino batteva l'una e l'altra parte, molto opportunamente, di fianco, e il vento a tergo dei Cartaginesi avrebbe alzato polvere contro le facce dei Romani. In ogni caso la straordinaria distribuzione dell'esercito effettuata da Annibale, basata sull'analisi del territorio e sulla sua comprensione delle capacità delle proprie truppe, si rivelò decisiva.

Prima fase della battaglia di
Canne, da https://best5.it/post
/le-5-sconfitte-peggiori
-dellimpero-romano/
.
La battaglia ebbe inizio con il confronto tra le fanterie leggere che precedette la vera battaglia campale tra il grosso dei due eserciti; vennero scagliati giavellotti, proiettili e frecce. Probabilmente in questa fase iniziale i Velites erano avvantaggiati dalla superiorità numerica e dalla maggiore precisione di tiro. Annibale decise di lanciare sin dall'inizio la cavalleria pesante comandata da Asdrubale contro la cavalleria romana, usando come protezione una grande nuvola di polvere che probabilmente si era creata, a causa della marcia degli eserciti e dello scontro iniziale tra fanterie leggere, al centro del campo di battaglia.

La cavalleria pesante ibero-celtica, schierata sul fianco sinistro attaccò quindi violentemente la cavalleria romana, impiegando una tattica inconsueta, ma ben preparata e non prevista dai Romani; Asdrubale ordinò una carica corpo a corpo. Polibio narra come i cavalieri ispanici e celti affrontarono la battaglia a piedi dopo essere scesi dai cavalli in quello che egli considera un metodo barbaro di combattere. I Romani, sorpresi dall'attacco, urtati e pressati dai nemici, schiacciati sia nelle prime linee sia in quelle più indietro dello schieramento, dovettero scendere dai loro cavalli, probabilmente anche per la difficoltà di controllarli e perché impossibilitati a manovrare in uno spazio troppo stretto. In tal modo uno scontro di cavalleria si trasformò in prevalenza in un combattimento tra cavalieri appiedati.

«L'ala sinistra della cavalleria gallica e ispanica si azzuffò con l'ala destra romana, non tuttavia in forma di combattimento equestre: bisognava infatti lottare frontalmente poiché non era presente attorno spazio per evoluzioni; da un lato le serravano le schiere dei fanti e dall'altro il fiume. Si urtarono dunque da entrambe le parti in linea di fronte; forzati a immobilità dalla calca i cavalli, i cavalieri si abbrancavano l'uno per gettar l'altro di sella. La battaglia era ormai divenuta prevalentemente pedestre; tuttavia si combatté più aspramente che a lungo, e i cavalieri romani, respinti, volsero in fuga.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri (testo latino), XXII, 47)

«Dopo dunque la disposizione di tutto il suo esercito in linea retta, prese le compagnie centrali degli Ispanici e dei Celti e avanzò con loro, mantenendo il resto della linea in contatto con queste compagnie, ma a poco a poco essi si staccarono, in modo tale da produrre una formazione a forma di mezzaluna, la linea delle compagnie fiancheggianti stava crescendo in sottigliezza poiché era stata prolungata, il suo scopo era quello di impiegare gli Africani come forza di riserva e di iniziare l'azione con gli Ispanici ed i Celti» (Polibio, Storie III, 113)

Si ritiene che lo scopo di questa formazione sia stato quello di rompere lo slancio in avanti della fanteria romana, e ritardare la sua avanzata prima di altri sviluppi autorizzati da Annibale per distribuire la sua fanteria africana nel modo più efficace. Detto questo, mentre la maggior parte degli storici ritengono che l'azione di Annibale sia stata deliberata, ci sono quelli che hanno chiamato questo racconto di fantasia, e sostengono che le azioni descritte rappresentino prima la curvatura naturale che si verifica quando un ampio fronte di fanteria marcia in avanti e poi (quando il senso della mezzaluna si invertì) la ritirata del centro cartaginese causata dall'azione scioccante di incontrare il centro della linea romana dove le forze erano grandemente concentrate.

Dopo la breve fase iniziale degli scontri tra i reparti di fanteria leggera, le legioni romane, guidate dai consolari Marco Minucio Rufo e Gneo Servilio Gemino, diedero inizio al loro massiccio attacco frontale da cui i consoli si attendevano risultati decisivi; in formazione serrata, protetti dai lunghi scudi affiancati, con i gladi pronti sulla mano destra, i legionari si avvicinarono metodicamente alla mezzaluna formata dalla fanteria ibero-gallica urtando inizialmente solo la punta dello schieramento avversario. Con i manipoli schierati in file profonde e i legionari più esperti presenti nelle prime linee e nelle zone centrali delle legioni, i Romani, oltre 55.000 soldati contro circa 20.000, esercitarono un urto irresistibile contro il sottile fronte nemico.

Sull'ala destra dell'esercito Cartaginese, i Numidi si impegnarono per agganciare e trattenere la cavalleria alleata ai Romani e la battaglia in questo settore si prolungò senza risultati decisivi. Dopo aver sconfitto la cavalleria romana, i cavalieri ispanici e gallici di Asdrubale accorsero in aiuto dei Numidi e la cavalleria alleata ai Romani venne sopraffatta e si disperse abbandonando il campo di battaglia. I Numidi li inseguirono fuori dal campo.

Seconda fase della battaglia di
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Tito Livio inserisce nella sua narrazione l'episodio di un inganno della cavalleria leggera cartaginese: «All'ala sinistra dei Romani, dove contro i Numidi stavano i cavalieri degli alleati, ardeva la battaglia [...] Circa cinquecento numidi, che oltre le solite armi e i giavellotti avevano gladii nascosti sotto le corazze, erano avanzati allontanandosi dai loro compagni fingendosi disertori, con gli scudi dietro le spalle; poi celermente erano scesi da cavallo, e, gettati ai piedi dei nemici gli scudi e i dardi, furono accolti in mezzo allo schieramento e, condotti nelle ultime file, ebbero l'ordine di fermarsi là dietro. Finché la battaglia non fu accesa da tutte le parti, stettero fermi; quando poi la lotta tenne occupati gli occhi e l'animo di tutti, allora, dato piglio agli scudi, che giacevano sparsi qua e là tra i mucchi degli uccisi, assalirono i soldati romani alle spalle, e, ferendoli alla schiena e tagliando loro i garetti, produssero grande strage, spavento e confusione anche maggiori.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri (testo latino), XXII, 48)

Mentre i Romani avanzavano, il vento dall'Est secondo Theodore Dodge o il Volturno da sud secondo Livio soffiava polvere nei loro volti e oscurava la loro visione. Mentre il vento non è stato un fattore importante, la polvere che entrambi gli eserciti crearono dovrebbe essere stato invece un fattore limitante per la vista. Anche se la polvere avesse reso la vista difficile, le truppe sarebbero state comunque in grado di vedere gli altri a distanza ravvicinata. La polvere, però, non era l'unico fattore psicologico coinvolto nella battaglia. Perché la posizione della battaglia era alquanto distante da entrambi gli accampamenti, entrambe le parti sono state costrette a combattere dopo un riposo notturno insufficiente. I Romani affrontarono un altro inconveniente causato dalla mancanza di una corretta idratazione a causa dell'attacco di Annibale contro l'accampamento romano durante il giorno precedente. Inoltre, il numero molto elevato di truppe provocò una straordinaria quantità di rumore di fondo. Tutti questi fattori psicologici resero la battaglia particolarmente difficile per i fanti.

Battaglia di Canne 216 a.C. - Distruzione dell'esercito romano

Dopo meno di un'ora di scontri corpo a corpo tra gli ibero-galli e le disciplinate legioni romane, imbattibili in uno scontro frontale per la coesione dello schieramento, la capacità dei centurioni e la superiorità dell'armamento, le linee cartaginesi iniziarono a ripiegare subendo numerose perdite. Annibale iniziò quindi il ritiro controllato dei suoi uomini nel debole centro del fronte. La mezzaluna delle truppe ispaniche e galliche si piegò verso l'interno, a mano a mano che i guerrieri si ritiravano. Conoscendo la superiorità dei legionari romani, Annibale aveva istruito la sua fanteria a ritirarsi volontariamente, creando così un semicerchio sempre più serrato intorno alle forze attaccanti romane. In questo modo, aveva trasformato la forza d'urto delle legioni romane, guidate anche dal console Emilio Paolo che era sopravvissuto allo scontro tra le cavallerie, in elemento di debolezza. Inoltre, mentre le prime file stavano avanzando gradualmente, la maggior parte delle truppe romane cominciò a perdere la coesione, in quanto esse cominciarono ad affollarsi in avanti per accelerare la prevista vittoria. Ben presto sotto la pressione delle linee successive lo schieramento delle legioni divenne ancor più serrato, massiccio e compresso, limitando gli spazi e la libertà di movimento dei legionari.

In questa fase critica Annibale e Magone riuscirono nel difficile compito di evitare un crollo totale delle forze ibero-galliche e a mantenere uno schieramento difensivo che, pur subendo pesanti perdite, non si frantumò ma riuscì a ripiegare lentamente conservando la coesione e permettendo al condottiero cartaginese di completare la sua audace manovra combinata sui fianchi e alle spalle della grande massa delle legioni in formazione serrata anche perché, premendo in avanti con la volontà di schiacciare al più presto le truppe ispaniche e galliche, i Romani avevano ignorato (forse a causa anche della polvere) le truppe africane che si trovavano non impegnate sulle estremità sporgenti della mezzaluna ormai rovesciata.

Terza fase della battaglia di
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Grazie alla manovra, sebbene la fanteria ibero-galla avesse subito perdite di oltre 5.000 uomini per la micidiale potenza d'urto frontale dei legionari romani, Annibale riuscì a guadagnare il tempo necessario alla cavalleria cartaginese per costringere alla fuga la cavalleria romana su entrambi i fianchi e per attaccare il centro romano nella parte posteriore. Inoltre fece in modo che i Romani esponessero pericolosamente i fianchi dove erano schierati i reparti meno esperti delle legioni romano-italiche.

La fanteria romana, ormai esposta su entrambi i fianchi a causa della disfatta della cavalleria, aveva quindi formato un cuneo spinto sempre più in profondità nel semicerchio cartaginese, avanzando in una breccia avente ai lati la fanteria africana. A questo punto, Annibale ordinò alla sua fanteria africana, che aveva addestrato a combattere in formazioni meno serrate, corpo a corpo con il gladio, rinunciando alle tattiche oplitiche, di girare verso l'interno e avanzare contro i fianchi del nemico, creando un accerchiamento delle legioni romane in uno dei primi esempi conosciuti di manovra a tenaglia.

Quando la cavalleria cartaginese attaccò i Romani alle spalle, ed i fanti africani li assalirono sui fianchi destro e sinistro, la fanteria romana in avanzata frontale fu costretta a fermarsi. Sui fianchi i legionari romani si trovarono in grave difficoltà e, sorpresi dalla comparsa della fanteria pesante africana, non riuscirono a contenere il nemico. Rifluendo indietro con gravi perdite questi reparti laterali andarono ad urtare le altre linee delle legioni, costringendole ad arrestarsi, accrescendo la confusione ed impedendo alla massa dei legionari di entrare in combattimento a causa della mancanza di spazio.

Quarta fase della battaglia di
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Quindi, la massa dei legionari si ritrovò serrata da ogni parte, compressa in uno spazio sempre più ristretto, con solo le linee esterne in combattimento su tutti i lati; i Romani vennero progressivamente annientati dalla fanteria africana sui fianchi, dalla cavalleria alle spalle, dagli ibero-galli di fronte, nel corso di lunghe ore di sanguinosi combattimenti corpo a corpo. I legionari, schiacciati l'uno contro l'altro, costretti a ripiegare lentamente, confusi, disorientati dall'inattesa svolta, stanchi, furono lentamente distrutti; con la morte dei centurioni e la perdita delle insegne, le legioni si disgregarono e si dissolsero; gran parte si ammassarono e caddero verso il centro, piccoli gruppi vennero annientati mentre fuggivano in varie direzioni. Polibio è chiaro nella descrizione del meccanismo della distruzione delle legioni accerchiate: «in quanto i loro ranghi esterni erano continuamente distrutti, ed i superstiti erano costretti a ritirarsi e si stringevano insieme, sono stati infine tutti uccisi, dove si trovavano». I cartaginesi continuarono il massacro dei Romani per circa sei ore e, secondo la narrazione di Tito Livio, l'impegno fisico dell'annientamento con armi bianche di migliaia di Romani fu estenuante anche per i guerrieri africani, che Annibale rinforzò con la cavalleria pesante ibero-galla.

In questa battaglia la cavalleria dei Cartaginesi ha rivestito una funzione determinante per la vittoria.

Il console Emilio Paolo, anche se all'inizio del combattimento era stato gravemente ferito da una fionda, decise di rimanere sul campo e di combattere fino alla fine; in alcuni punti riaccese la battaglia, sotto la protezione dei cavalieri romani. Infine mise da parte i cavalli, perché gli mancavano anche le forze per riuscire a rimanere in sella. Livio narra che allorché Annibale apprese che il console aveva ordinato ai cavalieri di smontare a piedi, avrebbe detto: «Quanto preferirei che me li consegnasse già legati!». Il console aristocratico alla fine cadde valorosamente sul campo, bersagliato dai nemici in avanzata, senza essere stato riconosciuto. Cowley afferma che per sei ore, circa 600 legionari furono massacrati ogni minuto; fino a quando l'oscurità pose fine alla carneficina.

«Tante migliaia di Romani stavano morendo [...] Alcuni, le cui ferite erano eccitate dal freddo mattino, nel momento in cui si stavano alzando, coperti di sangue, dal mezzo dei mucchi di uccisi, erano sopraffatti dal nemico. Alcuni sono stati trovati con le teste immerse nelle buche in terra, che avevano scavato; avendo, così come si mostrò, realizzato buche per loro stessi, e essendosi soffocati.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri (testo latino), XXII, 51).

Dopo la morte di Emilio Paolo, i superstiti fuggirono in modo disordinato: settemila uomini ripiegarono nell'accampamento più piccolo, diecimila in quello più grande, e circa duemila nello stesso villaggio di Canne; questi furono subito accerchiati da Cartalone e dai suoi cavalieri, poiché nessuna fortificazione proteggeva il villaggio. Nei due accampamenti i soldati romani erano quasi disarmati e privi di comandanti; quelli dell'accampamento maggiore chiesero agli altri di unirsi a loro, mentre la stanchezza ancora ritardava l'arrivo dei nemici, esausti dalla battaglia e impegnati nei festeggiamenti per la vittoria, si sarebbero diretti tutti insieme a Canusio. Alcuni respinsero la proposta bruscamente, chiedendo perché dovessero essere loro a esporsi tanto al pericolo andando all'accampamento maggiore e non potessero invece essere gli altri ad andare da loro. Ad altri non tanto spiaceva la proposta quanto mancava il coraggio di muoversi.

La sera, avendo raggiunto la vittoria completa, i Cartaginesi sospesero l'inseguimento dei nemici, tornarono nell'accampamento e, trascorse alcune ore di festa, si misero a dormire. Durante la notte, a causa dei feriti che giacevano ancora sulla piana, riecheggiarono lamenti e grida. La mattina successiva iniziò la depredazione, da parte dei Cartaginesi, dei corpi dei Romani caduti in battaglia. Poiché l'odio mortale e inestinguibile che i Cartaginesi provavano per i loro nemici non era stato placato dal massacro di 40.000 di loro, essi picchiarono e pugnalarono i feriti ancora in vita ovunque li trovarono, come una sorta di passatempo mattiniero dopo le dure fatiche dei giorni precedenti. Questo massacro, tuttavia, potrebbe difficilmente essere considerato una crudeltà verso le povere vittime, perché molti di loro scoprirono il proprio petto agli assalitori, e invocarono il colpo mortale che avrebbe posto fine alle loro sofferenze. Durante l'esplorazione del campo, un soldato cartaginese fu trovato ancora vivo, ma imprigionato dal cadavere del suo nemico Romano disteso su di lui. Il volto del cartaginese e le sue orecchie erano orrendamente lacerate. Il romano, cadendo su di lui quando entrambi erano gravemente feriti, aveva continuato a battersi con i denti, poiché non riusciva più a usare la sua arma, e morì alla fine, bloccando il suo nemico esausto con il proprio corpo esanime.

Polibio scrisse che della fanteria romana e degli alleati, 70.000 furono uccisi, 10.000 catturati, e "forse" solo 3.000 sopravvissero. Egli riferisce anche che dei 6.000 cavalieri romani e alleati, solo 370 riuscirono a mettersi in salvo.

Tito Livio scrisse: «45.000 fanti, si dice, e 2.700 cavalieri, metà romani e metà alleati, caddero uccisi: tra essi i due questori dei consoli: Lucio Atilio e Lucio Furio Bibàculo, e ventinove tribuni dei soldati, alcuni consolari e già stati pretori o edili (tra essi Cneo Servilio e Marco Minucio, che era stato maestro della cavalleria l'anno precedente e console alcuni anni addietro); e inoltre ottanta/novanta senatori o eleggibili senatori per le cariche già esercitate, i quali si erano arruolati come volontari. 3.000 fanti e 1.500 cavalieri si narra che furon fatti prigionieri. Altre uccisioni e migliaia di prigionieri verranno fatti tra i milites delle due legioni lasciate a difesa e come riserva negli accampamenti]» Anche se Livio non cita la sua fonte con il nome, è stato probabilmente Quinto Fabio Pittore, uno storico romano che ha combattuto nella Seconda guerra punica, che scrisse riguardo ad essa. È Pittore colui che Livio nomina quando riferisce le perdite nella battaglia del Trebbia. In seguito tutti gli storici romani (e greco-romani) seguirono in gran parte le cifre di Livio. Appiano di Alessandria disse che 50.000 furono uccisi e "moltissimi" furono presi prigionieri. Plutarco era d'accordo, «50.000 Romani caddero in quella battaglia [...] 4.000 sono stati presi vivi». Quintiliano scrisse: «60.000 uomini sono stati uccisi da Annibale a Canne». Eutropio: «20 funzionari consolari e di rango pretorio, 30 senatori e 300 altri di discendenza nobile sono stati presi o uccisi così come 40.000 fanti e 3.500 cavalieri.»

La maggior parte degli storici moderni, pur considerando le cifre di Polibio errate, sono disposti ad accettare le cifre di Livio. Alcuni storici più recenti sono giunti a cifre molto più basse. Cantalupi propose che le perdite romane siano state fra le 10.500 e le 16.000 unità. Anche Samuels considera le cifre di Livio come troppo elevate per il fatto che la cavalleria sarebbe stata insufficiente per prevenire la fuga della fanteria romana. Egli dubita anche che Annibale Barca volesse un alto numero di morti poiché gran parte dell'esercito era composto da italici che egli sperava di avere come alleati in futuro.

Tito Livio riferisce che Annibale perse 6.000 o circa 8.000 uomini. Polibio riporta 5.700 morti: 4.000 galli, 1.500 spagnoli e africani, e 200 cavalieri. Annibale comandò che allo splendore dell'aurora del giorno seguente si desse sepoltura ai compagni morti con roghi funebri.

Verso la fine della battaglia, un ufficiale romano di nome Lentulo, mentre stava fuggendo a cavallo, vide un altro ufficiale seduto sulla pietra, debole e sanguinante. Quando scoprì che era Emilio Paolo gli offrì il proprio cavallo, ma Emilio, vedendo che era troppo tardi per salvare la propria vita, declinò l'offerta ed esortò Lentulo a fuggire al più presto dicendo: «Vai avanti, quindi, tu stesso, il più veloce che puoi, sfrutta al meglio la tua strada verso Roma. Chiama le autorità locali qui, da me, che tutto è perduto, e devono fare ciò che essi possono per la difesa della città. Vai più veloce che puoi, o Annibale sarà alle porte prima di te.» Emilio mandò un messaggio anche a Fabio, declinando le proprie responsabilità nella battaglia e dichiarando che aveva fatto ciò che era in suo potere per continuarne la strategia. Lentulo, avendo ricevuto questo messaggio, e vedendo che i Cartaginesi gli erano vicini, se ne andò, abbandonando Emilio Paolo al suo destino. I Cartaginesi, accortosi dell'uomo ferito, infilzarono le lance uno alla volta nel suo corpo, finché non smise di muoversi. Il giorno dopo la battaglia Annibale si compiacque di onorare il nemico ordinando il funerale del console Emilio Paolo. Il suo corpo fu posto su un rogo altissimo e fu elogiato da Annibale, che gettata sul cadavere una clamide tessuta d'oro e un drappo fiammeggiante di cupa porpora, gli diede così l'estremo addio: «Va, o gloria d'Italia, ove dimorano spiriti eccelsi d'insigne valore! La morte ti diede già lode immortale mentre la Fortuna agita ancora i miei eventi e mi nasconde l'avvenire».

Varrone invece si rifugiò a Venosa con un drappello di circa cinquanta cavalieri e decise che avrebbe cercato di radunare lì i resti dell'esercito.

«Mai prima d'ora, mentre la stessa città era ancora sicura, c'era stato tanto turbamento e panico tra le sue mura. Non cercherò di descriverlo, né io indebolirò la realtà andando nei dettagli. Dopo la perdita di un console e dell'esercito nella battaglia del Trasimeno l'anno precedente, non fu una ferita dopo l'altra, ma una strage molto (più) grande quella che era stata appena annunciata. Secondo le fonti due eserciti consolari e due consoli sono stati persi, non c'era più nessun accampamento romano, nessun generale, nessun soldato in esistenza, Puglia, Sannio, quasi tutta l'Italia giaceva ai piedi di Annibale. Certamente non c'è altro popolo che non avrebbe ceduto sotto il peso di una simile calamità.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri (testo latino), XXII, 54.)

Per un breve periodo di tempo, i Romani furono nel caos completo. I loro migliori eserciti nella penisola erano stati distrutti, i pochi restanti erano fortemente demoralizzati, e l'unico console restante (Varrone) era completamente screditato. Fu una catastrofe terribile per i Romani. Come si racconta, Roma dichiarò una giornata di lutto nazionale, in quanto non c'era nessuno a Roma che non avesse una qualche relazione con una persona che vi era morta o che non ne fosse almeno conoscente. Le principali misure adottate dal Senato furono di cessare tutte le processioni pubbliche, vietare alle donne di uscire di casa e punire i venditori ambulanti, tutte queste decisioni per fermare il panico. Divennero così disperati che, guidati dal ceto politico senatorio in cui era ritornato a dominare Quinto Fabio Massimo Verrucoso, ricorsero al sacrificio umano, due volte seppellendo persone vive al Foro di Roma e abbandonando un bambino di grandi dimensioni nel Mare Adriatico. Tito Livio riporta che il sacrificio fu decretato dai "decemviri sacrorum" dopo una loro consultazione dei Libri Sibillini (libri fatales). In base al responso di procedere con "sacrificia aliquot extraordinaria" (alcuni sacrifici straordinari), furono seppelliti vivi nel Foro Boario un uomo e una donna celti e due greci. Prima di tali cruenti riti, Plutarco ricorda come nel 228 a.C., si fosse già proceduto ad analoghi sacrifici umani prima della guerra contro gli Insubri (forse uno degli ultimi casi registrati di sacrifici umani che i Romani avrebbero eseguito, a meno che le esecuzioni pubbliche dei nemici sconfitti dedicate a Marte vengano contate). Lucio Cecilio Metello, un tribuno militare, è noto per aver molto disperato per la causa romana in seguito alla battaglia, tanto da ritenere che tutto fosse perduto e perciò invitò gli altri tribuni a fuggire via mare all'estero e prestare servizio per qualche principe straniero. In seguito per questa sua proposta fu costretto a pronunciare un giuramento indissolubile di fedeltà a Roma.

Inoltre, i sopravvissuti romani di Canne furono successivamente riuniti in due legioni e assegnati alla Sicilia per il resto della guerra, come punizione per il loro umiliante abbandono del campo di battaglia. Oltre alla perdita fisica del suo esercito, Roma avrebbe sofferto una sconfitta simbolica di prestigio. Un anello d'oro era un segno di appartenenza alle classi patrizie della società romana. Annibale con il suo esercito aveva raccolto più di 200 anelli d'oro dai cadaveri sul campo di battaglia, e questa collezione è stata ritenuta essere pari a "tre moggi e mezzo", vale a dire più di 27 litri. Inviò, nelle mani del suo fratello Magone Barca, tutti gli anelli a Cartagine come prova della sua vittoria. La collezione fu versata sul vestibolo della curia cartaginese.

Annibale, dopo aver ottenuto l'ennesima vittoria (dopo le battaglie della Trebbia e del Lago Trasimeno), aveva sconfitto l'equivalente di otto eserciti consolari (sedici legioni oltre a un numero uguale di alleati). Nel giro delle tre stagioni della campagna militare (20 mesi), Roma aveva perso un quinto (150.000) di tutta la popolazione di cittadini che aveva oltre i diciassette anni di età. Inoltre, l'effetto morale di questa vittoria fu tale che la maggior parte dell'Italia meridionale si vide indotta ad aderire alla causa di Annibale. Dopo la battaglia di Canne, le province meridionali greche di Arpi, Salapia, Herdonia, Uzentum, comprese le città di Capua e Taranto (due delle più grandi città-stato in Italia) revocarono tutte la loro fedeltà a Roma e promisero la loro lealtà ad Annibale. Come nota Polibio, «Quanto più grave è stata la sconfitta di Canne, rispetto a quelle che l'hanno preceduta, lo si vede dal comportamento degli alleati di Roma; prima di quel fatidico giorno, la loro lealtà rimase irremovibile, ora ha cominciato a vacillare per la semplice ragione che disperano del potere romano.» Nello stesso anno, le città greche in Sicilia sono state indotte alla rivolta contro il controllo politico romano. Il re macedone Filippo V, aveva promesso il suo appoggio ad Annibale e venne pertanto avviata la prima guerra macedonica contro Roma. Il neo re Geronimo di Siracusa, sovrano dell'unica località della Sicilia che era indipendente, concordò un'alleanza con Annibale.

Dopo la battaglia, Maarbale, comandante della cavalleria numida, esortò Annibale a cogliere l'opportunità e marciare immediatamente su Roma dicendo: «Anzi, perché tu ben sappia quanto si sia ottenuto con questa giornata, [io ti dico che] fra cinque giorni banchetterai vincitore sul Campidoglio. Seguimi, io ti precedo con la cavalleria, affinché ti sappiano giunto prima di apprendere che ti sei messo in marcia». Si dice che il rifiuto di quest'ultimo abbia provocato un'esclamazione di Maarbale: «Gli dei evidentemente non hanno concesso alla stessa persona tutte le doti: tu sai vincere, Annibale, ma non sai approfittare della vittoria». Ma Annibale aveva buone ragioni per giudicare la situazione strategica dopo la battaglia in modo diverso da come fece Maarbale. Come sottolinea lo storico Hans Delbrück, a causa dell'elevato numero di morti e feriti tra i suoi ranghi, l'esercito punico non era in condizione di eseguire un attacco diretto su Roma. Una marcia verso la città sul Tevere sarebbe stata una dimostrazione inutile che avrebbe annullato l'effetto psicologico di Canne sugli alleati di Roma. Anche se il suo esercito fosse stato in piena forza, un assedio di successo di Roma avrebbe richiesto ad Annibale di sottomettere una parte considerevole dell'entroterra al fine di garantire il proprio approvvigionamento ed impedire quello del nemico. Anche dopo le perdite enormi subite a Canne, e la defezione di un certo numero di suoi alleati, Roma aveva ancora manodopera abbondante per evitare questo e per mantenere allo stesso tempo forze considerevoli in Iberia, in Sicilia, in Sardegna e altrove, nonostante la presenza di Annibale in Italia. Come dice Sean McKnight, dell'accademia militare di Sandhurst: «I Romani probabilmente avevano a disposizione ancora molti uomini disposti ad arruolarsi, la città avrebbe radunato nuove truppe e si sarebbe difesa strenuamente, impegnare il suo esercito in un'impresa così rischiosa avrebbe potuto vanificare le vittorie della campagna militare. Ma forse considerando che Annibale alla fine perse la guerra, era un rischio che avrebbe dovuto correre.». Il comportamento di Annibale dopo le vittorie sul Trasimeno (217 a.C.) e a Canne (216 a.C.), e il fatto che abbia attaccato per la prima volta la stessa Roma solo cinque anni più tardi (nel 211 a.C.), suggerisce che il suo obiettivo strategico non era la distruzione del suo nemico, ma scoraggiare i Romani con una serie di stragi sui campi di battaglia e ridurli ad un accordo di pace moderata privandoli dei loro alleati.

Subito dopo Canne, Annibale inviò Cartalone a Roma per negoziare un trattato di pace con il Senato in termini moderati. Eppure, nonostante le molteplici catastrofi che Roma aveva sofferto, il Senato romano rifiutò di trattare. Anzi, raddoppiò nuovamente gli sforzi dei Romani, dichiarando piena mobilitazione della popolazione maschile romana e creò nuove legioni arruolando contadini senza terra e persino gli schiavi.] Queste misure erano tanto severe che la parola “pace” fu proibita, il lutto era limitato a soli 30 giorni e l'esternazione del proprio dolore in pubblico fu vietata anche alle donne. I Romani, dopo aver vissuto questa sconfitta catastrofica e perso altre battaglie, avevano a questo punto imparato la lezione. Per il resto della guerra in Italia, non avrebbero più accumulato grandi forze sotto un unico comando contro Annibale, come era stato durante la battaglia di Canne, invece avrebbero utilizzato molteplici eserciti indipendenti, ancora superando le forze puniche nel numero di eserciti e di soldati. Questa guerra ebbe ancora battaglie occasionali, ma fu incentrata maggiormente attorno al prendere capisaldi e ad un combattimento costante, secondo la strategia di Quinto Fabio Massimo. Ciò infine costrinse Annibale con la sua carenza di personale a ritirarsi a Crotone, da dove venne richiamato in Africa per la battaglia di Zama, ponendo fine alla guerra con una completa vittoria romana.

La battaglia di Canne è rimasta famosa per la tattica seguita da Annibale e per il ruolo che rivestì nella storia di Roma. Si trattò forse del più sanguinoso scontro campale in assoluto in un solo giorno combattuto in occidente. In questa occasione, non solo Annibale inflisse una sconfitta alla Repubblica romana in una maniera che non si sarebbe ripetuta per oltre un secolo, fino alla meno nota battaglia di Arausio, ma ebbe anche luogo una battaglia destinata ad acquisire una notorietà significativa nel campo dell'intera storia militare. Come storico militare, Theodore Ayrault Dodge ha scritto: «Poche battaglie dei tempi antichi sono maggiormente segnate dall'abilità strategica [...] rispetto alla battaglia di Canne. La situazione era tale da rendere tutti i vantaggi dalla parte di Annibale. Le modalità secondo cui avanzarono i piedi iberici e gallici ben lungi dall'essere perfetti in una linea a scalare, […] si trattennero e poi si ritirarono passo dopo passo, finché non avessero raggiunto la posizione inversa [...] è un capolavoro semplice di tattiche di combattimento. L'avanzamento al momento opportuno della fanteria africana, e la sua conversione a destra ed a sinistra sui fianchi dei legionari romani disordinati ed ammassati, è molto oltre la lode. L'intera battaglia, dal punto di vista cartaginese, è un'eccellente opera d'arte, poiché non ci sono, nella storia della guerra, esempi che la superino, mentre pochi la eguagliano.»

Come scrisse Will Durant: «È stato un supremo esempio di abilità militare, mai superato nella storia [...] e fissò le linee delle tattiche militari per 2.000 anni.» Si tratta, fra l'altro, del primo utilizzo attestato di manovra a tenaglia nel mondo occidentale.

Considerata l'esempio per eccellenza di scaltrezza e di abilità di manovra, è ancora oggi la battaglia più studiata da militari e da esperti di tattica e strategia. Oltre a essere una delle più grandi sconfitte mai inflitte all'esercito romano, la battaglia di Canne rappresenta l'archetipo della battaglia di annientamento. Lo scontro assunse un ruolo "mitico" anche nella scienza strategica degli eserciti moderni; in particolare, lo stato maggiore tedesco-prussiano considerò lo schema strategico della battaglia di Canne come un punto di arrivo ideale da ricercare costantemente in guerra. Come Dwight D. Eisenhower, comandante supremo delle forze di spedizione alleate nella seconda guerra mondiale, scrisse una volta: «Ogni comandante di terra cerca la battaglia di annientamento; nella misura in cui le condizioni lo permettano, cerca di duplicare nella guerra moderna l'esempio classico di Canne».

La totalità della vittoria di Annibale ha reso il nome "Canne" sinonimo di successo militare, e oggi è studiata nei dettagli in numerose accademie militari di tutto il mondo. L'idea che un intero esercito possa essere circondato e annientato in un colpo solo ha affascinato i successivi strateghi occidentali per secoli e secoli (tra cui Federico il Grande e Helmuth von Moltke) che hanno tentato di ricreare la loro propria "Canne". Lo studio seminale attuato da Hans Delbrück riguardo alla battaglia ebbe una profonda influenza sui successivi teorici militari tedeschi, in particolare il capo di stato maggiore nell'esercito imperiale Alfred von Schlieffen (il cui "omonimo piano" di invasione della Francia, è stato ispirato dalla tattica di Annibale). Attraverso i suoi scritti, Schlieffen insegnò che il "modello Canne" avrebbe continuato a essere applicabile in manovre di guerra per tutto il ventesimo secolo: «Una battaglia di annientamento può essere effettuata oggi secondo lo stesso piano ideato da Annibale in tempi lontani dimenticati. Il fronte nemico non è l'obiettivo principale dell'attacco. La massa delle truppe e le riserve non dovrebbero essere concentrate contro il fronte nemico, l'essenziale è che i fianchi siano schiacciati. Le ali non dovrebbero essere dirette nei punti avanzati del fronte, ma piuttosto lungo tutta la profondità e l'estensione della formazione nemica. L'annientamento è completato attraverso un attacco contro la parte posteriore del nemico [...] Per arrivare ad una vittoria decisiva e annientatrice è necessario un attacco contro la parte anteriore e contro uno o entrambi i fianchi.». Schlieffen in seguito sviluppò la propria dottrina operativa in una serie di articoli, molti dei quali successivamente sono stati tradotti e pubblicati in un lavoro intitolato Cannae.
La bruciante sconfitta a Canne, indusse i Romani ad una  rielaborazione della tattica legionaria, con un maggiore impiego di contingenti di  cavalleria di regni alleati, visto che fra i Romani prevaleva la vocazione dell'appartenenza alla legione di pedites, considerata il nerbo dell'esercito. Avvenne così che Scipione Africano, nella battaglia di Zama del 202 a.C., con l'esercito romano unito a 4.000 cavalieri  alleati numidi, comandati da Massinissa, riuscì a battere in modo definitivo le forze cartaginesi di Annibale. 

Publio Cornelio Scipione
detto poi l'Africano, dal
Museo Puškin di Mosca.
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.
La battaglia di Zama è stata l'ultima battaglia, combattuta il 19 ottobre 202 a.C. a Zama in Africa, della seconda guerra punica, che ha determinato il definitivo ridimensionamento di Cartagine come potenza militare e politica del Mar Mediterraneo.
Ci restano due tradizioni sulla battaglia di Zama: una di Livio e Polibio, seguita dalla maggior parte degli storici moderni, l'altra di Appiano e Cassio Dione, meno attendibile e meno seguita.

Publio Cornelio Scipione era sbarcato in Africa nel 204 a.C. ed aveva subito iniziato la campagna per costringere i Cartaginesi ad arrendersi. Affrontò in diverse battaglie i generali nemici sconfiggendoli tutti e perfezionando la tattica dell'accerchiamento, che ora,dopo la devastante sconfitta che i Romani avevano subito a Canne grazie a quella tattica, riusciva a fare anche senza cavalleria. Il romano era riuscito a portare dalla sua parte anche un principe numida in esilio, Massinissa, appoggiandolo nella sua campagna per conquistare il trono, tenuto da Siface, alleato di Cartagine. Il giovane principe ricambiò il romano offrendo la sua preziosa cavalleria, che tanto aveva aiutato Annibale.

Dopo una serie di pesanti sconfitte, il sinedrio cartaginese aveva deciso di richiamare Annibale dall'Italia. Nel 203 a.C., il Barcide toccò il suolo africano, dopo 33 anni, nella Byzacena, ad Hadrumetum (oggi Susa), 80 km più a sud di dove la sua famiglia aveva dei possedimenti.

Barcidi erano chiamati i componenti della famiglia di Annibale, tra le più in vista dell'aristocrazia dell'antica Cartagine. Grandissima nemica di Roma, la famiglia si distingueva dal soprannome di Amilcare, padre di Annibale, Asdrubale e Magone oltre a tre femmine, detto "Barak", ovvero "folgore", "fulmine", per le sue qualità di condottiero di eserciti e di politico decisionista. Secondo un'altra interpretazione il nome di Barca deriverebbe da "Baruk" ovvero "il benedetto" a indicare una particolare protezione da parte degli Dèi. "Barca" non è quindi un cognome vero e proprio che, come nell'uso romano, stava ad indicare una famiglia o una gens. Amilcare Barca fu un generale davvero geniale e innovativo: perfezionò la manovra avvolgente, ereditata dall'Oriente ellenistico e da Santippo, e introdusse un metodo per frenare gli elefanti da guerra imbizzarriti, in modo da evitare che si volgessero contro le unità dell'esercito punico: dotò i cornac (i conducenti) di mazzuoli e grandi chiodi che, all'occorrenza, venivano conficcati nel cranio degli animali, uccidendoli.

Appena sbarcato con i suoi 15.000 veterani, Annibale si diede a risistemare l'esercito cartaginese, ricevendo nuove reclute da Cartagine oltre ai mercenari di Asdrubale Giscone e del proprio fratello Magone Barca, (figlio minore di Amilcare Barca) per prepararsi a combattere una battaglia che sapeva essere decisiva. I Punici, sicuri della vittoria, rifiutarono il trattato di pace offerto da Scipione, che immediatamente si diede a devastare i territori dell'interno della Tunisia, mentre richiamava Massinissa e la sua cavalleria, impegnati a pacificare alcune zone del regno numida in rivolta. 

Annibale, sollecitato ad intervenire dai suoi concittadini per evitare che i due si riunissero, marciò a tappe forzate verso l'interno senza però riuscire nel suo intento. Dopo aver cercato ancora una soluzione pacifica perché conscio dei limiti dei suoi uomini, fu costretto a combattere.

Da https://www.skuolasprint.it/versione-livio/annibale-parla-a-scipione-prima-della-battaglia-di-zama-A_92046.html, il discorso di Annibale a Scipione: "Certamente sarebbe stato molto meglio che ci fosse quel pensiero, dato dagli dei ai nostri padri, che con il dominio, sia voi dell'Italia, sia noi dell'Africa, saremmo stati contenti. E certo nemmeno per voi Sicilia e Sardegna sono compensazioni sufficienti per la perdita di tante flotte, di tanti eserciti, di tanti straordinari comandanti persi; ma i tempi passati si possono criticare più che correggere. E così abbiamo desiderato le cose altrui così che ora dobbiamo combattere per i nostri, così che non c'è solo la guerra per noi in Italia e per voi in Africa, ma come voi avete visto le insegne e le armi dei nemici quasi alle vostre porte e alle mura, così noi udiamo da Cartagine lo strepito degli accampamenti romani. Ciò che noi soprattutto vorremmo scongiurare e voi, invece, vorreste desiderare, poiché vi trovate in una situazione più favorevole, è considerare la possibilità della pace. A trattare siamo dunque noi, ai quali soprattutto interessa che si faccia la pace, le nostre città accetteranno senz'altro le condizioni decise da noi: quello che conta è che il nostro animo non sia alieno da progetti di pace. Per quanto mi riguarda, ormai l'età, le fortune e le avversità ammaestrarono me, che ritorno vecchio in patria da dove partii fanciullo, al punto da farmi preferire di seguire i consigli della ragione piuttosto che le vicende della fortuna; mi fanno paura la tua giovinezza ed i tuoi continui successi, dai quali proviene quell'orgoglio che è nemico delle soluzioni pacifiche. Colui che la fortuna non ha mai abbandonato, difficilmente considera le incertezze della sorte. Oggi sei tu quello che io fui al Trasimeno e a Canne. La fortuna in nessuna circostanza ha mai tradito te che hai fin da principio affrontato ogni tua impresa con incredibile audacia, per quanto avessi assunto il supremo comando in età appena atta al servizio militare."

Preciso che non sappiamo esattamente dove fosse il sito chiamato Zama in cui si svolse la battaglia.

Tratto da Storia del mondo Romano, vol 1. di Howard H. Scullard: "Nell'Africa settentrionale vi erano probabilmente due città chiamate Zama (una terza a Sidi Abd el Djedidi, a nord-ovest di Kairouan, non era forse chiamata Zama). Zama Regia era con ogni probabilità Seba Biar, ma questo insediamento può essere scomparso e la Zama dell'impero romano può essersi trovata nell'odierna Jama...".

Ovunque sia stata Zama, le forze schierate in campo pare fossero: 
Romani e Cartaginesi schierati
a Zama. Di Mohammad adil at
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17974420
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per i Romani al comando di Publio Cornelio Scipione, 23.000 Romani e Italici (citati da Appiano), 6.000 Numidi (Liv., XXX, 29, 4; Pol., XV, 5, 12) e probabilmente 900 berberi (De Sanctis) per un totale di 29.900 fanti e 1.500 Romani e Italici (citati da Appiano), 4.000 Numidi (Liv., XXX, 29, 4; Pol., XV, 5, 12), 600 Berberi (citati da Appiano) per un totale di 6.100 cavalieri.
Romani al centro schieravano le legioni, con in prima linea gli astati, dopo di questi i principi e infine i triari. Sia Livio che Polibio mettono però in evidenza il fatto che i manipoli non fossero schierati a  scacchiera, come erano soliti fare i romani, ma che ogni manipolo di principi e triari fosse allineato perfettamente al corrispondente degli astati sul fronte dell'esercito, per permettere  il passaggio degli  elefanti senza troppi danni negli ampi spazi così liberati. Per evitare che il fronte così sistemato si presentasse debole, tra un manipolo e l'altro di astati furono sistemati i veliti, col preciso ordine di iniziare la battaglia e di ritirarsi dietro l'esercito lasciando liberi i corridoi verticali.
L'ala sinistra era costituita dalla cavalleria italica guidata da Gaio Lelio (Pol., XV, 9, 8; Liv., 30, 33) e probabilmente anche i cavalieri berberi di Damacas. L'ala destra era composta sia da cavalleria che fanteria numidica guidata da Massinissa (Pol., XV, 9, 8; Liv., 30, 33).

Dall'altra parte, i Cartaginesi comandati da Annibale Barca disponevano di 12.000 mercenari tra Liguri, Celti, Baleari e Mauri (Pol., XV, 11, 1), 15.000 Libici e Cartaginesi, 15.000 veterani della campagna d'Italia e probabilmente anche 4.000 macedoni (Liv., XXX, 26, 3) per un totale di 46.000 fanti, 2.000 Cartaginesi e 2.000 Numidi per un totale di 4.000 cavalieri oltre a 80 elefanti (Liv., XXX, 33, 4) o un numero leggermente maggiore (Pol., XV, 11, 1).
I Cartaginesi schieravano al centro, davanti a tutti, gli 80 o più elefanti, dietro questi la prima linea di fanteria formata dai mercenari mentre la seconda linea era composta da libici, cartaginesi e, stando a Livio (XXX: 26, 3; 33, 5; 42, 4-5), anche forze inviate dalla Macedonia guidate da Soprato; infine in terza linea, distanziati di uno stadio (Pol., XV, 11, 2), cioè circa 200 metri, i veterani della campagna italica di Annibale. All'ala sinistra la cavalleria numidica e all'ala destra la cavalleria cartaginese.

Annibale lanciò la carica degli elefanti, ma ormai i romani avevano imparato come trattare quelle enormi bestie; con trombe acute e alte grida spaventarono i bestioni che, imbizzarriti, fuggirono da quel fracasso e si volsero contro la cavalleria numidica dell'ala sinistra cartaginese. Questo causò il caos e le file della cavalleria cartaginese furono scompaginate, così Scipione ne approfittò mandando Massinissa, che era posto di fronte a questa con i suoi cavalieri, a sbaragliare definitivamente gli avversari diretti.

Parte degli elefanti scompaginano
la cavalleria numidica cartaginese
che viene annientata da quella di
Massinissa, mentre gli altri elefanti
si incanalano nei corridoi della
fanteria romana. Di Mohammad
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Tuttavia qualche elefante, che non si era spaventato, si avventò contro la fanteria romana. Allora i veliti iniziarono immediatamente a bersagliare dalla distanza i pachidermi, che per sfuggire alla pioggia di dardi, cercarono di utilizzare tutte le vie di fuga possibili. I manipoli degli hastati romani, utilizzando lo spazio libero, semplicemente si fecero da parte, creando dei veri e propri "corridoi" nello schieramento romano, e lasciarono passare i grandi animali. Colpiti dai veliti, che si erano riparati dietro le file degli hastati, e dai principes, questi elefanti infine fuggirono addosso alla cavalleria dell'ala destra della  cartaginese. Anche qui, Lelio, al comando della cavalleria italica approfittò dell'occasione per chiudere la partita con i diretti avversari. Tutta la cavalleria di Annibale fuggì inseguita da Massinissa e Lelio. Tuttavia è possibile che tale esito fosse premeditato dal generale Cartaginese. La cavalleria di Annibale, che aspettava rinforzi da Vermina, non era numerosa come quella romana, ed è possibile che il condottiero l'avesse utilizzata come esca, oltre che per spingere il nemico a credere ad una parziale vittoria, per allontanare quella romana nel tentativo di prevenire pericoli per la sua fanteria. 

Ad ogni modo, si giunse infine allo scontro fra le fanterie
Le prime file di Annibale non ressero a lungo allo scontro con quelle Romane, gli astati romani ebbero la meglio sulla prima linea cartaginese (formata da mercenari), che iniziò ad arretrare. Ma la seconda linea (formata da punici) impedì loro la fuga e si accese uno scontro interno nello schieramento di Annibale.
Gli astati di Scipione erano affaticati, ma l'arrivo dei principi diede nuova linfa all'attacco romano che portò alla rotta della seconda linea punica. Scipione tentò di ripetere la manovra della battaglia dei Campi Magni e mosse le sue file di principi e triari sui fianchi per accerchiare le forze di Annibale. La manovra fallì parzialmente poiché i veterani che Annibale mantenne come riserva nella terza linea, lontana dalle prime due (probabilmente per contrastare una tale mossa), non consentirono ai Romani di circondare l'esercito cartaginese. Inoltre il terreno disseminato di cadaveri rese ancora più difficoltosa la manovra di Scipione, il quale fu costretto a far tornare indietro le seconde file per reggere l'urto dei Cartaginesi, non essendo più sufficiente lo spazio d'azione.
Un ulteriore problema derivava dal fatto che la tattica utilizzata da Scipione per evitare la carica degli elefanti si rivelò controproducente per contrastare le linee di fanteria cartaginese. I corridoi creati nel fronte romano infatti, non permettevano l'utilizzo corretto della tattica manipolare, che necessitava di una disposizione a scacchiera. Perciò, le prime fasi dello scontro pesarono direttamente sulle spalle degli astati (secondo G. Brizzi, "Il guerriero, l'oplita e il legionario", può darsi che Annibale, schierando gli elefanti sul fronte del suo esercito, intendesse esattamente costringere Scipione a disporre i manipoli in colonna, invece che a scacchiera).

A questo punto la battaglia era diventata piuttosto ardua per la compagine romana. Pur avendo probabilmente subito perdite minori rispetto ai Punici, i combattimenti con le prime due linee cartaginesi avevano permesso ad Annibale di fiaccare i fanti romani, nonché di sfruttare nel migliore dei modi la superiorità numerica. Infatti, i ripiegamenti dei mercenari e dei cittadini punici, avevano permesso di coprire i fianchi ai veterani d'Italia, che erano ancora freschi e saldi al centro dello schieramento cartaginese.

Lo scontro frontale fra fanterie
nella battaglia di Zama. Di
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.

Per evitare un accerchiamento che gli si sarebbe rivelato fatale, Scipione estese il suo fronte, assottigliando i ranghi fino a coprire tutto il fronte punico. La battaglia era giunta ad una fase critica. Impossibilitati alla manovra e senza i reparti di cavalleria, allontanatisi nell'inseguimento di quelli Cartaginesi, i Romani si trovarono impegnati in uno scontro frontale contro forze superiori in numero e freschezza.
Con la fanteria romana schierata
al massimo dell'estensione e del
conseguente assottigliamento,
vista l'inferiorità numerica, torna
la cavalleria che attacca i punici
alle spalle. Immagine ricavata da
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Definitivamente dispersa la cavalleria nemica, o forse richiamati da Scipione, Lelio e Massinissa tornarono con i loro cavalieri avventandosi alle spalle delle forze cartaginesi, creando scompiglio e massacrando il nemico. L'esercito cartaginese venne accerchiato e definitivamente annientato. Era la disfatta finale di Annibale e di Cartagine.
Quella tentata da Annibale fu una battaglia di attrito, l'unica che gli era consentita dalle forze che aveva a disposizione. Nel suo piano di battaglia i Romani sarebbero dovuti essere fiaccati dallo scontro con ben tre linee (elefanti, mercenari, reclute puniche) prima di arrivare al confronto decisivo con i veterani dell'ultima linea. Fu un delicato equilibrio di forze e soprattutto di tempi, che Scipione fu in grado di sbilanciare a suo favore anche in virtù della voglia di riscatto delle legioni romane da lui addestrate dopo la sconfitta di Canne. 
Tuttavia Annibale e alcune migliaia di Cartaginesi riuscirono a fuggire.

In questa battaglia la cavalleria dei Romani ha rivestito una funzione determinante per la vittoria.

Carta che riepiloga date e scontri durante la seconda
guerra punica. Di Mediterranean at 218 BC-en.svg:
Goran tek-enderivative work: Cristiano64 -
Questo file deriva da: Mediterranean at 218 BC
-en.svg: Goran tek-en, CC BY-SA 4.0,https://com
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Nella Roma repubblicana le legioni erano costituite da cittadini socialmente qualificati che provvedevano in proprio alle armi, mentre i nullatenenti erano utilizzati solo nei momenti di necessità e immessi in formazioni non regolari. Il sistema andò in crisi con la maggiore frequenza delle guerre e con la scomparsa della classe dei piccoli proprietari terrieri, nerbo dell’esercito, soprattutto durante la seconda guerra punica, fenomeno dovuto alla comparsa di grandi latifondi ottenuti dalle conquiste, gestiti da patrizi che si avvalevano di manodopera schiavile.

Fonti storiografiche riportano un primo conteggio di quattro legioni durante la guerra latina (340-338 a.C.), a cui andava sommato un numero pari di truppe alleate di fanteria e un numero triplo di cavalleria, il quale arriva al suo apice durante la seconda guerra punica dove l'esercito romano arrivò a contare ben 23 legioni tra cittadini romani e Socii (nel 212-211 a.C.); si trattava di una forza pari a circa 115.000 fanti e 13.000 cavalieri in base alle fonti, che non tenevano conto delle truppe dislocate in Spagna, agli ordini dei fratelli Gneo e Publio Scipione.

Gladio
Di norma, in battaglia i legionari avanzavano riparandosi dietro lo scudo e impugnando il gladio, che veniva utilizzato colpendo velocemente di punta (e non di taglio) dal basso verso l'alto, puntando alla zona addominale.

Il gladio (in latino gladius - lett. "spada") era il nome della spada utilizzata dai soldati Romani. Le prime spade dell'Antica Roma erano simili a quelle in uso nella Magna Grecia, adottate per mediazione degli Etruschi: gli xiphos a lama diritta e le makhaira a lama curva. A partire dal III secolo a.C., i Romani adottarono spade di tipo celtico in uso presso i Celtiberi durante la conquista dell'Hispania, e pertanto era definito gladius hispaniensis. Durante il periodo imperiale il gladio fu usato nelle varianti del tipo "Magonza" e del tipo "Pompei", per poi essere sostituito nel III secolo nell'equipaggiamento della fanteria dalla spatha a lama più lunga e sottile, già usata dalle truppe di cavalleria. Non è ancora chiaro da quando si è iniziato ad utilizzare il gladio.
- Secondo una leggenda, fu Scipione l'Africano il primo a portare a Roma dei gladii hispanici. Subito dopo la conquistato Carthago Nova (assedio di Cartagena nel 209 a.C.), colonia cartaginese spagnola nota come centro di produzione delle migliori spade dell'Iberia, il generale romano pretese dai fabbri cittadini la produzione di 100.000 spade come scotto per la salvezza della loro comunità.
- Secondo altre fonti, i romani avrebbe avuto accesso a spade di produzione ispanica sin dal IV secolo a.C., quando Roma affrontò la "minaccia gallica" sul suolo italico. Fu durante la Battaglia del fiume Anio (361 a.C.) che il romano Tito Manlio avrebbe usato un gladius hispaniensis nel duello contro il barbaro celta che gli valse il soprannome di "Torquato" (portatore del torque, ornamento da lui strappato al nemico ucciso). In questo caso, si potrebbe però trattare di un anacronismo terminologico causato dalla lunga convenzione di denominazione della prima spada repubblicana.
Tutti i diversi modelli di gladio, sin dal principio, venivano portati dai legionari sul fianco destro e venivano estratti con una torsione del braccio destro. Questo per non intralciare l'uso dello scutum (lo scudo) che veniva portato e usato con il braccio sinistro.
Il gladius hispaniensis era arma più versatile, il cui utilizzo nelle mischie di fanteria non si limitava a semplici affondi (come lo xiphos degli opliti greci) ma poteva essere impiegato efficacemente per la scherma uno-contro-uno e per potenti colpi di taglio. Esemplare in questo senso la descrizione dei mortiferi effetti della spada spagnola riportati da Livio nella narrazione della seconda guerra macedonica (200 a.C.-197 a.C.).

“... I macedoni erano abituati a combattere i greci e avevano visto solo ferite inflitte da lance e frecce. Così quando videro corpi smembrati dal gladio romano, braccia mozzate alla spalla, teste decapitate, viscere scoperte, tremarono di fronte a ciò che avrebbero dovuto affrontare...”

Il legionario, soprattutto in epoca imperiale, se ne serviva però principalmente nell'affondo. La punta triangolare, ben affilata da ambo i lati, era progettata con l'intenzione di penetrare facilmente le carni del nemico (Vegezio, «con la punta si uccide più in fretta»). Le ridotte dimensioni dell'arma, specialmente dei modelli imperiali, permetteva il suo utilizzo nel combattimento ravvicinato imposto dal muro di scudi (come anche con la formazione a testuggine) rispetto alla spada lunga che richiedeva maggiore mobilità e spazio.

Il gladio era oltretutto una delle armi più usate nei combattimenti-spettacolo organizzati negli anfiteatri. I duellanti presero quindi dalla loro arma più comune il celeberrimo nome di gladiatori.
Le differenze tra le varie tipologie di gladio sono sottili. La spada ispanica repubblicana era un'arma di buone lunghezza e spessore, con una leggera curvatura della lama "a vita di vespa" o "a foglia". La varietà "Magonza", entrata in uso sulla frontiera germanica, la più "calda" del primo periodo imperiale, mantenne la curvatura ma accorciò e allargò la lama, rendendo la punta marcatamente triangolare forse con l'intento di massimizzare l'efficacia dell'arma nelle mischie serrate che permisero ai legionari di avere la meglio sui germani armati con lame più lunghe (la tipologia ebbe appunto massiva distribuzione delle terre più settentrionale dell'Impero). In Italia, nel cuore dell'Impero, entrò in uso la versione meno specializzata "Pompei", con filo rigorosamente diritto e punta non molto marcata. Il "Magonza-Fulham" era un compromesso tra le due versioni: fili paralleli ma punta lunga.
Gladius hispaniensis - Era il gladio utilizzato durante l'età repubblicana (adottato almeno dalla seconda guerra punica, ed appeso sul fianco destro di Hastati, Principes e Triarii) e i primi anni dell'impero, così chiamato per la sua derivazione iberica. Era fornito di una punta di eccezionale efficacia, capace di colpire con violenza di taglio su entrambi i lati, poiché la lama era molto robusta. Misurava 75 cm complessivi circa (con la lama di 60-66 cm x 4,5-5,5 cm di elsa) e fu utilizzato per molto più tempo rispetto ai successivi.
Gladio tipo "Magonza" - All'inizio del I secolo il gladio tipo "Magonza" era il più diffuso. Aveva la parte centrale della lama rastremata e una punta molto lunga. Le lunghezze delle lame rinvenute variano dai 40 ai 55 cm, con una larghezza nella parte superiore compresa tra i 54 e i 74 mm, mentre nella parte inferiore la larghezza era di 48 - 60 mm. Era particolarmente adatto a trafiggere con la sua punta, che poteva arrivare fino a 20 cm di lunghezza.
Gladio tipo "Pompei" - Sul finire del I secolo fu introdotto un nuovo modello di gladio, il tipo "Pompei", che aveva la lama dritta con lunghezza standardizzata sui 50 cm e larghezza nell'intervallo fra i 4 e i 5 cm. Era molto più bilanciata del "Magonza" ed era adatta per causare ferite da taglio e da affondo.
Entrambi i modelli, "Magonza" e "Pompei" avevano un'elsa (capulus) composta da impugnatura in legno, osso o avorio, protetta da una guardia semiovale in legno, chiusa a contatto con la lama da un disco di bronzo, ed erano controbilanciati da un pomello in legno o altro materiale pregiato.
Il fodero del gladio era composto da due lamine di legno sottile, arricchite da lamine di bronzo e chiuse all'estremità da un puntale parimenti in bronzo. Le lamine in bronzo potevano essere riccamente decorate con la tecnica del cosiddetto "opus interrasile". Quattro anelli di sospensione permettevano di fissare il fodero al cingulum (pratica di probabile origine iberica).

Formazione a testuggine nella
colonna traiana. Foto di Cristian
Chirita - Opera propria CC BY-
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La grande protezione che offriva lo schieramento a Testuggine poteva risolvere efficacemente gli assedi messi in atto. Nello schieramento a Testuggine, di forma rettangolare o quadrata, si susseguivano più file di fanti pesanti, dotati dei caratteristici grandi scudi rettangolari e allineati spalla a spalla. I soldati della prima fila tenevano gli scudi a protezione frontale, in modo da formare una barriera senza soluzione di continuità. Lo stesso facevano i componenti laterali dello schieramento, mentre all’interno dello stesso, a partire dalla seconda fila e a file alternate, gli scudi venivano tenuti sollevati in modo da proteggere in alto i fanti sottostanti sia della fila immediatamente precedente che di quella immediatamente successiva. In questo modo si presentava al nemico una massa compatta e protetta in modo impenetrabile, va comunque detto che la testuggine aveva due lati vulnerabili ovvero quello posteriore e quello inferiore, corrispondente alle gambe dei soldati che rimanevano prive di copertura. Somigliante al carapace delle tartarughe, da cui il nome di testuggine, I legionari potevano così marciare in modo sicuro e agevole, senza affaticarsi, fino a una distanza minima dalle linee nemiche, quando lo schieramento veniva rotto e si iniziava il combattimento corpo a corpo.

Un primo esempio di formazione “a testuggine” utilizzato dalla fanteria romana, viene menzionato da Tito Livio durante l’assedio di Veio e di quello di Roma degli inizi del IV secolo a.C.. In questa situazione i soldati romani serravano le file e si avvicinavano tra loro, quasi fossero delle tegole di un tetto che ripara dalla “pioggia di dardi e frecce”, sovrapponendo gli scudi, tenendoli di fronte a loro ed alzati sulle loro teste. La testuggine era una sorta di carro armato dell’antichità, che avanzava sotto i colpi degli arcieri nemici, limitando al minimo le perdite. Ovviamente questo tipo di formazione aveva anche i suoi punti deboli, primo fra tutti la lentezza e per questo era spesso utilizzata negli assedi, per avvicinarsi alle mura avversarie, oppure in battaglia in campo aperto, quando i legionari si trovavano circondati da ogni lato, come accadde nella campagna partica di Marco Antonio.

Perché fosse efficace la testuggine necessitava di grande affiatamento di reparto, coordinazione nei movimenti ed esercitazioni specifiche, vediamo ora come Cassio Dione la descrive: « Descriverò ora la formazione a testuggine e come si forma. I bagagli, la fanteria leggera ed i cavalieri sono collocati al centro dello schieramento. Una parte della fanteria pesante, armata con gli scudi concavi semicircolari, si dispone a forma di quadrato (agmen quadratum) ai margini dello schieramento, con gli scudi rivolti verso l’esterno a protezione della massa. Gli altri che hanno gli scudi piatti, si raccolgono nel mezzo e stringendosi alzano gli scudi in aria a difesa di tutti. Per questo motivo, in tutto lo schieramento si vedono solo gli scudi e tutti sono al riparo dalle frecce nemiche, grazie alla compattezza della formazione. […] I Romani ricorrono a questa formazione in due casi: quando si avvicinano ad una fortezza per conquistarla […]; o quando, circondati da ogni parte da arcieri nemici, si mettono in ginocchio in contemporanea, compresi i cavalli che sono addestrati a mettersi sulle ginocchia o a sdraiarsi a terra. così fanno credere al nemico di essere sfiniti e quando i nemici si avvicinano, si alzano all’improvviso e li annientano. ».

Lapide di eques da QUI.
La nuova CLASSE dei CAVALIERI a ROMA istituita da GRACCO 
Da epoca remota, probabilmente dal tempo dell'introduzione dell'ordinamento timocratico, la  cavalleria romana è permanente, nel senso che lo stato assicura il reclutamento della cavalleria corrispondendo a un numero fisso di cittadini (nell'epoca storica 1.800) un'indennità per l'acquisto di uno o due cavalli (aes equestre) e per il foraggio (aes hordiarium); si riconoscono cioè le speciali esigenze di  addestramento e di allenamento che richiede il servizio a cavallo. La scelta dei cavalieri era fatta dai magistrati supremi, re e consoli nel tempo più antico, dai censori dopo l'istituzione di questa carica; e alle stesse persone spettava la rassegna periodica della cavalleria per accertarsi delle attitudini militari dei cavalieri e della tenuta delle cavalcature e delle armi. Lo stato si riservò tuttavia il diritto, almeno da una certa epoca, d'imporre il servizio a cavallo anche a coloro che, pur non godendo dell'assegno equestre, possedessero però un determinato patrimonio, che gli mettesse di provvedere con mezzi propri al reperimento di cavalli da guerra. Così si fissò per tempo il cosiddetto "censo equestre" e a questi cavalieri si ricorreva quando non fossero stati sufficienti gli  equites equo publico.

Denario del 96 a.C. col busto
di Diana e sul retro tre cavalieri
 al galoppo che seguono uno
stendardo verso un nemico (latino)
caduto. In esergo: A ALBINVS
 S F. Denario romano coniato
da Aulo Postumio Albino nel
96 a.C. per ricordare il suo avo;
i cavalieri, sul rovescio, ricordano
 la battaglia del lago Regillo dove,
secondo la tradizione, Aulo
Regillense lanciò uno stendardo
tra le schiere nemiche. Di Classical
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.
La principale divisione politico-sociale a Roma era stata quella tra patrizi e plebei, ma nel 123 a.C. il tribuno della  plebe Gaio Sempronio Gracco  introduce tra le due classi una terza, l'Ordo Equestris, per cui i cavalieri iniziarono quindi a rivestire un loro ruolo politico oltre che militare. La Lex Sempronia iudiciaria stabiliva infatti che i giudici dovessero essere scelti tra i cittadini di censo equestre e cioè di età tra i trenta e i sessant'anni, essere o essere stato un eques o comunque avere il denaro per acquistare e mantenere un cavallo e non essere un senatore. Il termine equites perciò, dall'iniziale identificazione di soldati a cavallo, passò prima a indicare chi quel cavallo avesse o avrebbe avuto la possibilità di acquistarlo per poi indicare chi avesse la possibilità di essere eletto come giudice. La corruzione delle province era ormai un cancro diffuso. I governatori, d'accordo con i Pubblicani (appaltatori delle imposte, pagavano allo stato un canone per esigere per proprio conto le tasse) gonfiavano i tributi da riscuotere e se ne intascavano i profitti. I governatori erano sottoposti al controllo del Senato ma spesso erano loro stessi senatori e a nulla era valso, nel 149 a.C. un tribunale creato proprio per questi casi. Gaio Gracco propose che i tribunali fossero assegnati all'ordine equestre, sfruttando la forte rivalità esistente tra le due fazioni.


Il generale e più volte
console Gaio Mario.
La LEGIONE composta dal POPOLO romano e ausiliari stranieri -  Roma, in tarda età repubblicana, si era trovata coinvolta in una guerra in Numidia (dal 112 al 105 a.C.) dove era stato quasi impossibile reperire nuove reclute nell'esercito romano a causa del disinteresse della popolazione per il servizio militare, che non offriva attrattive rilevanti. 

Da questa premessa il console di quell'anno, Gaio Mario, decise di aprire le legioni a chiunque, che fosse o meno possidente, senza discriminazioni di censo e sarebbe stata la Repubblica ad assumersi l'onere di equipaggiare, rifornire e retribuire le truppe legionarie, permettendo a tutti, compresi i nullatenenti, di arruolarsi


Racconta Sallustio: «Mario si accorse che gli animi della plebe erano pieni di entusiasmo. Senza perdere tempo caricò le navi di armi, stipendium per i soldati e tutto ciò che era utile, ordinando a Manlio di imbarcarsi. Egli intanto, arruolava soldati, non come era nell'uso di quel periodo, per classi sociali, ma anzi accettando tutti i volontari, per la massima parte nullatenenti (capite censi).». (Gaio Sallustio Crispo, Bellum Iugurthinum, LXXXVI.).

Dal 107 a.C., nella Repubblica di Roma, il servizio militare diventava così volontariopermanente, retribuito e lo stato si assumeva l'onere di equipaggiare e rifornire le truppe legionarie.
Tutti, compresi i nullatenenti, potevano arruolarsi. L'età minima per i volontari (non più adsidui  coscritti per censo) era ora stabilita a 17 anni, quella massima a 46. Si trattava della prima forma di un esercito di professionisti, dove i soldati veterani congedati, che dall'esercito avevano tratto quotidiano sostentamento (vitto e alloggio, oltre all'equipaggiamento), ottennero una pensione sotto forma di assegnazioni di terre nelle colonie e, più tardi, anche della cittadinanza romana nel caso non l'avessero. Alle legioni, Gaio Mario e i successivi comandanti, concessero anche di dividersi il bottino razziato nel corso delle campagne militari. 

Si trattava della prima forma di esercito di professionisti, dove il combattimento era affidato a centurie di fanteria pesante mentre gli incarichi di fanteria leggera e cavalleria erano affidati a reparti di truppe ausiliarie o alleate, a supporto e complemento della nuova unità legionaria. La stessa cavalleria  legionaria e la fanteria leggera erano rimpiazzate da speciali corpi di truppe ausiliarie, gli auxilia.

Precedentemente le centurie di Romani avevano doveri sia civili (elettorali nei comizi centuriati) che militari nelle legioni, ma dalla riforma militare dell'esercito voluta da Gaio Mario, con la quale l'esercito diveniva volontario e quindi di professione

Il servizio militare era remunerato con uno stipendio, atto che poneva le fondamenta per un esercito di professionisti ed era inoltre consuetudine assegnare appezzamenti di terreno nei territori conquistati o nelle colonie, ai militari congedati, nella misura proporzionale al loro grado.  : l’esercito era costituito da molte legioni affiancate da reparti di auxilia di fanteria leggera e cavalleria


L'organizzazione interna alla legione subiva così un cambiamento epocale: 
- la centuria, che raggruppava un numero variabile tra i sessanta e i cento uomini, anche se in alcuni casi ne contava fino a 160 e in alcune fonti si narra di centurie di 300 unità, rimaneva l'unità  fondamentale della legione romana
- Il manipolo perdeva ogni funzione tattica ed era sostituito dalle coorti, sull'esempio di ciò che era già stato anticipato da Scipione l'Africano un secolo prima nella battaglia di Zama.
- Le coorti erano schieramenti di fanteria pesante, senza distinzioni tattiche come c'erano state fra  principeshastati e triarii e si iniziava ad adottare un armamento uniforme per tutti. 
- Erano abolite, in seno alla legione, sia la fanteria leggera che la cavalleria legionaria. Dopo la guerra sociale del 90-80 a.C., ammessi ormai gli alleati italici alla cittadinanza romana, non ebbero più ragione di esistere le alae e gli ausiliari italici alleati (i socii), e i loro compititi erano svolti da truppe ausiliarie esterne, gli auxilia privi della cittadinanza romana e reclutati fra le popolazioni federate e/o assoggettate, oppure mercenari. Fra i primi auxilia a cavallo, c'erano i Numidi, che avevano avuto un ruolo di rilievo nella vittoria di Zama, così come anche più tardi, nella guerra numantina, a cui si aggiunsero poi i cavalieri spagnoli.

La nuova legione era composta da 10 coorti, numerate da I a X, ogni coorte era formata da sei centurie (pari a tre degli ex manipoli) a parte la prima coorte che era composta da sole cinque centurie ma con il doppio degli effettivi rispetto alle altre coorti e composte dagli uomini più fedeli alla legione. La legione poteva così contare 3.840-4.200, fino a 5.000, soldati di fanteria pesante

Il primo centurione, (Prior)  della prima coorte, era chiamato "primipilo" (Primus pilus), un grado di grandissimo rilievo nella legione e forse l'unico grado che oggi potremmo considerare come quello di "ufficiale", riportato alla codifica moderna. In ogni centuria erano presenti quelli che si potrebbero definire "sottufficiali", come il Tesserarius, il responsabile delle parole d'ordine, il Signifer, il portainsegne di reparto, l'Optio, una sorta di centurione dormiente in grado di prendere il posto in battaglia di quello operativo se ucciso e il Buccinator, il  trombettiere responsabile dei comandi sonori. Molti altri ruoli erano presenti all'interno di ciascuna centuria, con compiti diversi e non sempre relativi a specialità belliche, forse con la sola eccezione degli artiglieri.

 
Compresi gli ufficiali, i militari con altri incarichi, come genio (fabri tignarii ed aerarii), artiglieri, fanfara (tubicines e  cornicines), complementi. portatori di insegne e vessillatori, ai tempi di Gaio Mario gli uomini per legione potevano arrivare a 6.000

Con la riforma mariana, le legioni, ora schierate secondo il nuovo ordinamento coortale,  venivano  disposte normalmente su due linee (duplex acies), soluzione che permetteva di avere un fronte sufficientemente lungo ma anche profondo e flessibile. Vi erano poi altri tipi di schieramenti praticati dalle armate romane del tardo periodo repubblicano: su una sola linea, ovviamente quando era necessario coprire un fronte molto lungo come nel caso del Bellum Africum durante la guerra civile tra Cesare e Pompeo; o su tre linee (triplex acies), formazione spesso utilizzata da Cesare durante la conquista della Gallia, con la prima linea formata da 4 coorti e le restanti due linee, formate da tre coorti ciascuna. Le coorti schierate lungo la terza linea costituivano spesso una "riserva tattica" da utilizzare in battaglia, come fece Cesare contro Ariovisto in Alsazia.

PRIME BATTAGLIE contro i GERMANI - La battaglia di Canne del 2 agosto del 216 a.C., è stata una delle principali battaglie della seconda guerra punica ed è stata, in termini di caduti in combattimento, una delle più pesanti sconfitte subite da Roma, seconda solo alla battaglia di Arausio del 105 a.C., dove per la prima volta i Romani si scontravano con i Germani Cimbri Teutoni.  Vediamo quindi i fatti.

Nel 106 a.C. il console Quinto Servilio Cepione marcia da Narbona, alla testa di ben 8 legioni (composte di 5 000÷6 000 armati l'una), contro le tribù ribellatesi a Roma stanziate nella zona di Tolosa. Si racconta che Cepione cercasse, all'interno della città di Tolosa e per diversi giorni, il tesoro di cui narrava una leggenda, un'enorme quantità di oro che pare fosse custodita nei santuari dei templi (il cosiddetto Oro di Tolosa o Aurum Tolosanum). Non trovando nulla, decise di prosciugare i laghi vicini alla città e ritrovò così sotto la melma 50.000 lingotti d'oro, 10.000 lingotti d'argento e macine interamente in argento, una fortuna incredibile. Durante il trasporto verso Massilia (l'odierna Marsiglia), nel tratto tra Tolosa e Narbona, dove avrebbe dovuto essere imbarcato), 1.000 predoni si impadronirono dei 450 carri che trasportavano i soli lingotti d'oro. A Roma si sospettò dello stesso Cepione, che però fu confermato nel comando anche per l'anno successivo, ma si unì a lui nelle operazioni in Gallia meridionale anche uno dei due nuovi consoli, Gneo Mallio Massimo.

Al pari di Gaio Mario, anche Gneo Mallio Massimo era un uomo nuovo, che non faceva cioè parte di alcuna élite romana e la collaborazione fra lui e Quinto Servilio Cepione si dimostrò fin da subito impossibile. Nel 105 a.C., CimbriTeutoni e Ambroni erano apparsi sul corso del fiume Rodano  proprio mentre l'esercito di Mallio si trovava nella stessa zona. Cepione, che era accampato sulla riva opposta del fiume, si rifiutò in un primo momento di venire in soccorso del collega minacciato, decidendosi ad attraversare il fiume solo dopo che il Senato gli aveva ordinato di cooperare con Mallio. Tuttavia si rifiutò di unire le forze dei due eserciti mantenendosi a debita distanza dal collega. Il primo scontro si ebbe 65 km a nord di Arausio (l'attuale Orange in Francia) quando un certo Marco Aurelio Scauro, alla testa di 5.000 cavalieri, ingaggiò una prima battaglia, che gli fu sfavorevole, con le avanguardie della coalizione germanica. I successivi due scontri si rivelarono disastrosi per entrambi i comandanti romani. Prima Cepione (alla testa di 7 legioni) fu battuto a 48 km a Nord di Arausio e poi Manlio (alla testa delle 7 legioni precedenti a cui se ne erano aggiunte altre 2) a soli 8 km a nord di Arausio, il 6 ottobre del 105 a.C., subì una nuova disfatta. I Romani dovettero combattere con il fiume alle spalle che impediva loro la ritirata e, stando alle cronache, furono uccisi 80.000 soldati e 40.000 ausiliari. Dopo gli scontri, i Cimbri si spostarono in direzione dell'Hispania per dedicarsi  al  saccheggio della penisola iberica mentre Teutoni e Ambroni si stanziarono nella Gallia Narbonense, diventata dal 121 a.C. provincia romana.

Le perdite subite nel decennio precedente erano state molto gravi, ma questa sconfitta, provocata soprattutto dall'arroganza della nobiltà che si rifiutava di collaborare con i più capaci capi militari non nobili, fu la goccia che fece traboccare il vaso. Non soltanto le perdite umane erano state enormi, ma l'Italia stessa era ormai esposta all'invasione delle orde barbariche. Il malcontento del popolo contro l'aristocrazia stava raggiungendo ormai l'esasperazione. Nell'autunno del 105, mentre si trovava ancora in Africa, Gaio Mario fu rieletto console. L'elezione in absentia era una cosa abbastanza rara e inoltre una legge successiva all'anno 152 a.C., imponeva un intervallo di almeno 10 anni fra due consolati successivi, mentre sembra che una legge del 135 a.C. addirittura proibisse che questa carica potesse essere rivestita per due volte dalla stessa persona. La grave minaccia incombente dal nord fece tuttavia passare sopra ad ogni legge e consuetudine e Mario, ritenuto il più abile comandante disponibile, sarà rieletto console per ben 5 volte consecutive, dal 104 al 100 a.C., cosa mai avvenuta in precedenza.

Gaio Mario. Immagine
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Da https://it.wikiquote.
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#/media/File:Bust_of_
Marius_(GL_319)_-
_Glyptothek_-_Munich
_-_Germany_2017.jpg

Nel 103 a.C. i Germani indugiavano ancora nelle  proprie scorribande  in Hispania ed in Gallia e questo fatto, insieme alla morte del console collega Lucio Aurelio Oreste, consentì a Gaio Mario, che stava già marciando verso nord, di rientrare a Roma per  venirvi confermato  console per l'anno 102 a.C., insieme ad un nuovo collega, Quinto Lutazio Càtulo.

Gaio Mario (Cereatae, nel territorio del comune di Veroli, in provincia di Frosinone, oggi Casamari, da "casa Marii",157 a.C. - Roma, 13 gennaio 86 a.C.) è stato un "uomo nuovo", che non faceva cioè parte di alcuna élite romana. Militare e politico romano, per sette volte è stato console della Repubblica romana. Lo storico Plutarco gli dedicherà una delle sue "Vite parallele", raffrontandolo al re d'Epiro Pirro, della stirpe macedone di Alessandro. La carriera di Gaio Mario non sembrava destinata a grandi successi fino al 110 a.C., quando gli fu proposto un matrimonio con una giovane esponente dell'aristocrazia, Giulia Maggiore, sorella del senatore Gaio Giulio Cesare il vecchio e futura zia di Gaio Giulio Cesare. Mario accettò, divorziando dalla sua prima moglie Grania di Pozzuoli. La gens Iulia era una famiglia patrizia di antichissime origini (faceva risalire la propria discendenza a Iulo, figlio di Enea, e a Venere, dea della bellezza), ma nonostante ciò i suoi appartenenti avevano, per ragioni finanziarie, notevoli difficoltà a ricoprire cariche più elevate di quella di pretore (solamente una volta, nel 157 a.C. un Giulio Cesare era stato console). Il matrimonio permise alla famiglia patrizia di rimettere in sesto le proprie finanze e diede a Mario la legittimità per candidarsi al consolato. Da sottolineare comunque che Gaio Mario è stato il campione del partito dei populares  così come Lucio Cornelio Silla lo è stato degli aristocratici optimates e lo stesso Gaio Giulio Cesare rimarrà fedele ai populares fino al suo assassinio, avvenuto nel Senato, il tempio degli optimates patrizi, i patres della patria.

Invasione di Cimbri e Teutoni.
 Croci verdi per le loro
 vittorie e croci rosse per
 le sconfitte. Immagine di
TcfkaPanairjdde - Cimbri
ans and Teutons.png, CC
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 Da  https://it.wikipedia.
org/wiki/Guerre_cimbric
he#/media/File:Cimbrians
_and_Teutons_-_it.png

Nel 102 a.C. i Cimbri dall'Hispania tornano in Gallia e insieme ai Teutoni e agli Ambroni, decidono un attacco congiunto alla Repubblica romana. Dalla Gallia, i Teutoni e gli Ambroni avrebbero dovuto puntare a sud-est dirigendosi verso le coste del Mediterraneo, mentre i Cimbri dovevano penetrare nell'Italia Settentrionale da nord-est attraversando il passo del Brennero (”per alpes Rhaeticas”). Infine i Tigurini, la tribù celtica loro alleata che aveva sconfitto Longino nel 107, progettava di attraversare le Alpi provenendo da nord-ovest. La decisione di dividere in questo modo le loro forze si sarebbe dimostrata fatale, poiché diede ai Romani, avvantaggiati anche dalle linee di approvvigionamento molto più corte, la possibilità di affrontare separatamente i vari contingenti, concentrando le proprie forze laddove era di volta in volta necessario. Così mentre Ambroni e  Teutoni transitavano nella Gallia Narbonense (a est di Marsiglia) verso l'Italia, i Cimbri si dirigevano verso il passo  del Brennero  (”per alpes Rhaeticas”) per poi entrare da lì in Italia. Il  console  Gaio Mario decise così di intercettare Teutoni e Ambroni, che si trovavano in quel momento nella provincia romana della Gallia Narbonense e si stavano dirigendo verso le Alpi alla volta dell'Italia, stabilendo un campo sul loro percorso.

Aquilifer. Immagine di
Marten253 - Opera
propria, CC BY-SA 3.0
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Sallustio narra che Gaio Mario usò per la prima volta l'aquila come insegna nella guerra contro i Cimbri, consegnandone una ad ogni legione. In battaglia e durante le marce era tenuta in consegna dall'aquilifer (aquilifero) e strenuamente difesa. La sua perdita era motivo di disonore e poteva causare lo scioglimento dell'unità. L'aquila, nel periodo antico, rappresentava l'Icona di Giove, padre di tutti gli dei e protettore dello stato. Come tale fungeva da simbolo del potere di Roma e del suo impero e venne utilizzata da allora come insegna da parte dell'esercito. Ai tempi di Gaio Giulio Cesare, l'aquila delle legioni era d'argento e oro ma a partire dalla riforma augustea il materiale utilizzato fu il solo oro. L'aquila era custodita dalla prima centuria della prima coorte, conservata presso l'accampamento (assieme ai signa militaria) all'interno dell'aedes signorum, uno degli edifici dei Principia (quartier generale della legione). L'aquila usciva dall'accampamento romano solo in occasione dei trasferimenti dell'intera legione, sotto la responsabilità di un sottufficiale legionario, l'Aquilifer che, oltre a doverne garantire la custodia, era incaricato di portarla in battaglia e difenderla anche a costo della propria vita. In tal senso, l'aquilifer può essere paragonato ad un alfiere, quindi un giovane ufficiale dei moderni eserciti e la stessa aquila può essere considerata come una bandiera di guerra o uno stendardo. Era segno di grave disfatta la sua perdita, evento che accadde in rare occasioni, come nel corso della battaglia della foresta di Teutoburgo nel 9 d.C., quando ben tre aquilae caddero nelle mani del nemico germanico.

Gli Ambroni e i Teutoni, guidati dal loro re Teutobod, assaltarono il campo romano venendo respinti e decisero quindi di proseguire verso l'Italia aggirando il campo, ma Mario li seguì accampandosi vicino a quella che sarebbe passata alla storia col nome di battaglia di Aquae Sextiae (l'attuale Aix en Provence, insediamento fondato dal console Gaio Sestio Calvo nel 109 a.C.), in modo da sbarrare il cammino ai Germani. Gaio Mario aveva organizzato nel migliore dei modi la propria armata, i soldati erano stati sottoposti ad un addestramento che mai in precedenza si era visto, e si erano abituati a sopportare senza lamentele le fatiche delle lunghe marce e dell'allestimento di accampamenti e macchine da guerra, tanto da meritarsi il soprannome di muli di Mario. Ad Aquae Sextiae, alcuni contingenti di Ambroni, l'avanguardia dell'esercito dei Germani, si lanciarono avventatamente all'attacco delle posizioni romane, senza aspettare l'arrivo di rinforzi, attaccando i Romani mentre stavano attingendo acqua da un vicino fiume. I Liguri, alleati dei Romani, accorsero ad aiutarli ricacciando gli Ambroni al di là del fiume. Secondo Plutarco, in occasione della battaglia di Aquae Sextiae del 102 a.C., quando i Liguri alleati dei romani urlarono "Ambrones!" come grido di battaglia, ottennero in risposta lo stesso grido dal fronte opposto dei Celti Ambroni, che seguendo i costumi celtici, urlavano il nome della propria tribù durante le entrate in battaglia. Da ciò deriva l'ipotesi di una derivazione culturale o contaminazione, nel settentrione italico, dei Celti dai Liguri (la cui originaria espansione si estendeva presumibilmente dalla penisola a quella iberica e nella Francia meridionale prima dell'espansione dei Celti, mentre i Romani consideravano gli Ambroni Germani, non Celti. Queste circostanze suggeriscono la presenza di etnie miste, probabilmente in origine liguri poi celtiche così come etnie celtiche assimilate poi dai Germani. Non solo gli Ambroni provenivano da una regione settentrionale recentemente germanizzata, ma in quel periodo le tribù germaniche venivano pesantemente influenzate dalla cultura celtica.

Nella battaglia di Aquae Sextiae (ad Aix-en-Provence), i Romani ricompattarono i ranghi rigettando gli Ambroni che tentavano di nuovo di oltrepassare il fiume e lì gli Ambroni persero buona parte delle loro forze e 30.000 di loro rimasero uccisi. Gaio Mario schierò poi un contingente di 3.000 uomini per tendere un'imboscata al grosso dell'esercito dei Germani, che presi alle spalle e attaccati frontalmente, furono completamente sterminati e persero 100.000 uomini mentre quasi altrettanti ne furono catturati. Gli Ambroni furono annientati e, fondendosi con i Celti locali, diedero vita ad una nuova tribù, gli Aduatuci, storia che si può trovare nella vita di Gaio Mario nell'opera "Vite Parallele" di Plutarco scritta nell'80. Dopo la battaglia, i Teutoni non verranno più nominati nelle fonti romane. Le parti dell'esercito teutone sopravvissute alla sconfitta si stabilirono presso la Mosa sotto il nome anch'essi, di Aduatuci. Verosimilmente, ancora nel II - III secolo d.C., risiedevano nei dintorni del Meno. Dalle loro prime vittorie contro gli eserciti romani, si era creato un collegamento fra i Teutoni ed il terrore che avevano generato, così che gli storici romani parlavano di furor teutonicus, furore teutonico. A partire dalla tarda età carolingia, l'aggettivo latino teutonicus venne utilizzato per indicare la popolazione residente nell'Impero carolingio che non parlasse una lingua romanza (così come il  termine "theod" da cui deriva "theodiscus" da cui "tedesco") e nel corso del Medioevo, venne utilizzato come traduzione per deutsch, tedesco (ad esempio, Ordo Teutonicus o ordine dei Cavalieri Teutonici, è la traduzione di Deutscher Orden). A volte, un "tedesco tipico" viene indicato come teutone o teutonico nel senso di "un uomo di forma possente e robusta" o di deutschtümelnd, oppure, a scopo ironico, un individuo che accenti fortemente i tratti caratteriali di tedesco.

Nel 101 a.C. il collega di Gaio Mario, Quinto Lutazio Càtulo, console nel 102, non era invece riuscito ad impedire che i Cimbri forzassero il passo del Brennero avanzando nell'Italia settentrionale verso il finire del 102 a.C.. Gaio Mario apprese la notizia mentre si trovava a Roma, dove era rieletto console per l'anno 101 a.C. e immediatamente si mise in marcia per ricongiungersi con Càtulo, il cui comando fu prorogato anche per il 101 a.C. Infine, nell'estate del 101 a.C., a Vercelli, nella Gallia Cisalpina, in una località allora chiamata Campi Raudii, ebbe luogo lo scontro decisivo. Ancora una volta la ferrea disciplina dei Romani ebbe la meglio sull'impeto dei Cimbri e almeno 65.000 di loro (o forse 100.000) perirono, mentre tutti i sopravvissuti furono ridotti in schiavitù. I Tiguriniclan dei Celti Elvezia quel punto rinunciarono al loro proposito di penetrare in Italia da Nord-Ovest e rientrarono nelle loro sedi. Càtulo e Mario, come consoli in carica, celebrarono insieme uno splendido trionfo, ma nell'opinione popolare, tutto il merito venne attribuito a Mario. In seguito Càtulo si trovò in contrasto con Mario, divenendone uno dei più accaniti rivali. Come ricompensa per avere sventato il pericolo dell'invasione barbarica, Mario venne rieletto console anche per l'anno 100 a.C. Gli avvenimenti di quell'anno, tuttavia, non gli furono propizi, poiché proprio nel corso dell'anno il tribuno della plebe Lucio Appuleio Saturnino richiese con forza che si varassero riforme simili a quelle per cui si erano in passato battuti i Gracchi. Propose quindi una legge per l'assegnazione di terre ai veterani della guerra appena conclusasi e per la distribuzione da parte dello stato di grano a prezzo inferiore a quello di mercato. Il senato si oppose a queste misure, provocando così lo scoppio di violente proteste, che presto sfociarono in una vera e propria rivolta popolare, e a Mario, come console in carica, fu chiesto di reprimerla. Sebbene egli fosse vicino al partito popolare, il supremo interesse della repubblica e l'alta magistratura da lui rivestita gli imposero di assolvere, sebbene riluttante, a questo compito. Dopodiché lasciò ogni carica pubblica e partì per un viaggio in Oriente mentre Roma conobbe alcuni anni di relativa tranquillità.

Marco Licinio Crasso
da QUI.

Nel 60 a.C. si stipula il primo triumvirato, accordo privato mantenuto segreto per un po' di tempo come vertice del progetto politico di spartizione del potere  fra Gaio Giulio CesareGneo (pronuncia G dura di "ghianda") Pompeo Magno e Marco Licinio Crasso, gli ultimi due colleghi consoli nel 70 a.C., quando avevano emanato una legge per il completo ripristino dei poteri dei tribuni della plebe (come dittatore, Lucio Cornelio Silla aveva di fatto tolto tutti i poteri ai tribuni della plebe ad eccezione dello ius auxiliandi, il diritto di aiutare un plebeo in caso di persecuzioni da parte di un magistrato patrizio) ma che fino a quel momento avevano avuto una notevole antipatia reciproca, giacché ognuno riteneva che l'altro avesse superato i propri limiti per aumentare la sua reputazione a spese del collega. Il primo triumvirato ebbe  notevolissime ripercussioni sulla vita politica, dettandone gli sviluppi per quasi dieci anni e segnò l'inizio dell'ascesa politica di Gaio Giulio Cesare.

Crasso era l'uomo più ricco di Roma (aveva infatti finanziato la campagna elettorale di Cesare per il consolato) ed era un esponente di spicco della classe dei cavalieri, gli Equites. Pompeo, dopo aver brillantemente risolto la guerra in Oriente contro Mitridate e i suoi alleati, era il generale con più successi alle spalle. Il rapporto tra Crasso e Pompeo non era dei più idilliaci, ma Cesare con la sua fine abilità diplomatica seppe riappacificarli, vedendo in un'alleanza tra i due l'unico modo in cui egli stesso avrebbe potuto raggiungere i vertici del potere. Crasso serbava infatti verso Pompeo un certo rancore da quando aveva celebrato il trionfo per la guerra contro Sertorio in Spagna e la vittoria contro gli schiavi ribelli che, soffocata la rivolta di Spartaco, cercavano di fuggire dall'Italia per attraversare l'arco alpino. Ogni merito era andato a Pompeo, mentre Crasso, vero artefice della sofferta vittoria su Spartaco, aveva potuto celebrare soltanto un'ovazione.

Pompeo avrebbe dovuto sostenere la candidatura al consolato di Cesare,  mentre Crasso  l'avrebbe dovuta finanziare. In cambio di quest'appoggio, Cesare avrebbe fatto in modo che ai veterani di  Pompeo  venissero distribuite delle terre, e che il Senato ratificasse i provvedimenti presi da Pompeo in Oriente. Al contempo, com'era desiderio di Crasso e dei cavalieri, fu ridotto di un terzo il canone  d'appalto delle imposte della provincia d'Asia. A rinsaldare ulteriormente quanto previsto dal triumvirato, Pompeo sposò Giulia, figlia di Cesare.

La sconfitta di Crasso a Carre rimane comunque l'emblema della debolezza di un esercito privo di forze mobili, esposto ai colpi di una cavalleria sfuggente e dedita alla tattica d'incalzo.

La battaglia di Carre fu combattuta il 9 giugno dell'anno 53 a.C. presso la città di Carre (oggi Harran, in Turchia) tra l'esercito della Repubblica romana comandato dal generale romano Marco Licinio Crasso e l'esercito partico al comando dell'Eran Spahbod Surena. La battaglia si rivelò un disastro per le forze romane in Medio Oriente. Convenientemente il casus belli (motivo della guerra) gli fu fornito dalle lotte dinastiche dei Parti: dopo la morte di re Fraate III, i figli - Mitridate e Orode - se ne contesero il trono; i Romani appoggiavano Mitridate, ma fu Orode il vincitore e Mitridate richiese il loro intervento. Crasso decise di entrare nel territorio nemico dal sud attraverso il deserto siriano - anziché dalle montagne armene a nord - con l'intento di sorprendere Surena, e avanzò con circa 32.000 legionari e 4.000 ausiliari. Anziché seguire il corso dell'Eufrate fino a Seleucia, così assicurandosi un fianco protetto e rifornimenti di acqua - come avevano suggerito i subordinati, specialmente Cassio, questore delle legioni - Crasso decise di attraversare il deserto siriano, mirando al colpo decisivo con il grosso del nemico. Secondo Plutarco, la decisione di attraversare il deserto fu presa dopo che tre nobili Parti, presentatisi orribilmente mutilati - di labbra, naso e mani - convinsero Crasso del loro desiderio di vendetta per le torture subite e gli consigliarono di seguire un percorso alternativo, per sorprendere le forze partiche stanziate nel deserto. Impressionato dalla crudeltà con la quale i tre erano stati torturati, Crasso seguì il loro consiglio avventurandosi tra le sabbie, ignaro che in realtà questi nobili si erano fatti mutilare volontariamente per tendergli un tranello.

Dal momento che le truppe romane avanzavano lentamente arrancando nel deserto, durante la marcia i Parti, invece di accettare uno scontro campale attaccavano coi loro arcieri a cavallo, colpendo a distanza e infliggendo gravi perdite al nemico per dileguarsi prima che questo potesse reagire. Lungi dall'allarmarlo, tale tattica persuase Crasso che i Parti fossero codardi, incapaci di un confronto aperto.

Quando finalmente i Parti decisero di dare battaglia, le forze romane erano stanche dal lungo peregrinare nel deserto. Crasso schierò inizialmente l'esercito nella classica formazione in linea con la fanteria al centro e la cavalleria sulle ali, ma poi decise di schierare il suo esercito a quadrato: una formazione difensiva contro un esercito, quello partico, formato prevalentemente dalla cavalleria. Dopo le iniziali schermaglie con la fanteria leggera romana, i Parti caricarono con i loro cavalieri catafratti, che però non riuscirono a sfondare e si ritirarono. A quel punto entrarono in battaglia gli arcieri a cavallo che con il loro incessante lancio di frecce inflissero gravi danni all'esercito romano e lo indussero ad attaccare. Il lato sinistro dello schieramento comandato da Publio, figlio di Crasso, attaccò con tutti i 1300 cavalieri gallici e 8 coorti: i veloci arcieri a cavallo parti si ritirarono, continuando a lanciare frecce e portando l'ala nemica sempre più lontana dal resto della formazione. Poi circondarono e caricarono le truppe romane con i cavalieri catafratti, fino a distruggerle e ad uccidere Publio.

Schema della battaglia di
 Carre, da https://best5.it/
post/le-5-sconfitte-peggi
ori-dellimpero-romano/
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I romani tornarono all'accampamento per la notte, con loro grande scoramento. Crasso, sapendo di non poter più dare battaglia con un morale così basso, nella notte decise di abbandonare l'accampamento e lasciare i feriti ai nemici. L'operazione ebbe successo e i romani riuscirono a rifugiarsi nella roccaforte di Carre (da cui la battaglia prende il nome). Qui tuttavia, invece di resistere aspettando rinforzi e contando sulla mancanza nei Parti della fanteria necessaria per mettere sotto assedio una città, Crasso decise di muoversi verso l'alleato armeno a nord, secondo Plutarco anche a causa del suggerimento di un traditore, Andromaco. Qui avvenne la frattura tra Crasso e Cassio: quest'ultimo, già da tempo in disaccordo con Crasso sulla conduzione della campagna, decise di muoversi a sud-est verso la Siria: una via di fuga più lunga ma meno prevedibile. Il reparto di Crasso, fuggito a nord, fu intercettato da Surena e annientato vicino alla cittadina di Orfa. Solo i 10.000 soldati di Cassio si salvarono, rifugiandosi in Siria. Si disse in seguito che i feriti furono massacrati, e che a Crasso, uno degli uomini più facoltosi nella storia di Roma, fu versato dell'oro fuso in bocca, come punizione per la fame di ricchezze che lo aveva spinto nell'impresa.

Scordiscum, dal libro "Ad Arma!"
ephippia.html?jjj=1657897648085: In epoca monarchica e repubblicana, la sella (ephippia) dei rari cavalieri romani, e dei più numerosi alleati Italici, era probabilmente costituita da una semplice coperta o gualdrappa (tapetum) o da una protezione in cuoio (ephippium) di derivazione greca; intorno al I secolo a.C., il misurarsi degli eserciti romani contro abili cavalieri Galli (nome con cui i Romani chiamavano i Celti, N.d.R.) e l’arruolamento di svariati reparti di cavalleria ausiliaria di tradizione non italica, portò all’adozione della sella a quattro corni (scordiscum). Questo tipo di sella era formata da una struttura in legno con quattro protuberanze a forma di corno, due davanti leggermente inclinate verso l’esterno, a contatto con le gambe del cavaliere, e due dietro all’altezza delle reni, una sorta di doppia “U” nelle quali il cavaliere poteva quasi incastrarsi, impedendo o limitando così le cadute accidentali (mentre le staffe non erano ancora in uso). Le strutture lignee erano rinforzate con placche di bronzo e il tutto ricoperto di cuoio o pelle. Questo tipo di sella era sovrapposta all’usuale gualdrappa e assicurata al cavallo con una cinghia ventrale. E’ comunque quasi certo che molti reparti di cavalleria non utilizzassero la sella ma si limitassero all’uso di gualdrappe.

Gaio Giulio Cesare,
da QUI.

Il costante contatto con il mondo dei Celti e dei Germani, indusse Gaio Giulio Cesare a rivalutare il corpo della cavalleria, tanto che ne fece un impiego crescente negli anni, reintroducendo unità di cavalleria permanente accanto alla fanteria delle legioni e a quella ausiliaria. Reclutò tra le sue fila soprattutto Galli e Germani, inquadrando queste nuove unità sotto decurioni romani, con grado pari a quello dei centurioni legionari. L'equipaggiamento dei cavalieri era costituito da un sago, una cotta di maglia in ferro, l'elmo e probabilmente uno scudo rotondo. La sella era di tipo gallico, con quattro pomi ma senza staffe. I cavalli erano probabilmente ferrati, come da tradizione gallica. Come armi da offesa portavano il gladio e il pilum, o un'asta più pesante detta contus.

Nelle campagne per la conquista delle Gallie, Cesare richiedeva, alle popolazioni celtiche assoggettate-alleate, contingenti di cavalleria, che veniva così definita cavalleria gallo-romana, utilizzata perlopiù per contrastare i vari insediamenti di Germani nelle Gallie stesse. Già verso la fine della conquista delle Gallie poi, anche i Germani andarono a costituire reparti di cavalleria ausiliaria dell'esercito Romano.

Giulio Cesare era giunto in Gallia nel 58 a.C., dopo il consolato dell'anno precedente. Era, infatti, consuetudine che i consoli, gli ufficiali più elevati in grado di Roma, alla fine del loro mandato fossero nominati governatori in una delle province dal Senato. Grazie agli accordi del Primo triumvirato (l'alleanza politica non ufficiale con Gneo Pompeo Magno e Marco Licinio Crasso), Cesare era stato nominato governatore della Gallia Cisalpina (la regione, compresa fra Alpi, Appennini e Adriatico, che corrisponde all'odierna Italia settentrionale), dell'Illirico e della Gallia Narbonense.

Cesare, col pretesto di dover impedire che il popolo celtico degli Elvezi migrasse attraverso la Gallia e lasciasse i propri terrori ai Germani, evento scomodo per Roma, si era intromesso negli affari interni delle popolazioni celtiche, che i romani chiamavano Galli, finché non furono tutte assoggettate: cominciò da quelle della Gallia Belgica, per poi spingersi fino a sottomettere quelle della costa atlantica, fino all'Aquitania. Furono battute inoltre, diverse popolazioni germaniche, in entrambe le sponde del Reno; Cesare attraversò il Reno due volte, nel 55 e 53 a.C. e, primo tra i Romani, condusse due spedizioni contro i Britanni d'oltre Manica nel 55 e 54 a.C.

Prima della conquista della Gallia da parte di Gaio Giulio Cesare, spinte alle spalle  dalla pressione dei  Suebi, le tribù germaniche degli Usipeti e dei Tencteri avevano vagato per tre anni e si erano spinte a nord del fiume Meno, fino a raggiungere le regioni abitate dalla tribù celtico-gallica dei Menapi, alla foce del Reno. I Menapi possedevano, su entrambe le sponde del fiume, campi, casolari e villaggi e quindi, spaventati dall'arrivo di quella moltitudine di genti (Cesare sostiene fossero ben 430.000 persone), abbandonarono gli insediamenti a est del Reno e posero alcuni presidi lungo il fiume, per impedire ai Germani di passare in Gallia. Non riuscendo ad attraversare il fiume, Tencteri ed Usipeti simularono la ritirata per poi tornare improvvisamente di notte facendo strage dei Menapi che erano tornati nei loro villaggi. Si impadronirono quindi delle loro navi e passarono il fiume Reno, occuparono i loro villaggi in Gallia e si nutrirono per tutto l'inverno con le loro provviste. 

Venuto a conoscenza di questi fatti, Cesare decise di anticipare la sua partenza per la Gallia e raggiungere le sue legioni, che svernavano nei territori della Gallia Belgica. Era venuto inoltre a sapere che alcune tribù galliche avevano invitato le tribù germaniche ad abbandonare i territori appena conquistati del basso Reno, per inoltrarsi in Gallia. « Attratti da questa speranza, i Germani si spinsero più lontano con le loro scorrerie, fino ai territori degli Eburoni e dei Condrusi, che sono un popolo cliente dei Treviri [...] Cesare dopo aver blandito ed incoraggiato i capi della Gallia, ed avergli richiesto reparti di cavalleria alleata, stabilì di portare la guerra ai Germani [...] Cesare dopo aver provveduto a raccogliere frumento ed arruolati i cavalieri si diresse verso le regioni dove si diceva si trovassero i Germani. » (Cesare, De bello Gallico, IV, 6-7,1). 

I Germani Usipeti e Tencteri, che si trovavano in una località non molto distante dall'attuale città olandese di Nimega (in olandese Nijmegen), una volta venuti a conoscenza dell'avvicinamento dell'esercito romano decisero di inviare ambasciatori a Cesare, per chiedere al generale il permesso di stanziarsi in quei territori, offrendo in cambio la loro amicizia. Gli ricordarono il motivo per cui erano stati costretti a migrare ed il loro valore in battaglia, ma Cesare negò loro il permesso di occupare territori della Gallia sostenendo che non era giusto che i Germani si impadronissero delle terre di altri popoli, proprio loro che non erano stati capaci di difendere i propri territori dalle scorrerie dei Suebi. Cesare consigliò loro di riattraversare il Reno e di occupare i territori del popolo amico degli Ubi, che avevano chiesto a Cesare di intervenire oltre il grande fiume offrendogli la loro alleanza, per potersi liberare finalmente dal giogo dei vicini Suebi

Gli Ubi (in latino Ubii) erano un'antica popolazione germanica che aveva abitato, fino al 38 a.C., la sponda destra del fiume Reno nei territori di fronte all'attuale città di Koeln (Colonia), territori che confinavano a sud con quelli dei Suebi, di cui gli Ubi dovettero diventare tributari. Appartenenti, secondo Tacito, agli Istaevones (i Germani occidentali), confinavano, nella Gallia al di là del Reno, con i Treveri, anch'esso popolo originariamente germanico. Nel 55 a.C., Giulio Cesare, poco prima di oltrepassare il Reno e compiere la prima incursione romana in territorio germanico, descriveva così questo popolo: 

«...gli Ubi, nazione che in passato fu potente e florida... È un poco più civilizzata degli altri popoli proprio perché in prossimità del fiume Reno, e sono spesso visitati dai mercanti e questa vicinanza li fa assomigliare agli usi e costumi dei vicini Galli... ed i vicini Suebi, non avendo potuto cacciarli, malgrado ci avessero provato in passato con molte guerre, proprio per l'importanza e potenza di questa nazione, li sottomisero a sé come tributari, facendoli diventare meno importanti e più deboli...» (Cesare, De bello Gallico, IV, 3, 3-4).

Nel frattempo era stata quindi stabilita una tregua fra Usipeti e Tencteri con Cesare, al fine di giungere ad una soluzione, ma durante la tregua, quei Germani si scontrarono con uno squadrone di cavalleria gallo-romana, e lo costrinsero alla fuga. Così, quando gli ambasciatori di Usipeti e Tencteri si recarono da Cesare per giustificarsi, lui li accusò di non aver rispettato l'accordo, li fece imprigionare, dopodiché con una mossa fulminea, piombò sull'accampamento germanico difeso solo da carri e bagagli, massacrò uomini donne e bambini (quasi 200.000 persone) e costrinse i superstiti alla fuga verso nord, in direzione della confluenza del Reno con la Mosa, lungo uno dei tratti finali del Reno, quello più occidentale, chiamato Waal. L'azione, particolarmente cruenta, suscitò la sdegnata reazione di Catone, che propose al senato di consegnare Cesare ai Galli, in quanto colpevole di aver violato i diritti degli ambasciatori. Il Senato invece, proclamò una lunghissima supplicatio di ringraziamento di ben quindici giorni.

Le legioni , per necessità militari, ebbero modo di costruire eccellenti infrastrutture, come strade, acquedotti, fortificazioni e ponti.

Ricostruzione del ponte sul Reno fatto costruire
da Gaio Giulio Cesare, tela di John Soane del 1814,
da https://it.wikipedia.org/wiki/Ponte_di_Cesare_sul_
Reno#/media/File:Il_ponte_di_Cesare_sul_Reno.jpg
Nel 55 a.C. quindi, per rispondere alla richiesta di soccorso dei nuovi alleati Ubi e punire i loro oppressori, Cesare si decide ad attraversare  il Reno ed entrare in Germania tramite la costruzione di un ponte di legno che accedesse ai territori degli alleati Ubi, in una località identificata con Neuwied, 15 km a nord di Coblenza, per attuare un'azione dimostrativa che intimorisse e scoraggiasse definitivamente i propositi di tribù germaniche a stanziarsi in futuro nelle Gallie e/o di fornire truppe mercenarie ai Galli, intromettendosi fra le loro vicende e Roma. Il fiume Reno si presentava allora particolarmente largo e profondo, inoltre la rapidità delle sue acque richiedeva una struttura molto solida per un ponte. Per questo motivo furono utilizzati come sostegni dei cavalletti a due gambe, di cui ciascuna costituita da due pali molto robusti (con un diametro di 45 cm) ricavati da robusti tronchi, uniti tra loro da traverse lunghe circa 60 cm. Questa struttura diede a ciascuna gamba l'aspetto di una scala a pioli, ma essa si opponeva efficacemente alla corrente del fiume. 

I pali avevano lunghezza variabile a seconda della profondità del fiume e furono calati nel fiume con apposite attrezzature, quindi messi in posizione e infissi con dei battipali. La parte che veniva appuntita veniva conficcata nel fondo del fiume e non si innalzavano perpendicolarmente al letto, ma venivano inclinati in modo che i pali a monte avessero la corrente contro, mentre quelli a valle l'avessero a favore. Una grossa trave teneva unita la coppia di piloni, completando il cavalletto. Su questa struttura poggiavano travi spesse 60 cm e lunghe quanto la distanza che vi era tra un pilone e l'altro, cioè 5 m. 
La pavimentazione era costituita di un’intelaiatura di legno poggiata su tronchi trasversali e ricoperta di tavole. Alla solidità bisognava affiancare l'elasticità, per cui non vennero utilizzati chiodi, ma legature in corda. Vennero anche approntate altre opere di rinforzo secondarie: a valle furono fissati altri pali obliqui per aumentare la resistenza alla corrente del ponte, mentre poco più a monte vennero costruite delle palizzate per attutire eventuali colpi subiti da alberi o navi che le popolazioni germaniche potevano lasciare nel fiume in modo da danneggiare il ponte. Il ponte doveva avere una carreggiata di circa 4 m ed era lungo poco meno di 500 m., con 56 campate di 8 m. che costituivano il ponte sul Reno. L'opera, secondo Cesare, fu completata in soli dieci giorni. Approntato il lungo ponte di legno sul Reno, Cesare lo attraversò con le sue truppe (composte da 8 legioni di 5/6.000 armati ciascuna) e si accamparono presso i nuovi alleati Ubi, poi per 18 giorni operarono una serie di devastazioni nei vicini territori dei Sigambri (che in seguito costituirono la confederazione dei Franchi) e dei Suebi (che in seguito costituirono la confederazione degli Alemanni o Alamanni), per fargli intendere di lasciare in pace gli Ubi, nuovi alleati di Roma. Terrorizzati a sufficienza i Germani, Gaio Giulio Cesare decise di far ritorno in Gallia, distruggendo il ponte alle proprie spalle per non lasciare facile accesso alla Gallia e fissando il confine della Gallia assoggettata alla Repubblica romana, sul Reno. (Gaio Giulio Cesare, De bello Gallico, IV, 16, 2; 18, 2; 19, 4 e Cassio Dione, Storia romana, XXXIX, 48).

I ponti sul Reno, fatti costruire da Gaio Giulio Cesare dai propri legionari nel corso delle campagne condotte per la conquista delle Gallie, sono stati due

Al primo ponte costruito nel 55 a.C. ne seguì un secondo, costruito due anni più tardi, nel 53 a.C., poco più a monte (2 km circa) del primo, in una località compresa tra Urmitz e Weissenturm, ancora una volta di fronte alla sponda germanica abitata dagli Ubi, i primi germanici ad allearsi con Cesare.

Cesare ha lasciato scritto che nel 53 a.C. il suo legato, Quinto Tullio Cicerone, a capo di 7 coorti legionarie della legio XIV, era stato sconfitto presso Atuatuca, capitale degli Eburoni (l'attuale Tengeren, nel Belgio fiammingo) da 2.000 guerrieri dei Germani Sigambri.
In compenso, venuto a sapere del nuovo successo ottenuto dal suo legato Tito Labieno sui Treveri (popolazioni germaniche insediate in Gallia), decide di passare per la seconda volta il Reno, costruendovi un secondo ponte con la stessa tecnica del primo (il secondo ponte fu costruito 2 km circa a monte del primo), in una località compresa tra Urmitz e Weissenturm, nei pressi di Coblenza, ancora una volta di fronte alla sponda germanica abitata dagli alleati Ubi).
I motivi che lo spinsero a prendere questa decisione erano due:
1. i Germani avevano mandato in Gallia aiuti ai Treveri contro i Romani,
2. Cesare temeva anche che Ambiorige degli Eburoni potesse trovarvi rifugio.
« Stabilito ciò, decise di costruire un ponte un poco più a monte del luogo dove aveva attraversato il fiume la volta precedente [...] dopo aver lasciato un forte presidio a capo del ponte nel territorio dei Treveri, per impedire che si sollevassero di nuovo [...] portò sulla sponda germanica le altre legioni e la cavalleria. Gli Ubi, che in passato avevano consegnato ostaggi e riconosciuto l'autorità romana, per allontanare da loro possibili sospetti, mandarono a Cesare degli ambasciatori [...] non avevano infatti né inviato aiuti ai Treveri, né avevano violato i patti [...] Cesare scoprì infatti che gli aiuti erano stati inviati dai Suebi [...] Accetta pertanto le spiegazioni degli Ubi e si informa sulle vie da seguire per giungere nel paese dei Suebi. » (Cesare, De bello Gallico, VI, 9).
Ma i Suebi, che ormai conoscevano le gesta militari del generale romano, decisero di ritirarsi nell'interno ed aspettare, in luoghi remoti e difesi dalle insidie delle fitte foreste e delle pericolose paludi, il possibile arrivo di Cesare. L'inverno stava ormai avanzando e non c'era tempo di condurre una nuova campagna in quelle terre così selvagge per cui Cesare, tenendo conto che il suo obiettivo principale era il controllo della Gallia e considerando anche la difficoltà degli approvvigionamenti di frumento in un territorio tanto selvaggio, decise di tornare indietro. « Cesare per lasciare ai barbari il timore di un suo ritorno [...] una volta ricondotto l'esercito in Gallia, fece tagliare solo l'ultima parte del ponte per una lunghezza di circa 200 piedi (60 metri N.d.R.) ed all'estremità fece costruire una torre di quattro piani, oltre ad una fortificazione imponente munita di ben 12 coorti (di circa 600 uomini ciascuna N.d.R.), assegnando il comando al giovane Gaio Vulcacio Tullo » (Cesare, De bello Gallico, VI, 29), affinché i Germani non dimenticassero che in qualunque momento gli eserciti romani avrebbero potuto marciare contro di loro.

Cesare apportò nel settore dell'ingegneria militare innovazioni determinanti, con la realizzazione di opere sorprendenti costruite con grande perizia e in tempi rapidissimi, come i ponti sul Reno, la rampa d'assedio costruita durante l'assedio di Avarico, contro i Biturigi, nel 52 a.C. e le grandi fortificazioni approntate nell'ultima grande battaglia per la conquista delle Gallie, la battaglia della roccaforte di Alesia.

Nell'inverno del 53-52 a.C. le agitazioni di gruppi tribali gallici non erano ancora finite, e una coalizione gallica si manifestò quando i Carnuti uccisero tutti i coloni romani nella città di Cenabum (la moderna Orléans), scoppio di violenza seguito dal massacro di altri cittadini romani, mercanti e coloni, nelle principali città galliche. Venuto a conoscenza di tali eventi, Cesare radunò rapidamente alcune coorti (unità legionarie di 500-1.0000 armati), reclutate nel corso dell'inverno ad integrazione dell'esercito lasciato a svernare in Gallia, ed attraversò le Alpi, ancora coperte dalle nevi. Con la solita e proverbiale rapidità, il proconsole romano si ricongiunse con le truppe lasciate nel cuore della Gallia, ad Agendico. Qui Cesare divise le proprie forze inviando quattro legioni, affidate a Tito Labieno, a combattere i Senoni ed i Parisi a nord mentre a se stesso riservò il compito più difficile, quello di rincorrere Vercingetorige, il capo della rivolta, fino alla capitale del suo popolo, gli Arverni.

I due eserciti si scontrarono presso la collina fortificata di Gergovia, dove Vercingetorige riuscì - più per l'indisciplina dei legionari romani, che non obbedirono all'ordine di ritirarsi dopo una ben orchestrata sortita, che per demeriti dello stesso Cesare - ad ottenere una limitata vittoria. Cesare, dopo due giorni consecutivi col suo esercito ai piedi della capitale arverna, preferì tornare ad Agendico e ricongiungersi con l'armata del suo luogotenente Labieno.

Forti di questo primo, seppur parziale e non determinante successo, le tribù galliche decisero di unire le forze per provare a cacciare definitivamente l'invasore romano. Un concilio generale fu organizzato a Bibracte grazie all'iniziativa degli Edui, che erano stati fino ad allora fedeli alleati di Cesare. Solo i Remi ed i Lingoni preferirono mantenere l'alleanza con Roma. Il concilio nominò Vercingetorige, re degli Arverni, comandante degli eserciti gallici uniti.

Poco prima di raggiungere il luogo della battaglia finale, la rocca di Alesia nel territorio dei Mandubi, i due contendenti ebbero un nuovo scontro, combattuto dalle rispettive cavallerie: «… Vercingetorige divisa la cavalleria [composta da 15.000 armati, N.d.R.] in tre parti; due schiere attaccano sui fianchi ed una impedisce la marcia alla colonna [dell'esercito romano, N.d.R.]. Cesare, informato, ordina anche alla sua cavalleria di contrattaccare il nemico gallico in tre colonne. Si combatte in contemporanea su tutti i fronti. L'esercito romano si ferma, mentre i bagagli sono messi al centro dello schieramento tra le legioni… infine i Germani sul lato destro, raggiunta la vetta di una collina, battono il nemico, lo mettono in fuga e lo inseguono fino al fiume, dove aveva preso posizione Vercingetorige con la fanteria e ne uccidono numerosi. Gli altri, per timore di essere circondati, fuggono. I Romani fanno strage ovunque. Tre nobili capi degli Edui furono catturati e portati in presenza di Cesare. Si trattava di un certo Coto, comandante dei cavalieri… di Cavarillo, che dopo la defezione di Litavicco era divenuto comandante della fanteria, ed Eporedorige…». (Cesare, De bello Gallico, VII, 67.).

Visto che la sua cavalleria era stata messa in fuga dai Germani della cavalleria romana, Vercingetorige marcia in direzione di Alesia mentre Cesare, collocate le salmerie sopra un colle vicino e lasciate a guardia due legioni, insegue il nemico per il resto della giornata e, dopo aver ucciso tremila uomini della retroguardia gallica, il giorno seguente si accampa presso Alesia, l'oppidum dei Mandubi. Qui, secondo Carcopino, Cesare, con implacabile logica, aveva previsto che sarebbe andato a rifugiarsi il capo degli Arverni, posizione apparentemente e sufficientemente sicura dove poter cullare l'illusione di essere invulnerabile, mentre i picconi dei legionari e la tecnica dei genieri romani lo avrebbero imprigionato senza speranza.


L'esercito romano, al comando di Cesare, poteva contare su tre validi legati - Marco Antonio, Tito Labieno e Gaio Trebonio - e ben dieci o forse undici legioni, pari a 55.000-60.000 legionari più gli auxilia.

La coalizione delle tribù galliche che si era riunita sotto la guida di Vercingetorige, re degli Arverni, consisteva secondo quanto racconta Cesare di ben ottantamila armati, di cui quindicimila cavalieri, e si accampò lungo il lato orientale della città di Alesia, dopo aver scavato un fosso ed eretto un muro alto sei piedi (poco meno di due metri) a protezione.

Nel suo De bello Gallico, Cesare riferisce inoltre che l'esercito gallico giunto in soccorso contava duecentoquarantamila fanti ed ottomila cavalieri: cifre non necessariamente non veritiere, considerata l'importanza dello scontro finale, anche se le uniche testimonianze scritte sono di fonte romana (Cesare, De bello Gallico, VII, 75.), e che potrebbero risultare, pertanto, "di parte". Al comando di questo immenso esercito di soccorso c'erano l'atrebate Commio, gli edui Viridomaro ed Eporedorige e l'arverno Vercassivellauno, cugino di Vercingetorige.

È molto difficile disporre di un calcolo preciso riguardo alla grandezza numerica degli eserciti ed al numero di perdite umane subite. Tali grandezze sono sempre state un'arma di propaganda potente, e sono pertanto sospette. L'unico fatto certo è, come racconta lo stesso Cesare, che alla fine della battaglia ogni legionario ricevette un gallo come schiavo (il che significa quarantacinquemila uomini, ovviamente facenti parte dell'esercito assediato) e che furono lasciati liberi ben ventimila armati appartenenti ai popoli di Edui ed Arverni. Considerando le cifre di quanti tra gli assediati rimasero in vita (circa sessantacinquemila), se ne deduce che nel corso degli scontri avvenuti durante il mese e più di assedio, potrebbero aver perduto la vita attorno ai quindicimila armati Galli, cifra plausibile in base ai dati forniti da Cesare, il quale aveva indicato in ottantamila il numero complessivo dell'esercito di Vercingetorige, prima dell'arrivo dell'esercito gallico di soccorso.

L'esercito di soccorso subì verosimilmente pesanti perdite, come frequentemente accadeva nelle battaglie dell'antichità, quando a provocare la sconfitta e il successivo massacro a senso unico era la perdita di coesione negli schieramenti dell'esercito che aveva la peggio.


Ubicazione di Alesia, da https://it.
wikiùpedia.org/wiki/Battaglia_di_
Alesia#/media/File:Gallia_
Cesare_52_aC.png
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La scelta di rifugiarsi nella rocca di Alesia si rivelò per Vercingetorige una trappola, al contrario di quanto era successo a Gergovia, poiché le imponenti opere di assedio costruite dall'esercito di Cesare riuscirono a bloccare del tutto i rifornimenti agli assediati e neppure l'arrivo dell'esercito della coalizione gallica poté salvare Vercingetorige e la sua armata dalla resa finale e dalla sottomissione dell'intera Gallia al dominio romano. L'assedio ebbe inizio molto probabilmente con i primi di settembre del calendario giuliano, come suggerisce Albino Garzetti. 


Alesia era su una posizione fortificata in cima ad una collina con spiccate caratteristiche difensive, circondata a valle da tre fiumi (l'Ose a nord, l'Oserain a sud ed il Brenne ad ovest). Per tali ragioni Cesare ritenne che un attacco frontale non avrebbe potuto avere buon esito ed optò per un assedio, nella speranza di costringere i Galli alla resa per inedia. Considerato che circa ottantamila soldati si erano barricati nella città, oltre alla popolazione civile locale dei Mandubi, sarebbe stata solo questione di tempo: la fame prima o poi li avrebbe condotti alla morte o costretti alla resa.

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Per garantire un perfetto blocco, Cesare ordinò la costruzione di una serie di fortificazioni, chiamate "controvallazione" (interna) e "circonvallazione" (esterna), attorno ad Alesia. I dettagli di quest'opera ingegneristica sono descritti da Cesare nei Commentari e confermati dagli scavi archeologici nel sito. Per prima cosa Cesare fece scavare una fossa (ad occidente della città di Alesia, tra i due fiumi Ose e Oserain) profonda venti piedi (pari a circa sei metri), con le pareti dritte in modo che il fondo fosse tanto largo quanto distavano i margini superiori. Ritirò, quindi, tutte le altre fortificazioni a quattrocento passi da quella fossa ad occidente (seicento metri circa).


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A questo punto, fu costruito, nel tempo record di tre settimane, la prima "circonvallazione" di quindici chilometri tutto intorno all'oppidum nemico (pari a dieci miglia romane) e, all'esterno di questo, per altri quasi ventun chilometri (pari a quattordici miglia), la "controvallazione". Le opere comprendevano: 
- due valli (uno esterno ed uno interno) sormontati da una palizzata, la cui altezza complessiva era di tre metri e mezzo (dodici piedi);
- due fosse larghe quattro metri e mezzo e profonde circa uno e mezzo lungo il lato interno, dove la fossa più vicina alla fortificazione fu riempita con l'acqua dei fiumi circostanti;
- oltre i fossati si trovavano inoltre trappole e profonde buche (dal "cervus" sul fronte del vallo sotto la palizzata, a cinque ordini di "cippi", otto di "gigli" e numerosi "stimoli") per limitare le continue sortite dei Galli, che spesso attaccavano con grande violenza i Romani occupati nella costruzione della fortificazione uscendo da più porte della città di Alesia;
- quasi un migliaio di torri di guardia equidistanti a tre piani (a venticinque metri circa, l'una dall'altra), presidiate dall'artiglieria romana;
- ben ventitré fortini ("castella"), nei quali di giorno erano posti dei corpi di guardia affinché i nemici non facessero improvvise sortite (probabilmente occupati ciascuno da una coorte legionaria), di notte erano tenuti da sentinelle e da solidi presidi;
- quattro grandi campi per le legioni (due per ciascun castrum) e quattro campi per la cavalleria, legionaria, ausiliaria e germanica.

Erano necessarie considerevoli capacità ingegneristiche per realizzare una tale opera, ma non nuove per uomini come gli edili, gli ufficiali di Roma, che solo pochi anni prima, in dieci giorni, avevano costruito un ponte attraverso il Reno con somma meraviglia dei Germani. Ed infine, per non trovarsi poi costretto ad uscire dal campo con pericolo per l'incolumità delle sue armate, Cesare ordinò di avere un deposito di foraggio e di frumento per trenta giorni.

Appena i Romani ebbero terminato le prime fortificazioni nella piana di Laumes, ad occidente di Alesia (che si estende per tre miglia romane tra quei colli), la cavalleria di Vercingetorige attaccò durante i lavori di costruzione, nel tentativo di evitare il completo accerchiamento. La cavalleria romana, appoggiata dalle legioni schierate di fronte alle fortificazioni, e quella degli alleati Germani non solo riuscirono a respingere quella gallica, ma la rincorsero fino al loro campo, sterminandone la retroguardia e generando grande paura negli assediati.

Prima che i Romani terminassero la linea fortificata, Vercingetorige decise di lasciar partire, in piena notte, l'intera cavalleria, affinché ciascun cavaliere si recasse presso la propria nazione d'origine e chiedesse aiuto a chiunque fosse in età a portare le armi. Dopo aver saputo di avere provviste sufficienti per un solo mese, ordinò che gli fossero consegnate interamente, stabilendo che chiunque non avesse ubbidito ai suoi ordini sarebbe stato messo a morte. Distribuì per ogni uomo il bestiame che i Mandubi avevano raccolto prima dell'inizio dell'assedio e, infine, ritirò l'intero esercito dentro le mura della città, preparandosi ad attendere gli aiuti esterni della Gallia per l'attacco finale.


Alesia, lo schieramento delle
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Anticipando il rischio che potesse giungere un esercito di soccorso ai Galli assediati, Cesare aveva ordinato la costruzione di una seconda linea di fortificazioni, la "controvallazione", rivolta verso l'esterno. Lungo questa linea esterna, che si estendeva per quasi ventun chilometri, erano posti quattro accampamenti di cavalleria ed altrettanti per la fanteria legionaria. Questa serie di fortificazioni aveva lo scopo di difendere l'esercito romano quando fossero giunte le imponenti forze di soccorso dei Galli. I Romani si sarebbero così trovati nella condizione di essere assedianti ed assediati contemporaneamente.

Mentre Cesare provvedeva alla costruzione di questa seconda linea di fortificazioni, le condizioni di vita dentro Alesia cominciarono a farsi insostenibili per gli assediati. Si racconta che, passato il giorno nel quale gli assediati aspettavano gli aiuti dai loro alleati, consumato tutto il frumento, si riunirono in consiglio per valutare la situazione ed il da farsi: «…parlò Critognato, il cui discorso merita di non essere trascurato per la singolare e aberrante crudeltà: "…Nel prendere una decisione dobbiamo considerare tutta la Gallia che abbiamo chiamato in nostro aiuto. Quale coraggio pensate che avranno i nostri amici e parenti dopo l'uccisione in un solo luogo [ Alesia, ndr] di ottantamila uomini? …Dunque qual è il mio consiglio? Di fare come fecero i nostri antenati nella guerra contro i Cimbri ed i Teutoni… quando, respinti nelle città e costretti da simile carestia, si cibarono dei corpi di coloro che per età non erano più adatti alla guerra e non si arresero ai nemici…"» (Cesare, De bello Gallico, VII, 77.)

Al termine di questa riunione, Vercingetorige e l'intero Consiglio stabilirono che tutti quelli che per età o salute non erano adatti alla guerra, uscissero dalla città. Non potevano considerare di accogliere l'opinione di Critognato se non in ultima analisi. Decisero, pertanto, di costringere le donne, i bambini ed i vecchi del popolo dei Mandubi ad uscire dalla cittadella nella speranza non solo di risparmiare cibo per i soldati, ma che Cesare potesse accoglierli nelle fortificazioni, per poi lasciarli andare liberi. Ma ciò non avvenne poiché, come racconta Dione, morirono tutti di fame tra le mura della città di Alesia e le linee fortificate romane, nella "terra di nessuno". Cesare, infatti, dispose numerose guardie sul bastione e vietò che fossero accolti malgrado le loro preghiere ed i pianti. Il destino di quei civili peggiorò il già compromesso morale all'interno delle mura. La fortuna volle però che di lì a poco, in quelle ore disperate, giungesse finalmente l'esercito gallico di soccorso, dando loro nuove energie a resistere all'assedio e combattere per la possibile vittoria finale.

L'esercito di soccorso gallico sembra non sia arrivato prima dell'inizio di ottobre del calendario giuliano, come suggerisce Albino Garzetti. Occupato un colle esterno alla linea romana, si accamparono a non più di un miglio romano dalle fortificazioni di Cesare. Gli attacchi dei Galli, che si susseguirono per più giorni successivi, furono condotti contemporaneamente lungo le fortificazioni interne ed esterne romane, per spezzarne definitivamente l'assedio, ma non sortirono alcun successo. Al contrario provocarono ingenti perdite di vite umane soprattutto tra le schiere dell'esercito di soccorso dei Galli.

Primo attacco dei Galli: scontro di cavallerie - Il giorno successivo all'arrivo dell'esercito di soccorso, i capi dei Galli disposero la cavalleria in modo da riempire tutta la piana ad occidente delle fortificazioni romane (per circa tre miglia), mentre collocarono le fanterie in luoghi più elevati, in posizione un poco arretrata (ai piedi della collina di Mussy-la-Fosse). Dall'alto della città di Alesia si potevano vedere chiaramente le manovre operate dall'esercito di soccorso, tanto che gli assediati si precipitarono all'esterno, prendendo posizione davanti alla città, coprendo con graticci e riempiendo con terra la fossa più vicina (distante dalle fortificazioni romane seicento metri), pronti ad intervenire lungo il fronte interno. Cesare, avendo disposto per ogni unità di fanteria uno specifico settore lungo le due linee di fortificazione (sia interna, sia esterna), ordinò che la cavalleria fosse condotta fuori dagli accampamenti ed attaccasse battaglia. Dall'alto delle colline le fanterie legionarie e le falangi galliche potevano così godersi l'intera vista della piana di Laumes, e seguire l'evolversi di questa battaglia equestre tra i due schieramenti.

Il combattimento cominciò attorno a mezzogiorno e durò fino al tramonto con esito incerto. I Galli, pur in superiorità numerica, non riuscirono ad avere la meglio sulla cavalleria romana, che si batté con onore di fronte alle legioni schierate, quasi queste assistessero ad uno spettacolo gladiatorio: «…quelli che stavano nelle fortificazioni … facevano coraggio ai loro compagni con clamori ed urla… poiché si combatteva di fronte a tutti, nessuna azione coraggiosa o vile poteva essere nascosta, entrambi gli schieramenti erano incoraggiati ad avere comportamenti eroici, per il desiderio di gloria e per il timore dell'ignominia…» (Cesare, De bello Gallico, VII, 80.)
E quando sembrò che le sorti della battaglia fossero ormai decise, in una sorta di pareggio tra le parti, Cesare, a sorpresa, inviò lungo un fianco dello schieramento gallico la cavalleria germanica, la quale riuscì non solo a respingere il nemico, ma a far strage degli arcieri che si erano mischiati alla cavalleria, inseguendone le retroguardie fino al campo dei Galli. L'esercito di Vercingetorige che si era precipitato fuori dalle mura di Alesia, rattristato per l'accaduto fu costretto a tornare all'interno della città, quasi senza colpo ferire.

Secondo attacco: di notte - I Galli lasciarono passare un giorno, durante il quale prepararono un gran numero di graticci, scale e arpioni. Usciti dal loro campo in silenzio a mezzanotte, si accostarono alle fortificazioni della piana di Laumes e, levato un grido per segnalare il loro attacco agli assediati di Alesia, cominciarono a gettare i graticci, a respingere i difensori che accorrevano lungo le fortificazioni con fionde, frecce e pietre, ed a scalare il vallo romano. I Romani, preparati a questo genere di attacchi, prese le posizioni assegnate in precedenza, riuscirono a tener lontani i Galli, con fionde che lanciavano proiettili da una libbra, con pali, proiettili di piombo e macchine da getto (catapulte, baliste ed onagri). I legati Marco Antonio e Gaio Trebonio, cui era toccato il compito di difendere quella parte, mandavano truppe tolte ai fortini più lontani in soccorso di quelle posizioni sotto l'attacco delle truppe galliche.
Nel corso di questa prima fase vi furono numerosi feriti da entrambe le parti a causa dell'oscurità. Con l'approssimarsi del giorno, i Romani presero il sopravvento, bersagliando il nemico con lanci sempre più precisi dall'alto delle torri di avvistamento o da dietro la palizzata merlata, tanto da costringere i Galli a ritirarsi anche per il timore di essere presi alle spalle dalle cavallerie provenienti dagli accampamenti superiori. Ancora una volta, gli assediati di Alesia, essendosi attardati troppo nell'eseguire i preparativi per attaccare la linea interna delle fortificazioni romane e visto ormai che l'esercito di soccorso si stava ritirando, desistettero anch'essi e, senza aver concluso nulla, tornarono all'interno della città.

Terzo attacco: l'assalto finale - Essendo stati respinti per due volte, con grandi perdite di vite umane, l'esercito di soccorso dei Galli decide, dopo aver eseguito una meticolosa ricognizione delle posizioni difensive romane, di attaccare il campo superiore, che sorgeva in una posizione quasi sfavorevole in leggero declivio, ai piedi di un colle (Monte Réa, 386 m), che a causa della sua ampiezza non era stato inglobato nella linea fortificata romana. Questo campo era stato affidato ai legati legionari Gaio Antistio Regino (legione XI) e Gaio Caninio Rebilo (legione I). Il consiglio di guerra gallico deliberò di selezionare sessantamila armati tra i più valorosi e di sferrare un attacco a sorpresa nel punto più debole dello schieramento romano, affidandone il comando all'arverno Vercassivellauno, cugino di Vercingetorige e uno dei quattro comandanti supremi. Vercassivellauno, uscito dal campo in piena notte e terminata la marcia prima che sorgesse l'alba, si nascose dietro al monte Réa, dove fece riposare i soldati in attesa di lanciare l'attacco finale. Attorno a mezzogiorno, come stabilito, mosse la sua armata verso il campo superiore di Regino e Caninio, mentre contemporaneamente dal grande campo gallico dell'esercito di soccorso veniva inviata l'intera cavalleria ed altri reparti di truppe nella piana di Laumes, di fronte alle fortificazioni romane.
Vercingetorige, visti i movimenti dell'esercito di soccorso dalla rocca di Alesia, uscì dalla città, portando avanti graticci, pertiche, falci e tutto quanto possedeva per provare a spezzare l'assedio romano. L'attacco avvenne in contemporanea su almeno tre fronti
«Le forze romane si dividevano per tutta l'ampiezza della linea fortificata e non facilmente riuscivano a fronteggiare il nemico in più luoghi contemporaneamente. I Romani erano altresì terrorizzati dal grido che si alzava alle loro spalle mentre combattevano, poiché capivano che il pericolo dipendeva dal valore di coloro che proteggevano le loro spalle: ciò che non si vede infatti turba maggiormente le menti degli uomini.» (Cesare, De bello Gallico, VII, 84.)
Entrambi i contendenti sapevano che in questa battaglia si giocavano i loro destini. I Galli, se non fossero riusciti a sfondare la linea fortificata romana, avrebbero dovuto abbandonare ogni speranza di libertà; i Romani, se avessero vinto, avrebbero posto fine a tutte le sofferenze della guerra. La situazione era particolarmente grave per i Romani lungo il tratto superiore: qui la pendenza del colle favoriva i continui attacchi dei Galli, i quali - oltre a scagliare una grande quantità di dardi contro le fortificazioni romane provocandone numerose vittime - sostituivano con continuità le prime linee con truppe fresche (grazie alla loro elevata superiorità numerica) ed erano riusciti a colmare in alcuni tratti i fossati, dandone la scalata alla prospiciente palizzata.
Cesare, informato di questa difficile situazione, decise per prima cosa di inviare il suo più valido collaboratore, Labieno, con sei coorti a soccorrere il campo superiore, poi il giovane Decimo Bruto con altre coorti ed ancora Gaio Fabio con altre ancora. Il generale mosse nella stessa direzione dell'accampamento superiore, ma nel percorrere buona parte delle linee fortificate romane esortava i suoi legionari a non farsi vincere dalla fatica e prestava loro soccorso con truppe fresche.
«In quel giorno ed in quell'ora, i legionari, avrebbero raccolto il frutto di tutte le battaglie combattute in passato.» (Cesare, De bello Gallico, VII, 86.)
Vercingetorige, disperando frattanto di poter sfondare la palizzata nella zona della piana di Laumes, diede l'assalto in salita alle fortificazioni meridionali, quelle più scoscese. Qui i Galli tentarono di colmare dove potevano i fossati con terra e graticci, mentre con le falci erano riusciti in alcuni punti a spezzare la palizzata dello schieramento romano.
Alesia, la battaglia finale. Di
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Il proconsole romano, venuto a conoscenza che malgrado avesse inviato numerose coorti in soccorso la situazione al campo settentrionale continuava ad essere assai grave, decise di recarsi personalmente con nuovi reparti legionari raccolti durante il percorso di avvicinamento. Qui non solo riuscì a ristabilire la situazione a favore dei Romani, ma con mossa inaspettata e repentina ordinò a quattro coorti e a parte della cavalleria di seguirlo: aveva in mente di aggirare le fortificazioni ed attaccare il nemico alle spalle. Frattanto Labieno, radunate dai vicini fortilizi in tutto trentanove coorti, si apprestò a muovere anch'egli contro il nemico.
«Riconosciuto Cesare per il colore del suo mantello, che portava come un'insegna durante i combattimenti… i Romani, lasciati i pilum, combattono con la spada. Velocemente appare alle spalle dei Galli la cavalleria romana, mentre altre coorti si avvicinano. I Galli volgono in fuga. La cavalleria romana rincorre i fuggiaschi e ne fa grande strage. Viene ucciso Sedullo, comandante dei Lemovici; l'arverno Vercassivellauno viene catturato durante la fuga; vengono portate a Cesare settantaquattro insegne militari. Di così grande moltitudine pochi riuscirono a raggiungere il campo e salvarsi… Dalla città, avendo visto la strage e la fuga dei compagni e disperando della salvezza, ritirano l'esercito in Alesia. Giunta questa notizia, i Galli del campo esterno si danno alla fuga… Se i legionari non fossero stati sfiniti… tutte le truppe nemiche avrebbero potuto essere distrutte. Verso mezzanotte la cavalleria, mandata all'inseguimento, raggiunse la retroguardia nemica. Un grande numero di Galli fu preso ed ucciso, gli altri si disperdono in fuga verso i loro villaggi.» (Cesare, De bello Gallico, VII, 88.)
Cesare aveva vinto nuovamente. Questa volta aveva, però, sconfitto l'intera coalizione della Gallia. La sua era stata una vittoria totale contro l'impero dei Celti.

Il giorno dopo (che alcuni studiosi moderni datano alla metà del mese di ottobre del calendario giuliano) il comandante gallico con fierezza convocò il consiglio e dichiarò di aver intrapreso questa guerra non per utilità propria, ma per la libertà della Gallia. Egli rimetteva la sua vita nelle mani dell'assemblea: era disponibile sia a morire per dare soddisfazione ai Romani, sia ad essere consegnato quale preda di guerra a Cesare. Furono, pertanto, inviati ambasciatori al proconsole romano per trattare le condizioni della resa. La risposta non si fece attendere: dovevano consegnare tutte le armi e presentare i capi della rivolta. Il proconsole romano, che aveva fatto porre il proprio seggio davanti alle fortificazioni («Ipse in munitione pro castris consedit»), accolse la resa dei capi galli e la consegna del comandante sconfitto. «Vercingetorige, indossata l'armatura più bella, bardò il cavallo, uscì in sella dalla porta della città di Alesia e, fatto un giro attorno a Cesare seduto, scese da cavallo, si spogliò delle armi che indossava e chinatosi ai piedi di Cesare, se ne stette immobile, fino a quando non fu consegnato alle guardie per essere custodito fino al Trionfo.» (Plutarco, Vite parallele, Cesare, 27, 9-10.)

«Anche quel famoso re [Vercingetorige, ndr] quale preda per la vittoria, venuto supplice nell'accampamento romano di Cesare, gettò davanti a Cesare il suo cavallo, le sue falere e le sue armi, dicendo: "Prendi, hai vinto un uomo valoroso, tu che sei un uomo valorosissimo!".» (Floro, Epitome di storia romana, I, 45, 26.)
«Ora Vercingetorige avrebbe potuto scappare, poiché non era stato catturato e non era ferito. Egli sperava, poiché era stato con Cesare in rapporti di amicizia, di poterne ottenere il perdono da lui. Così egli venne da Cesare senza essere annunciato, ma comparendo davanti a lui all'improvviso, mentre Cesare era seduto su di uno scranno come in tribunale, e gettando allarme tra i presenti. Egli avanzò imponente, di alta statura, armato splendidamente. Quando si ristabilì la calma, egli non proferì parola, ma si inginocchiò ed afferrò le mani di Cesare in segno di supplica. Ciò ispirò molta pietà tra i presenti al ricordo della sua iniziale fortuna e nello stato attuale di angoscia in cui versava ora.» (Cassio Dione Cocceiano, Storia romana, XL, 41.)

La fine di Alesia segnò la fine della resistenza e del sogno di libertà della Gallia unita. I soldati di Alesia furono fatti prigionieri e in parte assegnati in schiavitù ai legionari di Cesare come bottino di guerra, ad eccezione di ventimila armati facenti parte delle tribù degli Edui e degli Arverni, che furono liberati per salvaguardare l'alleanza dei due più importanti popoli gallici con Roma. Vercingetorige fu rinchiuso nel Carcere Mamertino e nei sei anni successivi rimase nell'attesa di essere esibito nella sfilata trionfale di Cesare, per poi essere strangolato una volta terminata la processione, come era tradizione per i comandanti nemici catturati. L'inflessibile crudeltà del proconsole verso il capo della coalizione dei Galli, che si era offerto a lui per salvare la sorte delle sue genti con tanto onore e passione, risulta però poco comprensibile allo storico Jérôme Carcopino, il quale sottolinea quanto contrastasse con la fama che Cesare fino a quel momento aveva avuto di uomo clemente. Forse la ragione è da ricercarsi in un profondo rancore che il generale romano nutriva non tanto nei confronti dell'amico che lo aveva tradito, ma quanto nel capo della coalizione che aveva compromesso la sua vittoria finale ed il suo avvenire in un momento tanto difficile della sua vita politica romana.

Per Cesare la vittoria di Alesia costituì il più importante successo militare, tanto che ancora oggi è considerato uno degli esempi di strategia militare più importanti dell'intera storia dell'umanità. Il proconsole romano ottenne questa travolgente vittoria dopo la sconfitta di Gergovia, così come avvenne nel 48 a.C. a Durazzo a cui seguì la fondamentale vittoria di Farsalo nella guerra civile contro Pompeo. Le sue più importanti e decisive vittorie belliche erano, quindi, maturate da precedenti sconfitte.
L'evento, descritto da diversi autori contemporanei, ma soprattutto dallo stesso Cesare nel suo "De bello Gallico", fu oggetto di importanti attenzioni da parte del Senato romano, che proclamò venti giorni di festeggiamenti per questa vittoria, pur rifiutando a Cesare l'onore di celebrarne il trionfo. Cosa, peraltro, che Cesare ottenne sul finire della guerra civile che sarebbe seguita.

50 a.C., domini di Roma dopo la conquista delle
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La conquista della Gallia fu un evento epocale per la storia dell'Occidente. Roma, che sino ad allora era stata un impero mediterraneo, divenne da questo momento la dominatrice dell'Europa transalpina. Nei decenni che seguirono, vennero sottomesse le Alpi, la Rezia, il Norico e la Britannia, andando a costituire quello che sarà per i secoli successivi il dominio di Roma nel vecchio continente. A seguito della conquista della Gallia, i suoi destini procedettero parallelamente a quelli di Roma: la Gallia andò via via romanizzandosi attraverso la costruzione di nuove città, strade ed acquedotti, in un sincretismo che diede vita a quella cultura gallo-romana in seguito assimilata anche dagli invasori Franchi e su cui germoglierà il Sacro Romano Impero di Carlo Magno. Ottanta anni dopo la conquista, Claudio avrebbe permesso ai notabili di origine gallica di confluire nel Senato, formalizzando un'integrazione oramai compiuta. Augusto, nel frattempo, aveva diviso la Gallia in diverse province: oltre alla preesistente Narbonense, vennero istituite le province di Aquitania, Lugdunense e Belgica. La conquista della Gallia, grazie al tramite di Roma, proiettò definitivamente l'Europa continentale nel Mediterraneo; ma né il trionfatore Cesare, né lo sconfitto Vercingetorige poterono essere testimoni fino in fondo delle conseguenze dei loro atti: una morte violenta colse entrambi poco dopo la fine della guerra. 

Nonostante quindi la fulminea azione di cavalleria, che aveva permesso a Gaio Giulio Cesare di attaccare alle spalle l'esercito gallico di soccorso, ad Alesia, il ruolo tattico della cavalleria legionaria rimaneva generalmente subalterno a quello della fanteria, destinata a ruoli di schermaglia e "di contrappeso" con la cavalleria nemica, incaricata di svolgere missioni esplorative e azioni di disturbo, ma mai, se non in rari casi, di condurre attacchi risolutivi. Asclepiodoto informa (nel I secolo a.C. ) come la cavalleria potesse assumere varie formazioni: quadrate, a losanga, allungate, a cuneo. Occorreva però che non fosse sviluppata molto in profondità per evitare di creare il panico tra i cavalli nel caso in cui questi si sovrapponessero gli uni agli altri in una formazione troppo affastellata.

Dalla riforma mariana le legioni, schierate secondo il nuovo ordinamento coortale, venivano disposte normalmente su due linee (duplex acies), soluzione che permetteva di avere un fronte sufficientemente lungo ma anche profondo e flessibile. Vi erano poi altri tipi di schieramenti praticati dalle armate romane del tardo periodo repubblicano: su una sola linea, ovviamente quando era necessario coprire un fronte molto lungo come nel caso del Bellum Africum durante la guerra civile tra Cesare e Pompeo; o su tre linee (triplex acies), formazione spesso utilizzata da Cesare durante la conquista della Gallia, con la prima linea formata da 4 coorti e le restanti due linee, formate da tre coorti ciascuna. Le coorti schierate lungo la terza linea costituivano spesso una "riserva tattica" da utilizzare in battaglia, come avvenne contro Ariovisto in Alsazia.

Giulio Cesare fu il primo a comprendere che la dislocazione permanente di una parte delle forze militari repubblicane doveva costituire la base per un nuovo sistema strategico di difesa dei confini del mondo romano, gettando così le basi per lo sviluppo dei vari limes.

Alla sua morte erano dislocate sul territorio 37 legioni, usate sfruttando appieno il potenziale in mobilità, di cui ben 6 in Macedonia, 3 in Africa Proconsolare e 10 nelle province orientali. Al termine delle guerre civili tra Marco Antonio ed Ottaviano si contavano 60 legioni circa, pur se non a ranghi completi.

 Dopo Cesare, Galli e Germani fornivano gli auxilia di cavalleria. Formati per nazionalità e spesso comandati direttamente dai loro capi indigeni, conservavano di solito l'armamento nazionale; però alcuni corpi vennero anche equipaggiati e disciplinati alla romana, e organizzati in alae e turmae

La CAVALLERIA fra i GERMANI - Dal V al I secolo a.C., durante l'Età del ferro,  i Germani  avevano premuto costantemente verso sud, venendo a contatto (e spesso in conflitto) con i Celti e, in seguito, con i Romani. Nell'area di contatto con i Celti, lungo il Reno, i due popoli erano entrati in conflitto. Sebbene portatori di una civiltà più articolata, i Galli subirono l'insediamento di avamposti germanici nel loro territorio, che diedero origine a processi di sovrapposizione tra i due popoli: insediamenti appartenenti all'uno o all'altro ceppo si alternavano e penetravano, anche profondamente, nelle rispettive aree d'origine. Sul lungo periodo, a uscire vincitori dal confronto furono i Germani, che qualche secolo più tardi sarebbero dilagati a occidente del Reno. Identico processo si sarebbe verificato, a sud, lungo l'altro argine naturale alla loro espansione, il Danubio.

Cesare racconta di come i guerrieri germani stanziati poco ad est del Reno, combattessero a cavallo senza scomporsi. Da questa caratteristica tecno-tattica, non incentrata solo sulla forza delle falangi di fanteria, si ritiene che in seguito i Romani abbiano istituito le cosiddette coorti equitate al tempo della riforma augustea: «Ariovisto [...] ogni giorno combatté con la cavalleria. Era questo il genere di combattimento nel quale i Germani si esercitavano. I cavalieri erano 6.000: c'erano altrettanti fanti molto valorosi e assai veloci nella corsa. I cavalieri li avevano scelti da ogni reparto, uno ad uno per la propria difesa personale. Partecipavano alle battaglie in loro compagnia. I cavalieri si ritiravano presso di loro e se il combattimento si inaspriva, andavano anche loro alla carica. Se qualcuno era ferito in modo grave, era caduto da cavallo, lo circondavano. Se dovevano compiere una lunga avanzata o una rapida ritirata, la loro velocità era tanto grande per l'esercizio, che sostenendosi alle criniere dei cavalli ne eguagliavano la corsa in velocità.» (Cesare, De bello Gallico, I, 48.4-7.). Si distinguevano nel combattimento a cavallo soprattutto i Tencteri e al pari si distinguevano i Catti per la fanteria. Secondo Tacito, a giudicare dal complesso, stava nella fanteria il nerbo dell'esercito dei Germani, dove i fanti si mischiavano con i cavalieri, in modo che bene si adattassero alla battaglia tra cavallerie e si armonizzasse la velocità dei soldati della fanteria, scelti tra i giovani e destinati al fronte dello schieramento. L'esercito schierato a battaglia, si disponeva a cuneo. «I Germani non ritengono un atto di viltà, ma solo un segno di prudenza, il ritirarsi, purché si ritorni a combattere. Anche quando l'esito della battaglia non è stato troppo favorevole, riportano dal campo i corpi dei compagni caduti. È per loro massima vergogna abbandonare lo scudo. Chi si macchia di una simile colpa viene escluso dalle assemblee e dalle cerimonie sacre, tanto che molti che si erano ritirati dal combattimento, poi si impiccarono per porre fine alla vergogna.» (Tacito, De origine et situ Germanorum, VI, 6.).

Tacito aggiunge che accanto alle schiere di combattenti, stanno nelle retrovie i loro famigliari, così vicini da sentire le urla di incitamento delle loro donne e dei loro figli. Questi sono per ogni soldato le persone più care, a cui porgono le ferite da curare (a madri e mogli) e dalle quali sono nutriti con cibo, esortati ed incoraggiati. «Si racconta che a volte le schiere che ripiegarono, tanto da trovarsi sul punto di cedere, furono sospinte a tornare a combattere grazie alle insistenti preghiere delle donne che, mostrando i loro petti, facevano capire ai loro uomini il pericolo che su di loro incombeva se cadevano prigioniere. E infatti i Germani temono maggiormente la prigionia delle donne, che la propria.» (Tacito, De origine et situ Germanorum, VIII, 1.). Nella battaglia tra Cesare ed Ariovisto presso Mulhouse, nel 58 a.C., il comandante dei Germani ordinò l'esercito per tribù: prima quella degli Arudi, poi i Marcomanni, i Triboci, i Vangioni, i Nemeti, i Sedusi ed infine i Suebi. Ogni tribù fu poi circondata da carri e carrozze, affinché non ci fosse la possibilità di fuga per nessuno: sopra i carri c'erano le donne, che imploravano i loro uomini di non abbandonarle alla schiavitù dei Romani.

Cesare descrive i combattimenti equestri dei Germani nel suo libro IV del De bello Gallico (55 a.C.): «Nei combattimenti equestri spesso scendono da cavallo e combattono a piedi. Hanno addestrati i loro cavalli e rimanere sul posto. Quando ne hanno bisogno ritornano velocemente da soli. Secondo loro, nulla è considerato di più vile che utilizzare la sella. E quindi, solo pochi hanno il coraggio di andare alla carica di cavalieri con sella in un certo numero.» (Cesare, De bello Gallico, IV, 2.3-5.). «I Germani, non appena videro 5.000 cavalieri romani, sebbene non fossero più di 800 [...], decisero di attaccare e rapidamente batterono i Romani, non avendo alcun timore [...]. Quando poi i Romani provavano a resistere, secondo il loro costume [i Germani] saltavano giù da cavallo a piedi: disarcionavano quindi molti Romani trafiggendo loro i cavalli, cacciando gli altri in fuga, e tanto impauriti li inseguivano, fino a quando non giunsero in vista dell'esercito [di Cesare]. In quello scontro perirono 74 Romani.» (Cesare, De bello Gallico, IV, 12.1-2.). Tacito, un secolo e mezzo più tardi, aggiunge altri particolari ai reparti di cavalleria, sostenendo che i loro cavalli non erano né belli a vedersi, né veloci nella cavalcata. I Germani non insegnavano loro a compiere delle evoluzioni, come invece facevano i Romani. Li guidavano dritti davanti a loro, oppure li facevano ripiegare con un solo tipo di conversione verso destra, in modo da non ostacolarsi vicendevolmente in caso di ritirata, evitando così che qualcuno potesse rimanere indietro.

Cesare inoltre osservava come ogni popolo germanico considerasse la massima gloria che vi fossero attorno ai confini della loro nazione, territori disabitati per la più vasta estensione possibile. Questo significava per loro che un certo numero di nazioni non fossero grado di superare la loro forza d'arme. Cesare racconta che da una parte dei confini dei Suebi, fosse disabitato un tratto di paese pari a circa 600.000 passi, cioè 600 miglia (pari a poco meno di 900 km). «La gloria più grande per un popolo consiste ne fare il deserto intorno ai propri confini, devastando i territori circostanti. Considerano segno particolare del loro valore che le popolazioni limitrofe, cacciate dai loro territori, si ritirino, e che nessuno si azzardi a fermarsi vicino a loro. Allo stesso tempo credono che tale situazione li renda più sicuri, eliminando il timore di un'invasione improvvisa.» (Cesare, De bello Gallico, VI, 23.1-3.).

Verso la fine della guerra gallica, Cesare arruolò anche cavalieri germanici, che diedero ottime prove prima contro Vercingetorige e poi a Farsalo; e in seguito i corpi di cavalleria germanica divennero sempre più numerosi nell'esercito romano. L'armamento nazionale, almeno dei Germani dell'ovest, era la lancia corta (framea), raramente la spada, e lo scudo di solito esagonale (Tac., Germ., 6, 6); altre armi difensive erano rare (ib., 6, 10). Molte tribù germaniche davano eccellente cavalleria; quella di Ariovisto era sostenuta da fanteria leggera scelta, abituata a combattere frammista ai cavalieri (Caes., Bell. Gall., I, 48). La cavalleria ha gran parte negli eserciti germanici dal tempo delle invasioni: gli Alemanni sono detti gentem populosam ex equo mirifice pugnantem (Aur., Vict., De Caes., 21, 2); i Vandali sarebbero stati tutti cavalieti armati di lancia (Procop., Bell. Vandal., I, 8) e la forza degli Ostrogoti stava nella loro cavalleria corazzata di lancieri.


A ROMA dai tempi di Gaio Giulio CESARE - Nell'ambito militare il decurione era l'equivalente del centurione legionario ed era al comando di una decuria (10 cavalieri) di cavalleria dell'esercito romano, assistito da un optio. Tre decurie di cavalieri a loro volta costituivano una turma, mentre 10 turmae costituivano il contingente di cavalleria legionaria di una legione romana di epoca medio repubblicana. Il primo ufficiale scelto comandava la turma, mentre gli altri due decuriones avevano la funzione di decadarchi. In assenza del primo, questi viene sostituito nel comando dal secondo.

Gaio Giulio Cesare, nel corso della conquista della Gallia, apportando modifiche al reparto della cavalleria, introdusse un cursus honorum per il centurionato, che si basasse sui meriti del singolo individuo, a seguito di gesti di particolare eroismo, alcuni legionari erano promossi ai primi ordines, dove al vertice si trovava il primus pilus di legione. Ma poteva anche avvenire che un primus pilus  venisse promosso a tribunum  militum (generale). Il merito permetteva così, anche ai militari di umili origini, di poter accedere all'ordine Equestre. Si andava indebolendo, pertanto, la discriminazione tra ufficiali e sottufficiali, e si rafforzava lo spirito di gruppo e la professionalità delle unità.

Da questi accorgimenti nacque anche l'importante innovazione tattica del primo prototipo di coorti equitate, costituite da corpi di cavalleria misti a quelli di fanteria, sull'esempio del modo di combattere di molte tribù germaniche, tra cui i Sigambri. Esse furono utilizzate da Cesare con continuità a partire dall'assedio finale di Alesia. In questa unità tattica, dove a ciascun cavaliere era abbinato un uomo a piedi, si combinavano i vantaggi della cavalleria con quelli della fanteria, permettendo a queste due tipologie di armati di completarsi vicendevolmente e proteggersi in modo più efficace.

L'ultimo tentativo di far rinascere la cavalleria cittadina Romana fu fatto da Pompeo nella guerra contro Cesare, ma è nota la cattiva prova fatta da tale cavalleria a Farsalo

Marco Vipsanio Agrippa
al Louvre di Parigi, di
Shawn Lipowski QUI.

Marco Vipsanio Agrippa (Arpino, 63 a.C. circa - Campania, 12 a.C.) è stato un politico, militare e architetto romano. Amico di Ottaviano, il futuro imperatore Augusto, è stato suo fedele collaboratore e anche suo genero. Agrippa è stato artefice di molti trionfi militari di Ottaviano, il più considerevole dei quali è stata la vittoria navale nella battaglia di Azio contro le forze di Marco Antonio e Cleopatra. Di origini modeste, era nato forse ad Arpino, in Campania, ma la questione è dibattuta: alcuni studiosi, tra i quali Victor Gardthausen, David Ridgway, e R. E. A. Palmer, sostengono che la sua famiglia fosse originaria di Pisa, nell'Etruria settentrionale. Era della stessa età di Ottaviano e i due erano amici intimi dall'infanzia. Ottaviano e Agrippa avevano servito come ufficiali di cavalleria, al comando di Giulio Cesare, nella battaglia di Munda nel 45 a.C., dove Agrippa si era distinto per il suo grande valore

Marco Giunio Bruto da:
Appiano di Alessandria racconta che durante la guerra civile romana, poco prima dello scontro decisivo di Filippi del 42 a.C., Marco Giunio Bruto disponeva di 4.000 cavalieri tra Galli e Lusitani, oltre a 2.000 traci, illirici, parti e tessali; mentre l'alleato Gaio Cassio Longino disponeva di altri 4.000 arcieri a cavallo tra Arabi, Medi e Parti.

Cavalieri dell'età di Augusto dal mausoleo gallo-romano

dell'antica città di Glanum, vicino all'odierna Saint-
Rémy-de-Provence, in Francia, eretto tra il 30 e il
20 a.C., durante il principato di Augusto. Da notare
che il cavallo a terra è dotato di sella gallica. Immagine
di genevieveromier - Flickr: bas-relief du mausolée de
 
Al termine delle guerre civili tra Marco Antonio ed Ottaviano, si contavano 60 legioni circa, pur se non a ranghi completi.

Il modello ideale di disposizione tattica della legione in epoca alto-imperiale è fornito dal racconto di Tacito della vittoria della Legio III Augusta, comandata dal proconsole Marco Furio Camillo, su Tacfarinas nel 17 d.C. Tacito (in II, 52) data l'inizio delle ostilità al 17 d.C., ovvero l'anno dell'effettiva entrata in guerra delle forze romane contro l'ormai ampia coalizione di tribù berbero-maure  formatasi intorno alla figura di Tacfarinas.

In questo scontro il proconsole riunì tutte le truppe sotto il suo comando, comprese alcune unità ausiliarie, e mosse battaglia contro il ribelle numida, quest'ultimo supportato da unità maure. La legione fu schierata, non si sa in quante acies (se singula, duplex o triplex), con le centurie (o i manipoli) al centro dello schieramento (10 coorti di 480 uomini l'una, per un totale di 60 centurie): la prima coorte disposta a partire da destra, in prima fila, e la cavalleria legionaria, i tribuni e il legato Camillo davanti al contingente di cavalleria legionaria collocata immediatamente dietro l'ultimo ordine delle coorti. A destra e a sinistra dei legionari "le coorti leggere e due ali di cavalleria". Immediatamente a sinistra e a destra la prima e la seconda coorte di ausiliari, composte ciascuna da 480 uomini, mentre alle parti estreme le due ali di cavalleria ausiliaria (probabilmente numidica), formata ciascuna da 500 cavalieri divisi in 16 turmae.

In questo episodio appare evidente come la legione si reggesse, per quanto attiene alle forze di cavalleria, sull'esclusivo apporto di ausiliari e numeri alloctoni. Allo stesso modo si comprende come essa non fosse adatta alle schermaglie, alle scaramucce di confine e al presidio delle zone frontaliere, a motivo della sua struttura lenta e poco manovrabile. 

La sconfitta di Crasso a Carre rimane l'emblema delle debolezze di un esercito privo di forze mobili, esposto ai colpi di una cavalleria sfuggente e dedita alla tattica d'incalzo.

La stessa cavalleria legionaria in servizio presso le legioni non aveva una funzione tattica sul campo, ma era utilizzata per compiti di ricognizione, di picchetto e avanscoperta. Si capisce quindi come le forze ausiliarie (fanteria e cavalleria leggere, tiratori) fossero componenti complementari e non alternative alle legioni; una campagna di conquista senza queste forze e senza l'apporto della loro cavalleria (organizzata in alae e cohortes equitatae), sarebbe stata altrimenti inattuabile.


Il non uso delle staffe da parte dei romani non impediva del resto l'uso della cavalleria romana ausiliaria, pesante e leggera, come forza d'attacco. Tale cavalleria costituiva quindi anche un elemento d'urto e non solo una forza di ricognizione, compito cui era assegnato semmai il piccolo contingente a cavallo della legione.

Statua di Augusto a
Prima Porta, in uniforme
militare (paludamentun).
Musei Vaticani, 
da  QUI.
LEGIONI e CAVALLERIA nella ROMA imperiale - Augusto riordinò l'intero sistema di difese dei confini imperiali, acquartierando in modo permanente legioni e auxilia in fortezze e forti lungo il limes. Delle legioni sopravvissute alla guerra civile, 28 rimasero dopo Azio, e 25 dopo la disfatta di Teutoburgo, oltre ad un numero crescente di auxilia. In totale vi erano circa 340.000 uomini, di cui 140.000 servivano nelle legioni.

Con Ottaviano Augusto, nel periodo compreso tra il 30 a.C. e il 14 a.C., la legione cambia struttura, aumentando i suoi effettivi fino almeno a 5.000 soldati, essenzialmente fanti ma anche cavalieri (120 per legione, comandati da centurioni, non da decurioni), questi ultimi con funzioni di esplorazione, messaggeri o scorta del legatus legionis. La cavalleria legionaria, abolita nell'epoca di Gaio Mario, è reintrodotta da Augusto anche se in forza alquanto ridotta, i cui cavalieri erano dotati di uno scudo piccolo e rotondo (detto parma o clipeus), come scriveva Giuseppe Flavio al tempo della prima guerra giudaica. La cavalleria legionaria potrebbe essere stata nuovamente abolita da Traiano.

La fanteria legionaria è divisa in 10 coorti (di cui nove di 480 armati ciascuna), che al loro interno contano 3 manipoli oppure 6 centurie. La riforma della prima coorte avvenne in un periodo imprecisato, sicuramente tra l'epoca di Augusto e quella dei Flavi. Si trattava di una coorte milliare, vale a dire di dimensioni doppie rispetto alle altre nove coorti, con 5 centurie (non 6) di un numero doppio di armati (160 ciascuna), pari a 800 legionari complessivi, a cui era affidata l'aquila della legione.

Sotto Augusto, con la riforma dell'esercito e delle truppe ausiliarie, 16 turmae andarono a costituire un'ala di cavalleria. Una decuria era formata da 10 cavalieri e tre decurie di cavalieri a loro volta costituivano una turma.

Con la riforma augustea (30 a.C.-14 d.C.) la cavalleria ausiliaria (formata da provinciali e alleati, i cosiddetti peregrini) costituì il degno  completamento tattico e strategico alla fanteria delle legioni (formate da cittadini romani), diventando uno strumento permanente nell'intero ordinamento militare dell'esercito romano. Erano formate da unità altamente specializzate, arruolate in aree territoriali di antiche tradizioni. In quei tempi i reparti di cavalleria romana si distinguevano in:
- cavalleria "leggera", come quella numida o maura, dotata di un piccolo scudo rotondo (clipeus), una spatha che a volte raggiungeva i 90 cm (certamente più lunga rispetto al gladio del legionario), una lancea più leggera (normalmente lunga 1,8 metri ed in alcuni casi un'armatura (lorica hamata o squamata); sagittaria, come gli arcieri orientali o quelli Tracia cavallo;
- cavalleria "mista", come le coorti equitate, costituite da corpi di cavalleria misti a quelli di fanteria, sull'esempio del modo di combattere di molte tribù germaniche. In queste unità tattiche, dove a ciascun cavaliere era abbinato un uomo a piedi, si combinavano i vantaggi della cavalleria con quelli della fanteria, permettendo a queste due tipologie di armati di completarsi vicendevolmente e proteggersi in modo più efficace.

In origine, le popolazioni che costituivano cavalleria ausiliaria (formata da provinciali e alleati, i cosiddetti peregrini)  venivano arruolate localmente lungo le frontiere perché, conoscendo bene i luoghi, potevano difenderne meglio di chiunque altro i confini. Erano inoltre affidate al comando di un re o principe cliente nativo del posto (il praefectus equitum citato dallo stesso Cesare), almeno fino alla seconda metà del I secolo, quando furono poi sottoposte ad un praefectus alae o ad un praefectus cohortis equitatae dell'ordine equestre. Con il passare del tempo però, furono inviate ovunque lungo i confini imperiali, pur conservando le loro caratteristiche di omogeneità etnica, per cui si equipaggiavano e combattevano secondo le loro tradizioni. Vegezio racconta che tutti i soldati romani, dai cavalieri ai legionari, erano comunque addestrati a montare a cavallo. L'epoca non è specificata, anche se noi ipotizziamo possa trattarsi degli inizi del periodo imperiale, quando fu reintrodotta la cavalleria legionaria:

«Non soltanto alle reclute, ma anche ai soldati di professione è sempre stata richiesta la capacità di montare a cavallo. [...] Cavalli di legno erano predisposti in inverno al coperto [nei castra stativa], d'estate nel castrum. I giovani dovevano montare inizialmente senza nessuna armatura, fino a quando non avevano sufficiente esperienza e in seguito armati. Ed è così grande la cura che ci mettono che questi non solo imparavano a salire e scendere da destra ma anche da sinistra, tenendo in mano persino le spade sguainate e le lance. Si dedicavano a questo esercizio in modo assiduo, poiché nel tumulto della battaglia potevano montare a cavallo senza indugio, visto che si erano esercitati tanto bene nei momenti di tregua.» (Vegezio, Epitoma rei militaris, I, 18.).

Augusto volle distinguere prima di tutto le carriere superiori dalle inferiori. Egli dettò dei parametri d'avanzamento che comunque, in particolare per l'ordine equestre, videro la loro completa definizione a partire da Claudio, se non dai Flavi. In particolare per le carriere militari, Augusto riorganizzò il cursus honorum con il seguente percorso: Prefetto di coorte, Tribuno angusticlavio di legione, compreso il triplo Tribunato a Roma per il Prefetto dei vigili, il Prefetto urbano, il Prefetto del Pretorio e il Prefetto d'ala.

Sempre ad Augusto si deve l'introduzione di un esercito di professionisti che rimanessero in servizio non meno di sedici anni per i legionari, portati a venti nel 5 (come era successo fin dai tempi di Polibio, in caso di massima crisi), e venti-venticinque per le truppe ausiliarie. A questo periodo di servizio poteva subentrarne uno ulteriore di alcuni anni tra le "riserve" di veterani, in numero di 500 per legione (sotto il comando di un curator veteranorum).

I soldati ausiliari prestavano servizio per 25 anni, al termine del quale ricevevano un diploma militare che ne attestava il congedo (honesta missio), oltre ad un premio (in denaro o un appezzamento di terra, quasi fosse una forma di pensione dei giorni nostri), la cittadinanza romana ed il diritto a contrarre matrimonio (conubium). La paga (stipendium) per un cavaliere di ala si aggirava attorno ai 250 denari (pari a 1.000 sesterzi, e nel I sec un sesterzio valeva circa 2 €), mentre per un cavaliere di coorte equitata attorno ai 150/200 denari (pari a 600/800 sesterzi). Nel I sec. 1 denario equivaleva ad 8 € attuali.

Le alae di cavalleria ausiliaria romana inizialmente erano solo quingenarie (composte cioè da 500 armati circa). Erano divise in 16 turmae da 32 uomini (ciascuna comandata da un decurione), per un totale di 512 cavalieri. Fornivano alle legioni truppe di ricognizione e di inseguimento, oltre a costituire elemento d'urto sui fianchi dello schieramento nemico.

Le coorti equitatae erano anch'esse inizialmente solo quingenarie. Di loro abbiamo notizia fin dal principato di Augusto, da un'iscrizione rinvenuta a Venafro nel Sannio. Si caratterizzavano dalle normali coorti ausiliarie per essere unità militari miste. Erano formate da 6 centurie di 80 fanti ciascuna (secondo Giuseppe Flavio da 6 centurie di 100 fanti) e 4 turmae di cavalleria di 32 cavalieri ciascuna, per un totale di 480 fanti e 120 cavalieri. L'origine di queste formazioni risalirebbe al tipico modo di combattere dei Germani, descritto da Cesare nel suo "De bello Gallico".

La "spina dorsale" dell'esercito romano erano comunque le sue legioni, in numero di 28 (25 dopo la disfatta di Teutoburgo). Ogni legione era composta di circa 5.000 cittadini, in prevalenza Italici ma non di Roma (attorno al 65% erano perlopiù provenienti dalla Gallia Cisalpina, mentre il restante 35% era formato da cittadini romani residenti nelle province), per un totale di circa 140.000 uomini (e in seguito circa 125.000), che si rinnovavano con una media di 12.000 armati all'anno. L'ufficiale a capo della legione divenne ora un membro dell'ordine senatorio con il titolo legatus Augusti legionis. Le legioni erano arruolate fra i circa 4.000.000 di cittadini romani.

La Germania  romanizzata, nel 9,
con l'ubicazione della foresta di
Teutoburgo, da https://upload.wi
kimedia.org/wikipedia/common
s/b/b3/Germania_7-9_Varo.jpg
.

Nel 9 d.C., dal 9 all'11 settembre, si combatte la  battaglia della  Foresta di Teutoburgo, chiamata  clades Variana (la disfatta di Varo) dagli storici romani, tra tre legioni romane più ausiliari, guidate da Publio Quintilio Varo e una coalizione di tribù  germaniche comandate da Arminio, ufficiale delle truppe ausiliarie di Varo, ma segretamente anche capo dei Cherusci. La battaglia ebbe luogo nei pressi dell'odierna località di Kalkriese, nella Bassa Sassonia, e si risolse in una delle più gravi disfatte subite dai Romani: tre intere legioni (composte di 5/6.000 armati ciascuna), la XVII, la XVIII e la XIX, furono annientate, oltre a 6 coorti di fanteria ausiliaria (di circa 600 uomini ciascuna) e 3 ali di cavalleria ausiliaria (di circa 500 armati l'una). 

Tiberio, dal Museo di
Venezia QUI.
Dopo che Tiberio, figlio adottivo dell'imperatore  Augusto e futuro imperatore, aveva completato la conquista quasi ventennale della parte settentrionale della Germania (con le campagne del 4-5), e domato gli ultimi focolai di una rivolta dei Cherusci, i territori compresi tra i fiumi Reno ed Elba apparivano ai Romani come una vera e propria provincia. Poiché a Roma si pensava che ormai fosse arrivato il momento di introdurre nella regione il diritto e le istituzioni romane, l'imperatore Augusto decise di affidare a un burocrate, più che a un generale, il governo di quella che lui considerava ormai una nuova provincia, ma che non lo sarebbe mai stata. Scelse dunque per quell'incarico il governatore della Siria, Publio Quintilio Varo, ritenendo che un tale personaggio, certamente non noto per l'abilità bellica, potesse essere apprezzato dai Germani, che non sopportavano i modi rudi dei militari romani.

«[...] i soldati romani si trovavano là [in Germania] a svernare, e delle città stavano per essere fondate, mentre i barbari si stavano adattando al nuovo tenore di vita, frequentavano le piazze e si ritrovavano pacificamente [...] non avevano tuttavia dimenticato i loro antichi costumi [...] ma perdevano per strada progressivamente le loro tradizioni [...] ma quando Varo assunse il comando dell'esercito che si trovava in Germania [...] li forzò ad adeguarsi ad un cambiamento troppo violento, imponendo loro ordini come se si rivolgesse a degli schiavi e costringendoli ad una tassazione esagerata, come accade per gli stati sottomessi. I Germani non tollerarono questa situazione, poiché i loro capi miravano a ripristinare l'antico e tradizionale stato di cose, mentre i loro popoli preferivano i precedenti ordinamenti al dominio di un popolo straniero. Pur tuttavia non si ribellarono apertamente [...]». (Cassio Dione, Storia romana, LVI,18.).

Ignaro del reale stato d'animo dei Germani e approcciandosi a loro come se fossero dei sudditi arresisi alla volontà romana più che tribù vinte sul campo e costrette alla romanizzazione, Varo non coglieva il crescente rancore che covava nell'animo dei Germani per l'invasione romana, voluta a tutti i costi da Augusto per equipararsi al prozio Gaio Giulio Cesare, che aveva conquistato e mantenuto assoggettata, pur a prezzo di aspre insurrezioni, la Gallia dei Celti. Varo non considerava consistente questa situazione problematica a cui invece avrebbe dovuto prestare maggiore attenzione, tanto più che di esempi del passato ve ne erano stati in abbondanza, dal sanguinoso epilogo della vicina conquista della Gallia di 50-60 anni prima, alla recentissima rivolta delle genti dalmato-pannoniche.

«[...] Varo credeva che [i Germani] potessero essere civilizzati con il diritto, questo popolo che non si era potuto domare con le armi. Con questa convinzione egli si inoltrò in Germania come se si trovasse tra uomini che godono della serenità della pace e trascorreva il periodo estivo esercitando la giustizia [...] davanti al suo tribunale [...] ma i Germani, molto astuti nella loro estrema ferocia e fingendo [di essersi adeguati alla legge romana] indussero Varo ad una tale disattenzione ai problemi reali, che Varo si immaginava di amministrare la giustizia quasi fosse un Pretore urbano nel Foro Romano, non il comandante di un esercito in Germania [...]». (Velleio Patercolo, Storia romana, II, 117).

Nel settembre dell'anno 9, finita la stagione di guerra (che per i Romani incominciava a marzo e finiva a ottobre), Varo si muoveva verso i tre campi invernali che si trovavano a Alise (Haltern am See, nella Renania Settentrionale-Vestfalia, in Germania), sede amministrativa lungo il Reno della nuova provincia di Germania, a Castra Vetera (l'attuale Xanten, in Renania Settentrionale/Vestfalia, Germania) e il terzo ad Ara Ubiorum (Köln/Colonia, anch'essa sul Reno). Il percorso abituale sarebbe stato quello di scendere dal fiume Weser (presso l'attuale località di Minden), attraversare il passo di Doren (le cosiddette porte della Vestfalia) e raggiungere l'alto corso della Lippe presso Anreppen, per poi proseguire fino a Haltern (la romana Aliso) e di qui al Reno. Al comando di tre legioni (la XVII, la XVIII e la XIX), reparti ausiliari (3 ali di cavalleria e 6 coorti di fanteria) e numerosi civili, Varo si spinse invece verso un nuovo percorso, in direzione ovest, affidandosi alle indicazioni di Arminio, ufficiale nelle sue truppe ausiliarie ma segretamente anche capo dei germani Cherusci.

Varo non sospettava che Arminio avesse progettato un'imboscata per sopraffare l'esercito romano in Germania, ma al contrario considerava Arminio un fedele alleato. Sia Velleio Patercolo che Cassio Dione raccontano che Varo non prestò fede a quelli (incluso Segeste, futuro suocero di Arminio), che lo avevano informato sul progetto di un agguato nei suoi confronti. Così, quando credette di assistere ad  una rivolta (in realtà solo simulata) nei pressi del massiccio calcareo di Kalkriese (una collina alta 157 metri, situata nella Bassa Sassonia, oggi sito e museo archeologico di rilevante importanza), nel territorio dei Bructeri, Varo accettò di marciare su un percorso finora mai esplorato e all'interno di una folta foresta circondata da acquitrini, senza alcuna precauzione che lo mettesse al riparo da possibili aggressioni e non prendendo nemmeno in considerazione le voci circa un possibile agguato al suo esercito, assecondando così la volontà di Arminio. 

Varo disponeva di tre intere legioni: la XVII, XVIII e XIX, oltre ad alcune unità ausiliarie (3 ali e 6 coorti), pari a circa 15.000 legionari e 5.000 ausiliari (a ranghi completi). I Germani di Arminio potevano invece contare su circa 20.000/25.000 guerrieri delle tribù dei CherusciBructeri, oltre probabilmente a SigambriUsipetiMarsiCamaviAngrivari e Catti.


Primo giorno: l'attacco dei Germani nella fitta foresta. Varo e l'esercito al suo comando, stavano percorrendo un terreno estremamente stretto, difficile da superare con un esercito, anche se allungatosi  a dismisura, per oltre tre chilometri e mezzo. «[...] il terreno era sconnesso ed intervallato da dirupi e con piante molto fitte ed alte [...] i Romani erano impegnati nell'abbattimento della vegetazione ancor prima che i Germani li attaccassero [...] portavano con sé molti carri, bestie da soma [...] non pochi bambini, donne ed un certo numero di schiavi [...] nel frattempo si abbatteva su di loro una violenta pioggia ed un forte vento che dispersero ancor di più la colonna in marcia [...] il terreno così diventava ancor più sdrucciolevole [...] e l'avanzata sempre più difficile [...]». (Cassio Dione Cocceiano, Storia romana, LVI, 20, 1-3.).

E mentre i Romani si trovavano in serie difficoltà anche solo per avanzare, in un territorio a loro totalmente sconosciuto, dei Germani li attaccarono. Si trattava di una coalizione di popoli, sotto il comando di Arminio, che conosceva ottimamente le tattiche belliche romane, avendo egli stesso militato negli ausiliari durante la rivolta dalmato-pannonica del 6-9.

Arminio aveva predisposto con estrema cura tutti i dettagli dell'imboscata, aveva scelto come luogo dell'agguato il punto in cui la grande palude a nord si avvicinava di più alla collina calcarea di Kalkriese, e dove il passaggio era ristretto a soli 80-120 metri. Aveva fatto deviare Varo dal normale tracciato della strada, con lo scopo di condurre l'esercito romano in un imbuto senza uscita, dove aveva fatto costruire un terrapieno lungo circa 500-600 metri e largo 4-5 alla base della collina di  Kalkriese (alta circa 100 metri), dietro cui si erano nascoste parte delle sue truppe (sul posto erano concentrati non meno di 20-25.000 armati), che stavano ora attaccando il fianco sinistro delle truppe romane.

Schema dell'agguato nella
foresta di Teutoburgo,
da https://best5.it/post/
le-5-sconfitte-peggiori
-dellimpero-romano/
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«[...] i barbari, grazie alla loro ottima conoscenza dei sentieri, d'improvviso circondarono i Romani con un'azione preordinata, muovendosi all'interno della foresta ed in un primo momento li colpirono da lontano [evidentemente con un continuo lancio di giavellotti, aste e frecce] ma successivamente, poiché nessuno si difendeva e molti erano stati feriti, li assalirono. I Romani, infatti, avanzavano in modo disordinato nel loro schieramento, con i carri e soprattutto con gli uomini che non avevano indossato l'armamento necessario, e poiché non potevano raggrupparsi [a causa del terreno sconnesso e degli spazi ridotti del sentiero che seguivano] oltre ad essere numericamente inferiori rispetto ai Germani che si gettavano nella mischia contro di loro, subivano molte perdite senza riuscire ad infliggerne altrettante [...]». (Cassio Dione Cocceiano, Storia romana, LVI, 20, 4-5.).

Alla fine della giornata, dopo numerose perdite subite, Varo riuscì a riorganizzare l'esercito, accampandosi in una zona favorevole, per quanto fosse possibile, su un'altura boscosa.

Secondo giorno: la difesa di Varo e l'avanzata impossibile. Il secondo giorno, dopo aver bruciato e abbandonato la maggior parte dei carriaggi e tutti i bagagli non necessari, i Romani avanzarono disposti in schieramenti più ordinati fino a raggiungere una località in campo aperto, non senza ulteriori perdite. 

Da lì continuarono la marcia, forse ancora fiduciosi di potersi salvare, con la speranza di potersi avvicinarsi all'accampamento di Castra Vetera, sul fiume Reno, dove forse il legato Asprenate avrebbe potuto raggiungerli e salvarli. L'esercito procedeva in zone boscose che sembravano interminabili, assalito senza pietà dagli uomini di Arminio, che conoscevano bene il terreno e che non dovevano permettere ai Romani di organizzarsi e schierarsi, dato che in campo aperto le legioni avrebbero prevalso certamente. Fu proprio in questo frangente che i Romani subirono le perdite maggiori, poiché, per quanto cercassero di serrare i ranghi, lo spazio era troppo limitato per schierare una difesa. «[...] i Romani avevano serrato i ranghi in uno spazio assai stretto, in modo tale che sia i cavalieri sia i fanti attaccassero i nemici con uno schieramento compatto, ma in parte si scontravano tra loro ed in parte andavano ad urtare gli alberi [...]». (Cassio Dione Cocceiano, Storia romana, LVI, 21, 2.).

Terzo giorno: la morte di Varo e la strage dell'esercito romano. Il terzo giorno fu l'ultimo e il più tragico per l'armata romana, ormai decimata dalla furiosa lotta dei giorni precedenti. La pioggia e il vento si erano scatenati nuovamente, impedendo ai soldati romani di avanzare oltre e di poter costruire un nuovo accampamento entro cui difendersi. La pioggia era talmente copiosa che avevano difficoltà a usare le armi, in quanto scivolose. I Germani pativano di meno questa condizione poiché, per prima cosa il loro armamento era più leggero, poi conoscevano la zona e potevano attaccare e ritirarsi velocemente nella foresta. L'eco della battaglia aveva inoltre dato morale alle vicine tribù barbare che, fiduciose per l'esito finale della battaglia, avevano inviato nuovi rinforzi e infoltito così il già cospicuo numero di armati germani. I romani, sempre più decimati e ormai ridotti allo stremo, erano ovunque circondati e colpiti e si resero conto che non avrebbero resistito ulteriormente agli attacchi delle forze germaniche. «[...] per questi motivi Varo, e gli altri ufficiali di alto rango, nel timore di essere catturati vivi o di morire per mano dei Germani [...] compirono un suicidio collettivo [...]». (Cassio Dione Cocceiano, Storia romana, LVI, 21, 5.). «[... Quintilio Varo] si mostrò più coraggioso nell'uccidersi che nel combattere [...] e si trafisse con la spada [...]». (Velleio Patercolo, Storia romana, II, 119, 3).

Non appena si diffuse la notizia, molti soldati romani smisero di combattere preferendo uccidersi o fuggire piuttosto che venire catturati dai Germani. I resti dell'esercito romano erano ora allo sbando e episodi di coraggio si alternavano ad altri di codardia.
«[...] Lucio Eggio diede un esempio di valore al contrario di Ceionio che [...] propose la resa e preferì morire torturato piuttosto che in battaglia [...] Numonio Vala, legato di Varo, responsabile di un fatto crudele, abbandonando la fanteria senza l'appoggio della cavalleria, poiché provò a fuggire con le ali di cavalleria verso il Reno, ma il destino vendicò questo suo gesto vigliacco [...] e morì da traditore [...]». (Velleio Patercolo, Storia romana, II, 119, 4).
«[...] Poiché i Germani sfogavano la loro crudeltà sui prigionieri romani, Caldo Celio [caduto prigioniero], un giovane degno della nobiltà della sua famiglia, compì un gesto straordinario. Afferrate le catene che lo tenevano legato, se le diede sulla testa con tale violenza da morire velocemente per la fuoriuscita di copioso sangue e delle cervella [...]». (Velleio Patercolo, Storia romana, II, 120, 6).
«[...] nulla di più cruento di quel massacro fra le paludi e nelle foreste [...] ad alcuni soldati romani strapparono gli occhi, ad altri tagliarono le mani, di uno fu cucita la bocca dopo avergli tagliato la lingua [...]». (Floro, Epitome de T. Livio Bellorum omnium annorum DCC Libri duo, II, 36-37.).

Gran parte dei superstiti romani vennero sacrificati alle divinità germaniche. I restanti vennero liberati o scambiati con prigionieri germanici, oppure riscattati, se è vero che durante la spedizione del 15 (sei anni dopo la disfatta) Germanico si fece ricondurre sul campo di Kalkriese avvalendosi dell'aiuto dei pochissimi superstiti della battaglia (gli unici che fossero in grado di indicare il luogo), per dare degna sepoltura ai resti dei commilitoni morti sei anni prima. E fu qui che vide lo scempio di un autentico massacro.

«[Germanico giunse sul luogo della battaglia, ove] nel mezzo del campo biancheggiavano le ossa ammucchiate e disperse [...] sparsi intorno [...] sui tronchi degli alberi erano conficcati teschi umani. Nei vicini boschi sacri si vedevano altari su cui i Germani avevano sacrificato i tribuni ed i principali centurioni [...]». (Cornelio Tacito, Annali I, 61.).

A seguito di tale disastro, nell'esercito romano le legioni non ebbero più le numerazioni XVII, XVIII e XIX. Lucio Asprenate, nipote di Varo e suo subordinato in Germania, accorse con due legioni da Mogontiacum (Magonza), per scongiurare un'invasione germanica, salvare i superstiti e rafforzare gli animi incerti delle popolazioni galliche. «[...] Meritevole di lode è anche il valore di un certo Lucio Cedicio, prefetto del campo di Aliso [l'odierna Haltern sulla Lippe] e dei soldati con lui rinchiusi, i quali furono assediati da soverchianti forze germaniche, ma superate tutte le difficoltà, che parevano insuperabili per la forza del nemico germanico [...] còlto il momento favorevole, si conquistarono con le armi la possibilità di ritornare tra i loro [...] [al di là del Reno, presumibilmente a Castra Vetera]». (Velleio Patercolo, Storia romana, II, 120, 4).

«I barbari si impadronirono di tutti i forti [che erano presenti sul territorio germanico] tranne uno [si tratta dello stesso episodio narrato da Velleio, di Aliso], nei pressi del quale furono impegnati, non poterono attraversare il Reno ed invadere la Gallia [...] la ragione per cui non riuscirono ad occupare il forte romano è da attribuirsi alla loro incapacità nel condurre un assedio, mentre i Romani facevano un grande utilizzo di arcieri, respingendo ed infliggendo numerose perdite ai barbari [...] e si ritirarono quando vennero a sapere che i Romani avevano posto una nuova guarnigione a guardia del Reno [si trattava probabilmente di Asprenate] e dell'arrivo di Tiberio, che sopraggiungeva con un nuovo esercito [...]». (Cassio Dione Cocceiano, Storia Romana, LVI, 22, 2a-2b).

Da allora almeno fino al 17/18 d.C., ad Ara Ubiorum (la moderna città di  Köln/Coloniasoggiorneranno due legioni: la legio I Germanica e la legio XX Valeria Victrix. Svetonio racconta che lo shock di questa notizia, giunta a Roma a soli cinque giorni dal trionfo su Dalmati e Pannoni, sconvolse anche il vecchio imperatore, finora provato a tutto, e che da allora non volle più Germani accanto a sé: «Quando giunse la notizia [...] dicono che Augusto si mostrasse così avvilito da lasciarsi crescere la barba ed i capelli, sbattendo, di tanto in tanto, la testa contro le porte e gridando: "Varo rendimi le mie legioni!». Dicono anche che considerò l'anniversario di quella disfatta come un giorno di lutto e tristezza.». (Svetonio, Vite dei dodici Cesari, II, 23).
«[...] Augusto quando seppe quello che era accaduto a Varo, stando alla testimonianza di alcuni, si strappò la veste e fu colto da grande disperazione non solo per coloro che erano morti, ma anche per il timore che provava per la Gallia e la Germania, ma soprattutto perché credeva che i Germani potessero marciare contro l'Italia e la stessa Roma.». (Cassio Dione Cocceiano, Storia Romana, LVI, 23, 1).
«[...] Augusto poiché a Roma vi era un numero elevato di Galli e Germani [...] nella Guardia Pretoriana [...] temendo che potessero insorgere [...] li mandò in esilio in diverse isole, mentre a coloro che erano privi di armi ordinò di allontanarsi dalla città [...]». (Cassio Dione Cocceiano, Storia Romana, LVI, 23, 4).

Arminio, dopo questo grande successo militare, avrebbe voluto proseguire l'attacco a Roma  alleandosi con l'altro grande sovrano germano Maroboduo, il re dei Marcomanni, come ci racconta Velleio Patercolo: «La crudeltà dei nemici germani aveva fatto a pezzi il cadavere, quasi completamente carbonizzato, di Varo, e la sua testa, una volta tagliata, fu portata a Maroboduo, il quale la inviò a Tiberio Cesare, perché fosse seppellita con onore [...]» (Velleio Patercolo, Storia romana II, 119)

Fu una fortuna per Roma che Maroboduo avesse mantenuto fede ai patti stipulati con Tiberio tre anni prima (nel 6), gesto che costerà caro al sovrano marcomanno poiché nel 18 Arminio, raccolta un'enorme confederazione di genti germane, lo sfiderà e riuscirà a sconfiggerlo in uno scontro campale. Tiberio, ricordando quanto Maroboduo gli fosse rimasto fedele evitando che la disfatta di Teutoburgo si trasformasse in una nuova e ancor più devastante invasione germanica (come quella avvenuta un secolo prima da parte di Cimbri e Teutoni, nel 113-101 a.C.), gli diede asilo politico, una volta caduto in disgrazia presso la sua gente, all'interno dei confini imperiali, a Ravenna.

Ora a Roma necessitava una reazione militare immediata e decisa per non permettere al nemico germanico di prendere coraggio e di invadere i territori della Gallia e magari dell'Italia stessa, mettendo a rischio non solo una provincia ma la stessa salvezza di Roma.

Ottaviano Augusto nell' Ara Pacis.

In una situazione tanto drammatica, Augusto fu costretto anche ad arruolare liberti:

«[...] Augusto organizzò comunque le rimanenti forze con ciò che aveva a disposizione [...] arruolò nuovi uomini [...] tra veterani e liberti e poi li inviò con la massima urgenza, insieme a Tiberio, nella provincia di Germania [...]» (Cassio Dione Cocceiano, Storia Romana, LVI, 23, 3.)

«[...] due volte soltanto arruolò i liberti come soldati: la prima volta fu per proteggere le colonie vicine dell'Illirico, la seconda per sorvegliare la riva del Reno. Erano schiavi che provenivano da uomini e donne facoltosi, ma egli preferì affrancarli subito e li collocò in prima linea, senza mescolarli ai soldati di origine libera (peregrini) e senza dar loro le stesse armi.» (Svetonio, Augustus, 25.)

«[...] (Tiberio Cesare) viene inviato in Germania, e qui rafforza le Gallie, prepara e riorganizza gli eserciti, fortifica i presidi e avendo coscienza dei propri mezzi, non timoroso di un nemico che minacciava l'Italia con un'invasione simile a quella dei Cimbri e dei Teutoni, attraversava il Reno con l'esercito e passava al contrattacco, mentre al padre Augusto ed alla patria sarebbe bastato di tenersi sulla difensiva. Tiberio avanza così in territorio germano, si apre nuove strade, devasta campi, brucia case, manda in fuga quanti lo affrontano e con grandissima gloria torna ai quartieri d'inverno senza perdere nessuno di quanti aveva condotto al di là del Reno [...]» (Velleio Patercolo, Storia di Roma, II, 120.)

Nel settembre del 9, dopo aver brillantemente sconfitto i ribelli dalmati, Tiberio torna a Roma dove decide, giunta la notizia della battaglia della Foresta di Teutoburgo, di posticipare la celebrazione del trionfo che gli era stato tributato in modo tale da rispettare il lutto imposto per la disfatta di VaroAugusto lo invia sul Reno, per evitare che il nemico germanico attacchi la Gallia e che le province appena pacificate possano rivoltarsi nuovamente in cerca dell'indipendenza. Giunto in Germania, Tiberio poté constatare la gravità della disfatta di Varo e delle sue conseguenze, che impedivano di progettare una nuova riconquista delle terre che andavano fino all'Elba. Adottò, dunque, una condotta particolarmente prudente, prendendo ogni decisione assieme al consiglio di guerra ed evitando di far ricorso, per la trasmissione di messaggi, a uomini del luogo come interpreti. Sceglieva allo stesso modo con cura i luoghi in cui erigere gli accampamenti, in modo tale da fugare qualsiasi pericolo di rimanere vittima di una nuova imboscata e mantenne infine, tra i legionari una disciplina ferrea, punendo in modo estremamente rigoroso tutti coloro che trasgredivano i suoi rigidi ordini. In questo modo poté ottenere numerose vittorie e confermare il confine lungo il fiume Reno, mantenendo fedeli a Roma i popoli germanici dei Batavi, Frisi Cauci, che abitavano quei luoghi.

E comunque, dopo la pesante sconfitta, i Romani per riscattare l'onore dell'esercito sconfitto, diedero inizio a una guerra durata sette anni. La battaglia di Idistaviso del 16 è considerata la rivincita  dell'Impero romano contro i Germani.


Germanico Giulio
Cesare, figlio di Druso,
da QUI.
Nel 16, il legato imperiale Germanico, figlio di Druso maggiore, riesce a battere Arminio in due grandi battaglie: la prima nella piana  di  Idistaviso, la seconda di fronte al Vallo angrivariano, entrambe tra la riva destra del fiume Visurgi (l'attuale Weser), le colline circostanti, la grande foresta germanica e le paludi più a nord. La battaglia di Idistaviso del 16 è considerata la rivincita alla disfatta di Varo dell'Impero romano contro i Germani. Le due battaglie di Idistaviso si conclusero positivamente per l'esercito romano; le legioni di Varo distrutte a Teutoburgo furono vendicate e Germanico riuscì anche a recuperare due delle tre aquile perdute dai romani nella disfatta, ma in realtà la campagna di Germanico non ottenne risultati decisivi. A dispetto delle asserzioni di Tacito, grande accusatore di Tiberio ed estimatore di Germanico, non fu l'invidia dell'imperatore che vanificò l'esito della battaglia di Idistaviso. Germanico non era in grado di rimanere stabilmente, nonostante le vittorie, a est del Reno; inoltre la sua flotta aveva subito forti perdite a causa di una tempesta.

Le legioni romane, salite durante le guerre civili a 60 circa e attestate alla morte di Augusto a 25, non superarono durante l’impero il numero di 30 contemporaneamente in armi. Erano dislocate lungo tutto il limes difensivo dell’impero in campi permanenti costruiti in posti strategici. Dall’età di Augusto a quella di Caligola le legioni erano composte in maggioranza da italici. La legione, forte in età imperiale di circa 5.500 uomini, ebbe da Augusto un comandante permanente con il titolo di legatus (Augusti) legionis, solitamente un senatore di rango pretorio; nell’ufficialità furono confermate le figure dei 6 tribuni, acquisì grande importanza quella del praefectus castrorum e, soprattutto, quella del centurio, spina dorsale della legione.

Nei primi tre secoli, d.C., dopo la riforma mariana dell'esercito, le centurie erano composte tipicamente da ottanta uomini, in epoca tarda da cento, distribuiti in circa dieci contubernia. L'intera centuria era comandata normalmente da un centurione. 

Il contubernium era la più piccola unità militare dell'esercito romano e in epoca classica indicava anche un rapporto permanente tra servi o tra dominus e serva. Il contubernium era composto da otto uomini possibilmente facenti capo ad un decano e in alcuni casi uno o più servi erano a disposizione dei legionari che ne facevano parte, secondo le disponibilità economiche degli stessi soldati. Dieci contubernia formavano una centuria. I soldati di uno stesso contubernium condividevano la stessa  tenda (per questo erano definiti contubernales) ed erano ricompensati o puniti insieme. Tale termine ha passato tutta la storia romana divenendo un termine adoperato addirittura dai soldati dell'esercito inglese del 1800 per indicare i compagni di tenda, esattamente come accadeva nelle legioni dell'antica Roma.

In età alto-imperiale venne riorganizzato anche il reparto di tecnici e ingegneri militari atti a rendere più agevole il cammino delle armate romane durante le campagne militari o la loro permanenza negli alloggiamenti estivi (castra aestiva) ed invernali (hiberna). E così se le strade romane potevano essere utilizzate per velocizzare lo schieramento degli eserciti durante le operazioni di "polizia" lungo i confini imperiali, alcuni tipi di ponti potevano essere montati e smontati velocemente senza l'utilizzo di chiodi: in questo modo i legionari, che trasportavano un equipaggiamento di circa 40 chili (comprendente anche un palo per la palizzata del campo) potevano percorrere nella marcia circa 24 chilometri al giorno (40 quando potevano viaggiare più leggeri). In altri casi si provvedeva alla costruzione di strade in zone acquitrinose (pontes longi), come avvenne in Germania durante il periodo della sua  occupazione, dal 12 a.C. al 9 d.C.

Balista romana.
L'artiglieria romana comprendeva baliste (ogni legione ne aveva 55, servite ciascuna da 11 uomini), ossia grandi balestre montate su ruote, che grazie alla torsione delle loro corde lanciavano a più di 500 metri distanza dardi di 3 cubiti (132 cm), che potevano essere anche incendiati. Insieme alle baliste c'erano anche gli "scorpioni", simili alle precedenti ma molto più piccoli e maneggevoli. Insieme alle baliste venivano schierati anche gli onagri (catapulte chiamate così per il rinculo che producevano durante il lancio), che lanciavano massi ricoperti di pece, cui si appiccava il fuoco, creando vere "bombe incendiarie", con lo scopo di abbattere le difese nemiche, distruggendo mura ed edifici. L'artiglieria era naturalmente usata anche nelle battaglie campali. Tale uso fu fatto da Germanico nel 14 d.C. contro i Catti e nel 16 d.C. contro i Cherusci, nell'assalto delle truppe romane contro un terrapieno difeso dai barbari.

Ariete romana.
I genieri in forza alle legioni erano in grado di costruire e schierare potenti armi collettive, in funzione sia offensiva che difensiva, come catapulte, onagri (10 per legione, ovvero uno per coorte), scorpioni e carrobaliste (55 per legione), con una funzione tattica analoga a quella della attuale artiglieria campale; inoltre vi erano altre macchine usate esclusivamente per l'assedio, come baliste, arieti, torri d'assedio, vinee.

Catapulta romana.
Addetti alle armi da lancio erano in primo luogo i ballistarii, i quali grazie ad un'elevata specializzazione, appartenevano a quel gruppo di legionari privilegiati, chiamati immunes. Erano alle dipendenze di un Magister ballistarius (attestato fin dal II secolo), che a sua volta era coadiuvato da un optio ballistariorum (attendente alla cura del comandante) ed un certo numero di doctores ballistariorum (sottufficiali).

Ma il genio della legione non assolveva soltanto a funzioni militari. Si conoscono addetti e veterani delle legioni che erano richiamati anche per incarichi civili nelle città e servivano da collaboratori delle autorità provinciali. Si segnala il caso del veterano librator Nonio Dato che fu richiamato dal proconsole della Mauretania Cesariense come addetto alla supervisione per la costruzione dell'acquedotto della città di Saldae. Lo stesso Plinio in Bitinia ricevette la richiesta di selezionare dei tecnici della più vicina legione per l'edificazione di un canale. Quest'impiego del personale tecnico specializzato delle legioni poté riguardare tutte le legioni e le province dell'impero. Spesso le stesse coorti assolvevano anche a compiti di polizia nelle città, come a Cartagine, dove ogni coorte della III Augusta si alternava periodicamente nel presidio della città.

Gaio Cesare Caligola
da QUI.
Nel 39 Caligola crea due nuove legioni, per una campagna in Germania Magna, sulle orme di suo padre Germanico e di suo nonno Druso maggiore: la XV Primigenia e la XXII Primigenia.
Nerone, da QUI.

Nerone crea una nuova legione nel 66-67, composta da italici tutti di statura molto elevata, a cui viene dato il nome di I Italica, e che lo stesso Nerone ribattezza “falange di Alessandro Magno”, circostanza che denota le grandiose idee che si celavano nella sua mente. L'obiettivo della campagna militare consisteva nell'occupare le cosiddette “porte del Caspio” (passo di Darial), sottomettendo il popolo degli Albani e forse degli stessi Sàrmati Alani più a nord.

Galba porta a termine l'arruolamento di due legioni: la I Adiutrix (i cui effettivi erano costituiti da uomini che avevano prestato servizio nelle flotte italiche di Miseno e Ravenna) e la VII Gemina.

Vespasiano, al termine della guerra civile e della rivolta dei Batavi, scioglie ben quattro legioni che avevano trascinato nel fango le proprie insegne macchiandosi di disonore (I Germanica, IV Macedonica, XV Primigenia e XVI Gallica) e ne riformò tre nuove (II Adiutrix Pia Fidelis, IV Flavia Felix, e XVI Flavia Firma) dando la possibilità ad alcuni di fare pubblica ammenda. Il figlio Domiziano creava una nuova legione in vista delle campagne in Germania, nella regione degli agri decumates: la I Minervia.

Vespasiano: Ny Carlsberg
Glyptotek, Copenhagen,
foto di Carole Raddato
da QUI.

Con la dinastia dei Flavi (dal 69 al 96, con Vespasiano, Tito e Domiziano), furono introdotte per prime le unità ausiliarie milliariae, ovvero composte da circa 1.000 armati (create ex novo oppure incrementandone gli armati da una preesistente quingenaria) in tutte le sue tipologie: dalle cohortes peditatae, a quelle equitatae fino alle alae di cavalleria (quest'ultima considerata l'élite dell'esercito romano). Le alae milliariae erano formate, a differenza di quelle quingenariae, da 24 turmae di 32 uomini per un totale di 768 cavalieri. Il comandante di un'ala, che in origini era un principe nativo appartenente alla tribù dell'unità ausiliaria, era stato sostituito con un praefectus alae dell'ordine Equestre, che poteva restare in carica per un periodo di 3 o 4 anni, al termine del quale poteva accedere all'ordine senatorio. La paga (stipendium) fu invece aumentata di un quarto, portando così il compenso annuo a 333 denari per un cavaliere d'ala e a 200/266 denari per un cavaliere di cohors equitata. Nel I sec. 1 denario equivaleva ad 8 € attuali.

Dall’età di Augusto a quella di Caligola le legioni erano composte in maggioranza da italici, ma già negli anni fra Claudio e Nerone le proporzioni si equilibrarono, fino ad arrivare al periodo compreso tra i Flavi e Traiano in cui la proporzione divenne di 4 a 1 in favore dell’arruolamento provinciale.

Al tempo di Vespasiano sembra si attuò la riforma della prima coorte, che secondo alcuni studiosi moderni potrebbe essere invece avvenuta all'epoca di Augusto. Si trattava di una coorte milliare, vale a dire di dimensioni doppie rispetto alle altre nove coorti, con 5 manipoli (non quindi 6) di 160 armati ciascuno (pari a 800 legionari), a cui era affidata l'aquila della legione. Primo esempio di costruzione che ospitasse coorti di queste dimensioni, è la fortezza legionaria di Inchtuthill, in Scozia.


Carta dell'antica Giudea con
indicata Masada. 
L'assedio di Masada (o Massada, o in ebraico Metzada) è stato l'episodio che ha concluso la prima guerra giudaica, nel 73. Nel 66, Masada era stata conquistata da un migliaio di Sicarii (o Zeloti) che vi si insediarono con donne e bambini; quattro anni dopo (nel 70), una volta caduta Gerusalemme, vi trovarono rifugio gli ultimi strenui ribelli zeloti non ancora disposti a darsi per vinti. L'esercito romano, guidato da Lucio Flavio Silva, affrontò in un arduo assedio questo nutrito gruppo di ribelli, che si erano arroccati in questa fortezza, considerata inespugnabile a cagione delle avversità che presentava il luogo nei confronti degli  assedianti. Nonostante ciò i Romani conquistarono la cittadella.
Vista aerea di Masada. "Aerial
 view of Masada (Israel) 01"
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tramite Wikimedia Commons
http://commons.wikimedia
.org/wiki/ File%3AAerial_

view_of_Masada_(Israel)
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Dopo aver circondato la fortezza con una linea di circonvallazione, come solo i Romani erano in grado di fare, facendo in modo che nessuno potesse fuggire, il comandante romano diede inizio alle operazioni di assedio, nell'unico posto dove era possibile elevare una rampa d'assedio. E se gli assediati potevano disporre all'interno della fortezza di ingenti riserve di acqua e viveri, gli assedianti, che si trovano in una pianura arida, furono costretti a ricevere ogni giorno approvvigionamenti per 16 tonnellate di viveri e 19.000 litri di acqua, portati complessivamente da circa 400 asini.
Alle spalle della torre che dominava il sentiero che ad occidente s'inerpicava verso la reggia, si trovava una grossa prominenza rocciosa, sufficientemente larga, che andava sviluppandosi in altezza fino a 300 cubiti (133 metri circa) sotto il livello delle mura di Masada. Questa rampa naturale era chiamata "Bianca". Lucio Flavio Silva dispose di occuparla e ordinò all'esercito di costruirvi sopra un terrapieno.
La rampa d'assedio vista di lato,
 dall'alto di Masada.
"Rampe massada1" di Posi66
 dal de.wikipedia.org. 
Con licenza CC BY-SA 3.0
tramite Wikimedia Commons
 I legionari romani, presi da grande ardore, cominciarono ad elevarvi un solido terrapieno dell'altezza di duecento cubiti (89 metri circa) per colmare il disavanzo di 133 metri con la fortezza che li sovrastava.

Torre mobile
d'assedio
romana. 
E poiché non fu giudicato sufficientemente stabile ed alto per piazzarvi le macchine d'assedio, venne costruita sopra un'ulteriore piattaforma di grossi blocchi uniti insieme, dell'altezza e larghezza di ulteriori cinquanta cubiti (22 metri circa).
In sostanza si erano andati a colmare 111 metri dei 133 di dislivello. Ne mancavano ancora una ventina. Si provvide, pertanto, a costruire macchine simili a quelle realizzate da Vespasiano e Tito per i loro precedenti assedi oltre ad una gigantesca torre d'assedio, alta sessanta cubiti (quasi 27 metri), tutta ricoperta di ferro, dall'alto della quale i Romani, poterono tirare sugli assediati, grazie ad un gran numero di catapulte e baliste, in modo da ottenere che i difensori si allontanassero da quel tratto di mura. 
Ariete romana.
Contemporaneamente Flavio Silva fece costruire anche un grosso ariete e dispose di battere continuamente il muro, fino quando non lo si fece crollare, dopo lunghi sforzi. 

I sicarii però, erano riusciti a costruire un altro muro, più interno, che per evitare che potesse fare la fine del precedente, risultò più morbido, capace di smorzare la violenza dei colpi. 
Il muro risultava costruito nel seguente modo:
- vennero prima di tutto congiunte fra loro alle estremità delle grosse travi, ciascuna attaccata all'altra nel senso della lunghezza;
- disposero verticalmente queste strutture, a due a due, l'una di fronte all'altra, la cui distanza fosse pari allo spessore di un muro, all'interno del quale gettarono della terra per riempirlo;
- per evitare che nell'intercapedine la terra si sollevasse e fuoriuscisse, congiunsero quelle disposte per lungo con altre trasversali.
Sembrava quindi un'opera in muratura, ma i colpi giungendo sul morbido erano smorzati nel loro impatto e facevano sì che la terra si compattasse sempre più. A questo punto Flavio Silva ritenne più opportuno che si procedesse con il fuoco, e ordinò ai suoi soldati di lanciare contro il muro fatto di travi di legno, fiaccole accese. Il muro prese così subito fuoco e, incendiandosi, sprigionò una gigantesca fiammata. Inizialmente il vento cominciò a soffiare dal nord contro i Romani, terrorizzandoli, ma all'improvviso il vento prese a spirare dal sud e spinse le fiamme contro il muro della fortezza di Masada avvolgendolo con le fiamme. I Romani allora tornarono nell'accampamento, in attesa di scatenare l'attacco decisivo contro i nemici il giorno seguente, quando il muro fosse stato completamente distrutto. Quando i Romani conquistarono finalmente la cittadella, vi trovarono i cadaveri di quasi tutti gli assediati: piuttosto che perdere la libertà, avevano preferito perdere la vita

A Roma, nel II secolo, nella guardia pretoriana vengono istituiti gli Equites singulares Augusti (cavalieri personali dell'imperatore), corpo militare composto inizialmente da 500 cavalieri che costituivano la scorta dell'imperatore e ne garantivano la sicurezza durante le campagne militari. Il corpo, istituito al tempo della dinastia flavia e successivamente rinforzato da Traiano, fu sciolto da Costantino I dopo la battaglia di Ponte Milvio contro Massenzio, in quanto gli Equites singulares si erano schierati al fianco di Massenzio.

Erano organizzati in alae di cavalleria, con ciascuna ala divisa in 16 turmae da 32 uomini, 16 decurioni, un decurione princeps, e comandate da un praepositus consularis per un totale di 512 cavalieri. Il loro numero potrebbe essere stato raddoppiato a 1.000 uomini da Diocleziano. Per poter diventare equites singulares occorreva aver maturato un'esperienza di almeno cinque anni negli altri reparti dell'esercito, il servizio durava complessivamente venticinque anni, mentre sembra che non ricevessero alcuna paga extra rispetto alle alae di cavalleria. Gli equites singulares erano reclutati solitamente tra le alae ausiliarie, mentre l'etnia prevalente era dapprima germanica, successivamente a partire da Settimio Severo, in maggioranza fu composta da Pannoni, Daci e Traci.

Traiano formò due nuove legioni, la prima in vista della conquista della Dacia (la XXX Ulpia Victrix, il cui numerale indicava che in quel momento vi erano esattamente 30 unità legionarie), la seconda prima delle campagne partiche (la II Traiana Fortis). 


Traiano: Museo
Archeologico di
Venezia, foto di
Carole Raddato
da QUI.
Con il reclutamento i soldati ottenevano automaticamente la cittadinanza romana con tutti i relativi benefici che questa comportava e questo sta ad indicare la volontà dell'imperatore di avvalersi di una forza d'élite efficace e fidata.  

Durante le guerre di conquista di Traiano, imperatore romano dal 98 al 117, è introdotto l'uso del contus (lunga lancia da "carica", che misurava fino a 3,65 metri di lunghezza) per la cavalleria, oltre ad un primo reparto di cavalieri su dromedari ed un contingente di Daci.

Scena XXIII della Colonna traiana,
da https://it.wikipedia.org/wiki/
Sarmati#/media/File:028_Conrad_
Cichorius,_Die_Reliefs_der_
Traianss%C3%A4ule,_Tafel
_XXVIII_(Ausschnitt_01).jpg
Nella scena XXIII della Colonna traiana a Roma, si riconoscono cavalieri Sàrmati catafracti della popolazione dei Roxolani, che combatterono contro Traiano durante la conquista romana della Dacia negli anni 101-106.


Cavalieri romani del II sec., dalla colonna traiana. Da
https://it.wikipedia.org/wiki/Cavalleria_%28storia_
romana%29#/media/File:104_Conrad_Cichorius,_
Die_Reliefs_der_Traianss%C3%A4ule,
_Tafel_CIV.jpg

La cavalleria legionaria potrebbe essere stata abolita, almeno per un breve periodo di tempo dall'imperatore Traiano, considerando che viene citata in un discorso del suo successore, Adriano. In questo periodo esistevano, infatti, numerosi reparti di cavalleria ausiliaria (formata da provinciali e alleati, i cosiddetti peregrini), quale degno completamento tattico e strategico alla fanteria legionaria (formata invece da cittadini romani).

Si trattava di unità altamente specializzate, arruolate in aree territoriali di antiche tradizioni:
- cavalleria "pesante", come i catafratti (di origine orientale o Sàrmata, a partire dai principati di Traiano ed Adriano): dotati di una lunga e pesante lancia, chiamata contus (usata normalmente con l'ausilio di entrambe le mani, poiché a volte raggiungeva i 3,65 metri di lunghezza), oltre al fatto di essere interamente rivestiti di una maglia di metallo, cavaliere e cavallo (chiamata lorica squamata se formata da "scaglie" di metallo o lorica hamata, se composta invece da anelli del diametro di 3-9 mm);
cavalleria "leggera", come quella numida o maura, dotata di un piccolo scudo rotondo (clipeus), una spatha che a volte raggiungeva i 90 cm (certamente più lunga rispetto al gladio dei legionari), una lancea più leggera (normalmente lunga 1,8 metri) ed in alcuni casi un'armatura (lorica hamata o squamata);
cavalleria sagittaria, come gli arcieri orientali o quelli Traci a cavallo;
cavalleria "mista", come le coorti equitate.

Impero Romano nel 125, con le sue strade principali e gli
stanziamenti delle sue legioni, da https://upload.wikimedia
.org/wiki pedia/commons/b/bb/Roman_Empire_125.png
.

Adriano: Museo delle
Terme, Roma. Foto di
Livioandronico2013
da QUI.
Adriano (imperatore romano dal 117 al 138), istituì anche i cosiddetti numeri, che erano reparti ausiliari di entità numerica assai variabile (di fanti o di cavalieri), i quali conservavano le proprie caratteristiche etniche (anche oltre i confini imperiali) e spesso svolgevano compiti specifici. 

Fu inoltre il primo a rendere operativa un'ala di cavalleria pesante, i cavalieri catafrattari dell'Ala I Gallorum et Pannoniorum catafractaria, formata da cavalieri sàrmati Roxolani che erano stati sistemati in Gallia e Pannonia dopo le guerre condotte contro loro stessi nel periodo 107-118. A partire da questo periodo si cominciò a fare ricorso a queste unità di contarii, truppe armate di contus, (lunga e pesante lancia usata normalmente con l'ausilio di entrambe le mani, poiché a volte raggiungeva i 3,65 metri di lunghezza), secondo lo stile di combattimento aggressivo tipico dei Sarmati, e in particolare gli Iazigi, fondato sulla carica diretta. Già all'inizio del 69 unità sarmatiche erano state assoldate per presidiare la frontiera in Mesia, anche se tali truppe erano sospettate di essere facilmente corruttibili. Una delle prime unità di contarii fu l'Ala I Ulpia contariorum militaria, di stanza nella vicina Pannonia inferiore, costituita successivamente alla campagna dacica di Traiano. Questi cavalieri non avevano elmo o armatura, ma erano muniti di sola lancia.

La cavalleria romana "pesante" come gli equites cataphractarii equites  clibanarii (di origine sarmatica), adottata partire dal principato di Adriano, era dotata di una lunga e pesante lancia, chiamata contus (usata normalmente con l'ausilio di entrambe le mani, poiché a volte raggiungeva i 3,65 metri di lunghezza), inoltre cavalieri e cavalli erano interamente rivestiti di  una maglia di  metallo chiamata  lorica squamata se formata da "scaglie" di metallo o lorica hamata se fatta invece da anelli del diametro di 3-9 mm.

Da Adriano in poi, l’elemento italico nelle legioni divenne pressoché inesistente e iniziò la tendenza a reclutare gli effettivi della legione nella stessa regione in cui essa era stanziata.

Intorno al 165-166, l'imperatore Marco Aurelio istituisce due nuove legioni. Si trattava della II e III Italica.

Marco Aurelio: Musei Capitolini
di Roma.

Marco Aurelio, imperatore dal 161 al 180, ad introdusse nuovi reparti di cavalleria sarmatica (questa volta degli Iazigi) durante le guerre marcomanniche (nel 175).

Sàrmati, distinti in Iazigi, Roxolani (o Rossolani), Aorsi e Alani, come altre popolazioni barbariche, a partire dal II-III secolo ottennero di stabilirsi nel territorio dell'Impero e in cambio dovettero fornire soldati all'esercito romano. Già Marco Aurelio aveva impiegato un contingente di questi ottimi cavalieri in Britannia. 

Al tempo delle guerre marcomanniche, Marco Aurelio si avvalse di vexillationes al fine di comporre un esercito di invasione e poi di occupazione della neo-provincia di Marcomannia, come testimoniano numerose iscrizioni, tra cui quella rinvenuta a Leugaricio, delle legioni I Adiutrix e II Adiutrix. 

Commodo rappresentato
con gli attributi di
Durante il Principato (quindi fino a Commodo imperatore), la vessillazione (dal latino vexillatio, al plurale vexillationes) era un distaccamento della legione romana, utilizzato come una unità temporanea dell'esercito. Durante il Principato, le vessillazioni venivano costituite all'occorrenza, per far fronte ad esigenze improvvise, come crisi sulle vaste frontiere dell'Impero romano o guerre civili, piuttosto che per formare gli eserciti da impiegare per le campagne offensive. L'impiego di più vessillazioni permetteva di ottenere unità in grado di adempiere a funzioni offensive e difensive senza sguarnire le frontiere spostando intere legioni: al termine dell'emergenza, ciascuna vessillazione ritornava alla propria legione di origine. Qualora le vessillazioni legionarie fossero inviate in una provincia governata da un procuratore, era lui a prendere il titolo straordinario di procurator pro legato. Proprio per la loro natura occasionale le vessillazioni variavano in numero di elementi, ma tipicamente erano costituite da 1.000 legionari e/o 500 cavalieri, più probabilmente degli auxilia.

A partire dal Dominato (da Settimio Severo imperatore) , col termine di "vessillazione" si indicava una unità di sola cavalleria dell'esercito romano. Il termine "vexillatio" deriva dal vexillum, l'insegna recante il nome della legione madre portata dai distaccamenti delle stesse, durante il Principato. Era comandata da un praepositus o praefectus, che poteva essere un centurione, un primipilo o un ufficiale superiore. Le vexillationes palatinae e quelle comitatentes erano nominalmente formate da 300 o 600 cavalieri.

Settimio Severo
Dal 193, con la scomparsa di Commodo, ucciso da una congiura, si apre un periodo di instabilità politica caratterizzata da una guerra civile durata  cinque anni, dal 193 al 197, con scontri tra legioni  acquartierate in diverse regioni dell'Impero, ciascuna delle quali sostiene il proprio generale come  nuovo imperatore. Ha la meglio Settimio Severo, originario della Tripolitania, in Africa, governatore della Pannonia. L'ascesa di Settimio Severo costituisce uno spartiacque nella storia romana; è considerato infatti l'iniziatore della nozione di "Dominato" in cui l'imperatore non è più un privato gestore dell'impero per conto del Senato, come durante il principato, ma è unico e vero dominus, che trae forza dall'investitura militare delle legioni (anche se anticipazioni di questa tendenza si erano avute durante la guerra civile seguita alla morte di Nerone e con Traiano). Fu iniziatore di un nuovo culto che si incentrava sulla figura dell'imperatore, ponendo le basi per una sorta di "monarchia sacra" mutuata dall'Egitto e dall'oriente ellenistico di Alessandro Magno. Fu così che Settimio Severo adottò il titolo di Dominus ac Deus, (Signore e Dio) al posto di quello di princeps (Augusto definiva il princeps come il primo degli uguali, cioè i senatori), e regolò i meccanismi di successione assegnandosi il titolo di Augustus ed usando quello di Caesar per il suo successore designato. Sua moglie Giulia Domna, di origine siriaca, promosse attivamente l'arrivo a Roma di culti monoteistici solari, che sottolineavano l'analogia  tra ordine imperiale e ordine cosmico. Settimio Severo pose le basi per il successivo sistema autocratico  fondato sugli imperatori militari, creando la prima forma di autocrazia  militare, togliendo potere al Senato. Si racconta infatti che, poiché aveva preso il potere con l'aiuto dei militari, ricambiò l'ostilità senatoria ordinando l'esecuzione di 29 senatori, accusati di corruzione e cospirazione contro di lui e sostituendoli con suoi favoriti, soprattutto africani e siriani. Inoltre attribuì e ampliò i poteri degli ufficiali dell'esercito investendoli anche di cariche pubbliche che erano solitamente appannaggio del senato. Appena giunto a Roma avviò l'epurazione della guardia pretoriana, che dopo essere stata per due secoli reclutata in Italia e in piccola parte nelle province più romanizzate, fu smantellata e riorganizzata con quadri e organici a lui fedeli, tratti dal contingente danubiano. Da allora in poi l'accesso alla Guardia Pretoriana, un tempo avente un prerequisito geografico e culturale, sarebbe stata appannaggio dei soldati più battaglieri, quelli dell'Illirico nel III secolo. Insediò una legione ad Albano Laziale, a dispetto della tradizione che voleva l'Italia libera dagli eserciti e utilizzò i proventi della vendita delle terre confiscate agli avversari politici per creare una cassa imperiale privata, il fiscus. Il fiscus era distinto dall'aerarium, la cassa dello Stato che doveva coprire i costi della complessa e articolata macchina burocratica e amministrativa dell'Impero. Diede impulso agli studi di diritto e nominò il più importante giurista del tempo, Papiniano, Praefectus urbi, con poteri di polizia e repressione criminale su Roma. Il nuovo ordine promosso da Settimio Severo si scontrò presto con i problemi derivanti dallo scoppio di nuove guerre. Già l'imperatore Caracalla dovendo guerreggiare contro i Parti a oriente e i Marcomanni lungo il confine renano-danubiano, aveva notevolmente gravato sulle finanze statali con l'arruolamento sempre più massiccio di mercenari  germani nell'esercito e  la diminuzione del  metallo prezioso nelle monete, che causò inflazione. Le campagne militari contro i Parti combattute dagli Imperatori erano dettate da esigenze strategiche di controllo dell'area ma anche da esigenze politiche, per perpetuare l'affermazione di un sacro primato del potere imperiale romano su un insieme di popoli, sulla scia di Alessandro il Grande. Settimio Severo divenne generale romano ma proveniva da una famiglia di re-sacerdoti di Emesa, città santa e capitale del culto del Dio solare "El-Gabal", il "Sol invictus" dei Romani e sentiva molto la sua "sacra missione".

Settimio Severo avviò importanti riforme militari che toccarono numerosi aspetti dell'esercito romano e che costituirono le basi del successivo sistema fondato sugli imperatori militari del III secolo. Creò la prima forma di autocrazia militare, togliendo potere al Senato dopo aver messo a morte numerosi membri dello stesso. Sebbene la struttura base della legione continuò ad essere quella della riforma augustea, il numero delle legioni venne aumentato di un 10% e portato a 33 (con la creazione delle legioni I, II e III Parthica). Venne posta una legione di riserva in prossimità di Roma, nei Castra Albana, dove fu alloggiata la II Parthica. L'esercito ora poteva contare su 400.000 armati complessivamente. Un numero comunque esiguo se si pensa che dovevano presidiare circa 9.000 chilometri di confine, controllare e difendere i 70 milioni di abitanti dell'Impero e che per raggiungere il confine dall'Italia occorrevano mediamente 2 mesi di marcia.

Settimio Severo favorì i legionari in svariati modi:
- aumentando loro la paga, oltre a distribuire loro frequenti donativa al termine di ogni campagna militare, tanto che il figlio Caracalla concesse un ulteriore aumento della paga del 50% ai legionari;
- riconoscendo loro il diritto di sposarsi durante il servizio militare, oltre a permettere loro di abitare con la propria famiglia, non lontano dalle fortezze legionarie (canabae), di fatto introducendo una maggior "regionalizzazione" delle legioni, che in questo modo si legarono non solo al loro comandante, ma anche al territorio;
- aumentando il reclutamento di provinciali, tanto che, una volta entrato a Roma sostituì gli effettivi delle coorti pretorie (ora raddoppiati) con soldati scelti delle legioni pannoniche, per punire coloro che si erano in precedenza schierati contro di lui durante la guerra civile;
- favorendo la nomina di comandanti dell'ordine equestre nelle legioni di sua fondazione (I, II e III Parthica), ponendo a capo delle stesse non un legatus legionis, bensì un praefectus legionis, cominciando quel lento processo che culminerà con Gallieno nell'abolizione delle cariche senatorie nell'esercito romano (a questo aspetto va aggiunta la naturale ostilità di Severo verso il Senato). Non a caso si trova un altro praefectus legionis in Britannia al tempo delle campagne dello stesso Severo.
- operando, infine, una serie di altre concessioni, tese a migliorare la condizione dei soldati, tra le quali l'istituzione dell'annona militare, il miglioramento del rancio, la possibilità per i graduati di riunirsi in scholae (sorte di associazioni, di collegia), riconoscendo inoltre segni di distinzione particolari: la veste bianca per i centurioni (che Gallieno avrebbe esteso a tutti i soldati) e l'anello d'oro per i principales (sotto-ufficiali con incarichi tattici).

A partire dal Dominato, col termine di "vessillazione" si indicava una unità di cavalleria. Il termine "vexillatio" deriva dal vexillum, l'insegna recante il nome della legione madre portata dai distaccamenti. Era comandata da un praepositus o praefectus, che poteva essere un centurione, un primipilo o un ufficiale superiore. Già ai tempi di Gallieno (253-268), durante le campagne militari si impiegavano vessillazioni di cavalleria, che formavano il nerbo del comitatus, l'esercito ad alta mobilità introdotto durante la crisi del terzo secolo, comandato da un "comites", un compagno dell'imperatore, titolo che nel medioevo diverrà "conte".

Settimio Severo ( imperatore romano dal 193 al 211) utilizzerà sempre più frequentemente unità ausiliarie di arcieri e di cavalieri, soprattutto corazzati come i catafrattari (chiamati clibanarii a partire dal regno di Costanzo II), reclutati prevalentemente in Oriente.

Nel III secolo alcune tribù associate con la cultura di Wielbark (nota anche come cultura di Willenberg, cultura pre-letterata che gli archeologi hanno identificato con i Goti), stanziate nei pressi del mar Baltico, abbandonano la Scandinavia e, seguendo i fiumi Vistola, Bug Occidentale e il Nistro (Dnestr), si stanziano fra le steppe del mar Nero, mescolandosi con Daci, Sàrmati, Bastarni e altre tribù. Queste popolazioni germaniche improntarono usi e costumi facendo evolvere la cultura di Černjachov (la parte della popolazione gota che visse in Ucraina e in parte della Bielorussia). Nello stesso periodo una parte dei Vandali e dei Burgundi presero altri percorsi: i Vandali, verso le pianure del Danubio centrale; i Burgundi, verso la riva sinistra del fiume Oder. Dal 1200 a.C. popolazioni nomadi a cavallo e armate di arco, fra cui i sarmatici Roxolani, Iazigi, Aorsi e Alani oltre a Taifali, domineranno a lungo il territorio che andava dalle pianure del Danubio fino alle steppe del mar Nero. Nonostante l'invasione di Goti e Vandali nel III sec. d.C., gli eserciti dei quali erano principalmente formati da agricoltori appiedati, Sàrmati e Taifali riuscirono a preservare il loro dominio in alcune aree, almeno sino alla comparsa degli Unni.

La tabella qui sotto riporta la consistenza numerica e la gerarchia interna alle principali unità ausiliarie nel II secolo, compresa quella relative alle unità di cavalleria o mista di fanti e cavalieri.

Unità ausiliaria     Servizio    Comandante    Subordinato    n°sotto-unità   composte da     n°totnell'Unità

Ala quingenaria       cavalleria   praefectus alae      decurione       16 turmae           30 (o 32)           480 (o 512)

Ala milliaria             cavalleria   praefectus alae     decurione       24 turmae             30 (o 32)          720 (o 768)

Cohors quingenaria  fanteria   praefectus cohortis  centurione       6 centuriae          80                   480

Cohors milliaria       fanteria    tribunus militum    centurione     10 centuriae              80                   800

Cohors equitata       fanteria  praefectus cohortis  centurione (fanti)  6 centuriae       80              480      fanti)      quingenaria           e cavalleria       equitatae          decurione (cav.)      4 turmae         30            120 cav. 

Cohors equitata       fanteria   tribunus militum     centurione (fanti)  10 centuriae       80           800        fanti)              milliaria                    e cavalleria                            decurione (cav.)      8 turmae         30              240 cav.

Risultano alcune discrepanze sui risultati delle analisi sul numero delle truppe ausiliarie nell'esercito romano, tra Spaul (analisi effettuate nel 2000) e Holder (analisi effettuate nel 2003), lungo il limes romano attorno alla metà del II secolo:

Autore             Alae    Cohortes    tot. unità   Totale cavalieri   Totale fanti   Totale degli effettivi

J. Spaul (2000)       80            247                327              56.160                 124.640                180.800

P.A.Holder (2003)   88            279                367              74.624                 143.200                217.624

Nelle forze in campo non sono conteggiati gli ufficiali (centurioni e decurioni), che rappresentavano una forza di circa 3.500 uomini in totale. La differenza di 40 unità ausiliarie e circa 40.000 effettivi fra i due conteggi è dovuta principalmente al fatto che:

- Spaul interpreta alcune unità aventi lo stesso nome e numero, seppure attestate in province differenti nello stesso periodo, come la medesima unità, in un atteggiamento estremamente cauto ed ipotizzando si spostino con una certa frequenza; 
- al contrario Holder le considera unità totalmente differenti e quindi sommabili nel computo complessivo. 
Spaul accetta come coorti equitate solo quelle esplicitamente citate, in un numero complessivo inferiore rispetto a Holder.

Busto di Alessandro Severo,
Roma, Musei Capitolini.
https://it.wikipedia.org/wiki/
Alessandro_Severo#/media/
File:Alexander_Severus
_Musei_Capitolini_
MC471.jpg
.
Ad Alessandro Severo risalirebbe un'importante modifica tattica, come il ritorno allo schieramento falangitico di più legioni contemporaneamente, fino a costituire una massa d'urto di 6 legioni complessive (per un totale di 30.000 armati), fianco a fianco, senza alcun intervallo tra loro.

Al tempo di Alessandro Severo, aumenta il ricorso sempre più frequente ad unità ausiliarie di arcieri montati (tra osroeni, palmireni ed emesiani), integrati nei numeri di cavalieri dalmati e mauri, operativi già nel II secolo; oltre a cavalieri in particolar modo quelli corazzati (i cosiddetti catafrattari, clibanarii), reclutati sia in Oriente che tra i Sarmati, ma anche di quelli "leggeri" provenienti dalla Mauretania. 
Ad Alessandro Severo si deve un crescente utilizzo presso tutte le fortezze del limes di nuovi modelli di catapulte (ballistae, onagri e scorpiones), al fine di tenere impegnato il nemico fino all'accorrere delle "riserve strategiche" (concetto iniziato con Settimio Severo, sviluppato da Gallieno, Diocleziano e Costantino I.

Gaio Giulio Vero
Massimino, noto
come Massimino il
Trace, il primo
imperatore barbaro,
da: QUI.

Nel 235 a seguito dell'assassinio, da parte dei suoi soldati e del suo successore, dell'imperatore  Alessandro Severo, ultimo imperatore della dinastia dei Severi, a Moguntiacum (l'odierna Magonza), capitale della provincia  della Germania  InferiorMassimino Trace è acclamato imperatore, malgrado la  forte opposizione del  Senato e l'ostilità della popolazione. L'omicidio avvenne lungo il limes settentrionale, al ritorno dal fronte orientale, dopo tre anni di campagne contro i Sasanidi della Persia. Massimino è stato il primo barbaro a raggiungere la porpora imperiale  grazie al solo consenso delle legioni; era nato senza la cittadinanza romana e non aveva percorso alcun corsus honorem. Al "Sol invictus", il Sole invincibile, il cui primo vicario e sacerdote era stato l'Imperatore Settimio Severo, non tutte le legioni si erano convertite e la discriminazione nella scelta dei comandi, volta a escludere i non-convertiti, dovette alienare le simpatie al suo discendente Alessandro Severo. Il 235 d.C. è quindi l'anno in cui viene fatta iniziare di solito l'anarchia militare, che fu anche una ribellione di quella parte di società romana che non voleva soggiacere al culto solare orientale, dopo trent'anni di dominio di questa. Le legioni fedeli a Massimino il Trace, stanziate nei confini occidentali, sul Reno e sul Danubio, non seguivano il culto solare, mentre era già presente fra loro una forte componente barbarica che preferiva una politica tollerante, esente da carichi religiosi e affine all'agnosticismo degli imperatori del secolo precedente, con successioni al Principato non ereditarie. Dopo aver preso il potere, Massimino lanciò l'ultima grande offensiva romana in Germania con effettivi in gran parte germanici, contro gli Alemanni, che da allora rimasero tranquilli per vent'anni, ma  perse la guerra e la vita contro i futuri Imperatori Gordiano I e Gordiano II, che avevano i comandi e l'appoggio dell'Africa romana, regione di provenienza di Settimio Severo, dove il culto del Dio solare era invece diffuso. Con il loro discendente Gordiano III, la pressione dei barbari sui confini era aumentata e necessitavano quindi eserciti fedeli e coesi. Sia l'Imperatore Filippo l'Arabo che il suo successore Decio, erano stati generali dell'esercito di Gordiano III, fedeli al dio solare, che pur non pretendendo esclusiva devozione e quindi non configurandosi come un monoteismo, prendeva senz'altro il primo posto nel Pantheon dell'Impero Romano. È significativo che proprio sotto Decio cominciarono le persecuzioni contro i cristiani. La pressione dei barbari lungo le frontiere settentrionali e quella, contemporanea, dei Sasanidi in Oriente, si erano non solo intensificate, ma avevano diffuso la sensazione che l'impero fosse totalmente accerchiato dai nemici. Si rivelavano ormai inefficaci gli strumenti della diplomazia tradizionale, usati fin dai tempi di Augusto e basati sulla minaccia dell'uso della forza e sulla fomentazione di dissidi interni alle diverse tribù ostili (la politica del “dividi e impera”) per tenerle impegnate le une contro le altre. Si rendeva necessario reagire in tempi brevi con la forza, schierando armate tatticamente superiori e capaci di intercettare il più rapidamente possibile ogni possibile via di invasione dei barbari, strategia resa difficoltosa dal dover presidiare immensi tratti di frontiera con  contingenti militari per lo più scarsi. La causa principale della crisi del III secolo può essere ricercata nella fine dell'idea di Impero tipica delle dinastie giulio-claudia ed antonina, basata sulla collaborazione tra l'imperatore, il potere militare e le forze politico-economiche interne, al fine di espandere l'impero, mentre nel III secolo d.C. tutte le energie dello  Stato  venivano spese non per ampliare, ma per difendere i confini  dalle invasioni barbariche. Con l'esaurimento dei proventi ottenuti dalle conquiste, il peso economico e l'energia politica delle legioni finirono per pesare all'interno dell'Impero, con il risultato che l'esercito, che era stato il fattore principale della potenza economica romana, finì per diventare un peso sempre più schiacciante, mentre la sua prepotenza politica non poteva essere arginata da alcuna istituzione. La cosa più sorprendente di questa gravissima crisi è che l'Impero sia riuscito a superarla. Molti degli imperatori che vennero via via proclamati dalle legioni successivamente, non riuscirono neppure a metter piede a Roma, né tanto meno, durante i loro brevissimi regni, a intraprendere riforme interne, poiché permanentemente occupati a difendere il trono imperiale dagli altri pretendenti e il territorio dai nemici esterni. La crisi, generalizzata in tutto l'impero, non fu solo politica, ma  anche  economica e sociale. L'economia dell'impero romano nei primi due secoli si era basata sulla conquista militare di nuovi territori e sullo sfruttamento delle campagne da parte di schiavi, perlopiù prigionieri di guerra. Ora, in mancanza di nuove conquiste, di nuovi schiavi e di bottini di guerra, le spese dello Stato, sempre più impellenti per rispondere militarmente alle pressioni delle popolazioni esterne dell'impero, furono coperte con un progressivo aumento delle tassazioni, proprio quando la diminuzione del numero di schiavi minava le possibilità economiche dei cittadini. Gradualmente la ricchezza, l'importanza politica, sociale, istituzionale e culturale si era livellata tra il centro e le province dell'Impero romano, sebbene con disparità ancora evidenti (in genere le province orientali erano economicamente più sviluppate di quelle occidentali). La pressione fiscale divenne insostenibile per molti piccoli proprietari, costretti a indebitarsi e quindi a vendere le proprie terre, per andare a lavorare in condizioni di semischiavitù sotto i grandi proprietari (colonato). Per questo fenomeno e per il calo demografico determinato dalle perdite umane nei numerosi conflitti, molte terre furono abbandonate e cessarono di essere produttive (fenomeno degli agri deserti). Le difficoltà di comunicazione in seguito ai numerosi conflitti avevano in diversi casi reso indispensabile la riscossione diretta delle tasse da parte dell'esercito stesso, causando abusi e trasformandosi a volte in un vero e proprio diritto al saccheggio. Lo spopolamento di intere regioni fu inoltre causato anche da elementi climatici e sociali: i contadini, infatti, non conoscevano la rotazione delle colture e via via che la terra diventava improduttiva si dovevano spostare verso altre aree. Si diffusero così i latifondi scarsamente produttivi e il ceto dei contadini liberi si assottigliò, sostituito prima dagli schiavi e successivamente, dai coloni affittuari. La scarsa capacità di acquisto delle classi subalterne, impediva una qualsiasi crescita del mercato economico. Mancava inoltre qualsiasi politica di sussidi statali all'agricoltura e alle manifatture. Fin dalla riforma di Settimio Severo, i soldati romani costituivano una casta (ereditaria) di privilegiati mentre gli altri, soprattutto gli agricoltori, si trovavano oberati dalle tasse e di conseguenza in molti cercarono di abbandonare la terra per trasferirsi in città. Fin dalla fine del III secolo e ancor più nel secolo successivo, lo Stato cercò di approntare una serie di meccanismi e disposizioni legali tese a impedire l'abbandono della terra da parte dei contadini non proprietari che, a vario titolo, la coltivavano, creando così la servitù della gleba. Mentre per questi fattori l'impero si andava gradualmente impoverendo, le situazioni ai confini si stavano facendo sempre più critiche, con richieste di tributi per sostenere la macchina militare, che sempre con maggiori difficoltà venivano ottenuti. Le aree spopolate vennero in seguito concesse ad alcune popolazioni barbariche che per si stabilirono nell'Impero come foederati. Le continue scorrerie da parte dei barbari nei vent'anni successivi alla fine della dinastia dei Severi avevano messo in ginocchio l'economia ed il commercio dell'Impero romano. Numerose fattorie e raccolti erano stati distrutti, se non dai barbari, da bande di briganti e dalle armate romane alla ricerca di sostentamento, durante le campagne militari combattute sia contro i nemici esterni, sia contro quelli interni (usurpatori alla porpora imperiale). La scarsità di cibo generava, inoltre, una domanda superiore all'offerta di derrate alimentari, con evidenti conseguenze inflazionistiche sui beni di prima necessità. A tutto ciò si aggiungeva un costante reclutamento forzato di militari, a danno della manovalanza impiegata nelle campagne agricole, con conseguente abbandono di numerose fattorie e vaste aree di campi da coltivare. Questa impellente richiesta di soldati, a sua volta, aveva generato una implicita corsa al rialzo del prezzo per ottenere la porpora imperiale. Ogni nuovo imperatore o usurpatore era costretto, pertanto, ad offrire al proprio esercito crescenti donativi e paghe sempre più remunerative, con grave danno per l'aerarium imperiale, spesso costretto a coprire queste spese straordinarie con la confisca di enormi patrimoni di cittadini privati, vittime in questi anni di proscrizioni "di parte". La crisi era aggravata, inoltre, dall'iperinflazione causata da anni di svalutazione della moneta, già sotto gli imperatori della dinastia dei Severi, che per far fronte alle necessità militari avevano ampliato  l'esercito di un quarto e raddoppiata la paga base. Le spese militari costituivano il 75% circa del bilancio totale statale, in quanto poca era la spesa "sociale", mentre tutto il resto era utilizzato in progetti di prestigiose costruzioni a Roma e nelle province. A ciò si aggiungeva un sussidio in grano per coloro che risultavano  disoccupati, oltre ad aiuti al proletariato di Roma (congiaria) e sussidi alle famiglie italiche (simile ai moderni assegni familiari) per incoraggiarle a generare più figli. I giacimenti di metalli preziosi erano ormai in esaurimento, dopo secoli di sfruttamento e finì per determinarsi, nel Tardo Impero,  una  rarefazione dell'oro e dell'argento all'interno dei confini imperiali, accelerando così la perversa spirale di diminuzione della quantità effettiva di metallo prezioso nelle monete coniate dai vari imperatori. Inoltre, l'instabilità politica ebbe pesantissimi effetti anche sui traffici commerciali, per cui l'ampia rete commerciale attiva nei due secoli precedenti fu interrotta. L'agitazione civile e i conflitti la resero poco sicuri i viaggi per i commercianti e la crisi monetaria rese gli scambi molto difficili. Ciò produsse profondi cambiamenti che proseguirono fino all'età medioevale. I grandi latifondisti, non più in grado di esportare con successo i loro raccolti sulle lunghe distanze, cominciarono a produrre cibi per la sussistenza e il baratto locale e per non importare alcuni prodotti, cominciarono a produrre beni localmente, spesso sulle loro stesse proprietà di campagna, dove tendevano a rifugiarsi per sfuggire alle imposizioni dello Stato. Nacque in tal modo una "economia domestica" autosufficiente che sarebbe diventata ordinaria nei secoli successivi, raggiungendo la sua forma finale in età medioevale. La crisi economica aveva comportato una diversa suddivisione della società. Delle tre classi  tradizionali dei senatoricavalieri plebei,  senatori e cavalieri (grandi proprietari terrieri e militari, che disponevano anche delle riserve di monete d'oro) erano confluiti nella classe privilegiata degli honestiores, mentre artigiani e piccoli commercianti, colpiti dalle difficoltà economiche e dalla svalutazione delle monete d'argento, erano confluiti nella classe degli humiliores che andava man mano perdendo i propri diritti. Pene diverse erano infatti previste per honestiores e humiliores e le possibilità di scalata sociale erano fortemente ridotte per quest'ultimi, che sempre più spesso rinunciavano volontariamente alle proprie libertà per affidarsi alla protezione dei grandi proprietari terrieri ed evitare l'arruolamento forzato nell'esercito, mentre i piccoli artigiani e commercianti delle città si spostavano verso le grandi proprietà della campagna alla ricerca di cibo e di protezione. Diventarono perciò cittadini semi-liberi, noti come coloni, legati alla terra e con le successive riforme imperiali, la loro posizione divenne ereditaria, il modello per la servitù della gleba, la base della  società feudale medievale.

A Roma nel III secolo, con Massimino il Trace, imperatore romano dal 235 alla sua morte, nel 238 (Gaio Giulio Vero Massimino, noto come Massimino il Trace) aumenta ulteriormente l'impiego  della cavalleria di origine germanica e della cavalleria catafratta di origine sàrmatica, arruolata dopo aver battuto queste popolazioni durante le guerre del 235-238. 
A partire da questo imperatore, ancor prima della vera e propria riforma operata da Gallieno, si delineava l'aumento dell'importanza della cavalleria, che se da un lato andava ad accentuare il carattere di maggior mobilità e "riserva strategica" del nuovo esercito romano nel suo complesso, dall'altra riduceva le caratteristiche di esercito di "confine o sbarramento" che aveva caratterizzato il periodo precedente, fin dai tempi di Adriano.

Massimino il Trace, promosse la barbarizzazione dell'esercito romano, essendo lo stesso Imperatore nato senza la cittadinanza romana, ed aumentò l'importanza della cavalleria di origine germanica e catafratta sarmatica, arruolata dopo aver battuto queste popolazioni durante le guerre del 235-238. L'aumento degli effettivi della cavalleria, non solo andava ad accentuare la caratteristica di maggior mobilità dell'esercito romano, costituendone una nuova "riserva strategica" interna (insieme alla legio II Parthica, formata in precedenza da Settimio Severo), ma anche quella di tradursi in un esercito meno di "confine o sbarramento" che ne aveva caratterizzato il periodo precedente fin dai tempi di Adriano.

Questo processo di graduale incremento di reparti di cavalleria, che potrebbe aver generato una maggiore "mobilità" anche nella legione stessa, culminò nella riforma di Gallieno. Di fatto la cavalleria andava a costituire una sorta di "nuova riserva strategica" collocata nelle retrovie, in aggiunta alla legio II Parthica. L'esercito iniziava a tradursi in una forza meno stanziale, non più puramente di "confine o sbarramento", come era stato per i due secoli precedenti, in cui era apparsa legata in prima istanza alle forze di fanteria e in misura ridotta a quelle montate.


Valeriano su sesterzio. Di
Classical Numismatic
Group, Inc. QUI, da QUI.
Nel 253 il nuovo imperatore Valeriano (imperatore dal 253 al 260), spartì il potere con il figlio Gallieno (imperatore dal 253 al 268), affidandogli la parte occidentale dell'impero e riservando per sé quella orientale, come in passato era già avvenuto con Marco Aurelio e Lucio Vero (dal 161 al 169). Intorno al 253 gli Eruli si erano uniti ai Goti nell'attacco a Pessinunte ed Efeso, che distrussero. In seguito presero parte, insieme ai Gepidi (i Goti settentrionali) e ad altre tribù, all'imponente coalizione guidata dai Goti che saccheggiò le province romane della regione balcanico-anatolica. Da queste basi, Goti ed Eruli partirono per compiere varie incursioni e spedizioni di pirateria lungo le coste prima del mar Nero e poi dell'Asia minore. Nel 257 e nel 258, Valeriano emanò due editti,  che prevedevano la confisca dei terreni religiosi e la condanna dei seguaci del Cristianesimo; a differenza dei suoi predecessori diresse il proprio attacco alla gerarchia ecclesiastica piuttosto che ai semplici fedeli. Tra le vittime di questa persecuzione vi furono infatti papa Stefano I, papa Sisto II, il vescovo di Cartagine Cipriano (messo a morte nel settembre del 258 e con la fine della sua corrispondenza manca un'importante fonte storica di quel periodo), Dionisio di Alessandria e san Lorenzo martire. Il momento più cupo del suo principato fu raggiunto nel 260, quando Valeriano stesso fu sconfitto in battaglia e preso prigioniero dai  Sasanidi, morendo  in  prigionia senza che fosse possibile intraprendere una spedizione militare per liberarlo.

L'Europa centrale nel 258-260 con i
 percorsi delle migrazioni delle
delle confederazioni dei Franchi,
  dei Suebi Alemanni, Marcomanni
e Quadi, dei Sàrmati Iazigi.
Immagine da: QUI.
Nel 260, con Gallieno imperatore Romano, si  abbandonano  definitivamente gli Agri Decumates, posti a est del Reno e a nord delle sorgenti del Danubio, alla confederazione degli Alemanni, che giungono fino alle porte di Mediolanum (Milano), nella primavera del 260 e che le legioni dell'imperatore romano Gallieno, riescono a respingere nella battaglia di Milano, in cui Gallieno si rende conto dell'impossibilità di proteggere contemporaneamente tutte le province dell'impero con una  linea statica di uomini posizionati a ridosso della frontiera (detti appunto limitanei dal termine latino limes) ora che il fronte era stato sfondato definitivamente. Da lì in poi, ogni volta che i barbari sfondavano il limes e s'inoltravano nelle province interne, interveniva la "riserva strategica". Nella base principale scelta da Gallieno per la nuova armata, Milano, che diverrà in seguito capitale della parte occidentale dell'impero, apre una nuova zecca.

L'imperatore d'Occidente dal 253 al 268 Gallieno, resosi conto dell'impossibilità di proteggere contemporaneamente tutte le province dell'impero solo con una frontiera lineare, sviluppò una pratica che era iniziata verso la fine del II secolo sotto Settimio Severo (con il posizionamento di una legione, la legio II Parthica, a pochi chilometri da Roma), ovvero una riserva strategica, formata prevalentemente da unità di cavalleria pesante, di soldati ben addestrati pronti ad intervenire dove servisse nel minor tempo possibile. La base principale scelta da Gallieno per la nuova armata, fu posta a Milano, punto strategico equidistante da Roma e dalle vicine frontiere settentrionali di Rezia e Norico. 

Con la riforma di Gallieno, la nuova unità di cavalleria legionaria si divideva tra le dieci coorti della legione, e alla prima coorte erano affiancati 132 cavalieri (pari a 4 turmae, ciascuna composta da 32 cavalieri, sotto il comando di un decurione), mentre alle altre nove coorti, 66 cavalieri ciascuna (pari a 2 turmae per ciascuna delle rimanenti 9 coorti). 

In totale quindi, si avevano ben 22 turmae per ogni nuova legione, comandate da 22 decurioni. La riprova di tutto ciò sembra derivare da un'iscrizione trovata a Baden, in Germania, dove su un anello è scritto: "EQ(ues) LEG(ionis) XXI SEXTI T(urmarum?)". Una predisposizione per la cavalleria dunque, che riguardava non solo le forze ausiliarie ed i numeri ma anche le legioni, dove il numero di cavalieri passava da 120 a 726 per legione, con la prima coorte affiancata da 132 cavalieri e le altre nove da 66 cavalieri ciascuna. Questo incremento era dovuto proprio alla necessità di avere un esercito sempre più "mobile".


L'imperatore Gallieno.
Se da un lato l'impero romano sembra abbia attraversato, sotto Gallieno, uno dei periodi più "bui" della sua storia, questo imperatore rappresentò il punto di svolta nel tragico periodo della crisi del III secolo, che era seguito alla dinastia dei Severi. Non è un caso che proprio Gallieno sia stato il primo a regnare per quindici anni (sette con il padre ed otto da solo), cosa assai rara se si considera il primo periodo dell'anarchia militare (dal 235 al 253). Era, infatti, dai tempi di Settimio Severo (193-211) che un Imperatore romano non regnava tanto a lungo. Gallieno riformò l'esercito: resosi conto dell'impossibilità di proteggere contemporaneamente tutte le province dell'impero con una statica linea di uomini posizionati a ridosso della frontiera, Gallieno sviluppò una pratica che era iniziata verso la fine del II secolo sotto Settimio Severo (con il posizionamento di una legione, la legio II Parthica, a pochi chilometri da Roma, ovvero posizionando una riserva strategica di  soldati ben addestrati pronti ad intervenire dove servisse nel minor tempo possibile (contingenti di cavalleria erano stanziati  a Mediolanum, Sirmio, Poetovio e Lychnidos). In accordo con queste considerazioni, Gallieno attorno agli anni 264-268, o forse poco prima, costituì questa riserva strategica centrale (che sarà alla base della futura riforma dell'esercito di Diocleziano), formata prevalentemente da unità di cavalleria pesante dotate di armatura (i cosiddetti promoti, tra cui spiccavano gli equites Dalmatae, gli equites  Mauri  et  Osroeni), poiché queste percorrevano distanze maggiori in minor tempo della fanteria legionaria o ausiliaria. Ed ogni volta che i barbari sfondavano il limes romano e s'inoltravano nelle province interne, la "riserva strategica" poteva così intervenire con forza dirompente. La base principale  scelta da Gallieno per la nuova armata fu posta a Milano, punto strategico equidistante da Roma e dalle vicine frontiere settentrionali della Rezia e del Norico. Si trattava di un'iniziativa resasi necessaria anche a causa della perdita degli Agri decumates tra il Reno ed il Danubio, che aveva portato i vicini Germani Alemanni a trovarsi più vicini alla penisola italica, centro del potere imperiale. La predisposizione per la cavalleria riguardava non solo le forze ausiliarie ed i numeri, ma anche le legioni stesse, dove il numero di cavalieri passò da 120 a 726 per legione. Sembra infatti che Gallieno abbia aumentato il contingente di cavalleria interno alla legione stessa, dove la prima coorte era composta da 132 cavalieri, mentre le altre nove di 66 ciascuna. Questo incremento fu dovuto proprio alla necessità di avere un esercito sempre più "mobile". La riforma di Gallieno inoltre,  toglieva  ai senatori  ogni carica militare; se in passato i comandanti delle legioni (legatus legionis) provenivano dal Senato a parte quelli che comandavano le legioni egiziane, ora provenivano dalla  classe equestre (praefectus legionis). Con le riforme apportate da  Gallieno infatti, mutava sia la composizione sociale dei comandanti militari e dei loro diretti subalterni, già monopolio aristocratico, che quella degli ufficiali intermedi, un tempo privilegio dell'ordine equestre: dopo il 260 il comando delle legioni e la carica di tribuno militare fu assegnata a ufficiali di carriera spesso di bassa origine sociale. Era ora possibile, anche per un semplice legionario che si distinguesse per abilità e disciplina, scalare i diversi gradi dell'esercito:  centurione,  protectordux, fino a ottenere incarichi amministrativi prestigiosi, quale quello di praefectuscomandante militare. La riforma eliminò inoltre, in modo definitivo, ogni legame tra le legioni e l'Italia, poiché i nuovi comandanti, che erano spesso militari di carriera partiti dai gradi più bassi e arrivati a quelli più alti, erano interessati più al proprio tornaconto o al massimo agli interessi della provincia d'origine (in particolare a quelle Illiriche, vedi quanti Imperatori illirici), ma non a Roma. I generali  che comandavano questa forza quindi, avevano nelle loro mani un potere  incredibile e non è un caso che futuri augusti come Claudio II il Gotico o Aureliano ricoprissero questo incarico prima di diventare imperatori. Il periodo in cui Gallieno regnò da solo (260-268) fu caratterizzato anche da un rifiorire delle arti e della cultura, con la creazione di un ponte tra la cultura classica dell'epoca degli Antonini e quella post-classica della Tetrarchia. Tale periodo vide  un cambiamento nella visione  dei rapporti tra uomo e divino e  tra uomini, un movimento che consciamente tentò di far rinascere la cultura classica ed ellenica, come si può osservare dalla monetazione e dalla ritrattistica imperiale. « In verità Gallieno si segnalava, non lo si può negare, nell'oratoria, nella poesia ed in tutte le arti. Suo è il celebre epitalamio che risultò il migliore tra cento poeti. [...] si racconta che abbia recitato: "Allora andate ragazzi, datevi da fare con il profondo del cuore tra voi. Non le colombe i vostri sussurri, né l'edera i vostri abbracci, né vincano le conchiglie i vostri baci". » (Historia Augusta, Gallieni duo, 11.6-8.) . Fu questo periodo che vide fiorire il Neoplatonismo, il cui maggior rappresentante, Plotino, fu amico personale di Gallieno e della moglie Salonina. I ritratti di Gallieno si rifanno allo stile classico-ellenistico di quelli di Adriano, ma la nuova spiritualità è evidente dallo sguardo verso l'alto e dalla palese immobilità del ritratto, che danno un senso di trascendenza e immutabilità. Lo stesso imperatore rinnovò i legami con la cultura ellenica rafforzati da Adriano e Marco Aurelio, recandosi in visita ad Atene, diventando arconte eponimo e facendosi iniziato ai misteri di Demetra. Tale slancio verso il trascendente e la divinità è rimarcato dalle emissioni numismatiche di Gallieno. Lì dove l'imperatore si trovava per far sentire la propria presenza in zone dell'impero minacciate, la zecca locale coniava monete in cui gli dei (tra cui Giove in diverse incarnazioni, Marte, Giunone, Apollo, Esculapio, Salus...) venivano ritratti come protettori dell'imperatore, direttamente o tramite gli animali che li rappresentavano. Un posto particolare fu quello del Sole Invitto, che venne identificato come comes Augusti, "compagno dell'augusto": tale divinità era particolarmente venerata dai soldati, ancor di più da quelli orientali, dei quali Gallieno cercava il favore e il sostegno. Secondo una interpretazione storica che pone attenzione alla reazione psicologica delle popolazioni rispetto alla fede religiosa, col tempo le nuove religioni assunsero sempre più importanza per le loro caratteristiche escatologiche e soteriologiche in risposta alle insorgenti esigenze della religiosità dell'individuo, al quale la vecchia religione non offriva che riti vuoti di significato. Sempre secondo questa interpretazione storica la critica alla religione tradizionale veniva anche dalle correnti filosofiche dell'Ellenismo, che fornivano risposte intorno a temi propri della sfera religiosa, come la concezione dell'anima e la natura degli dèi. Nella congerie sincretistica dell'impero del III secolo, permeata da dottrine neoplatoniche (Plotino),  gnosticheorfiche e  misteriche (misteri eleusini che trovò seguaci prima in Adriano e poi Gallieno), il Cristianesimo si consolidava.

Con Gallieno, che di fatto abolì le cariche senatoriali all'interno dell'esercito romano e, di conseguenza, anche all'interno della legione stessa (le cariche di tribunus laticlavius e legatus legionis scomparvero), la gerarchia subì una parziale modifica almeno nella parte concernente l'alto comando. Ciò potrebbe essere spiegato anche tenendo conto del fatto che il ceto senatorio era ormai disabituato a ricoprire responsabilità militari e appariva sguarnito delle competenze idonee a condurre gli eserciti. Questo punto della riforma, però, eliminò definitivamente ogni legame tra le legioni e l'Italia, poiché i nuovi comandanti, che erano spesso militari di carriera partiti dai gradi più bassi e arrivati a quelli più alti, erano interessati solo al proprio tornaconto o al massimo agli interessi della provincia d'origine, ma non a Roma. Il resto del corpo di truppa, degli ufficiali e sotto-ufficiali rimase pressoché invariato.

L'imperatore Gallieno che regnò per quindici anni, mise in atto la prima vera riforma dell'esercito romano dai tempi di Augusto. Non è chiaro se sia stato l'imperatore Gallieno ad aumentare il contingente di cavalleria interno alla legione stessa, portandolo da soli 120 cavalieri a 726 (pari a 22 turmae), o i suoi successori, gli imperatori illirici, come una parte della storiografia moderna sembra sostenere. La verità è che la nuova unità di cavalleria legionaria risultava divisa tra le dieci coorti legionarie, dove alla prima coorte erano affiancati 132 cavalieri (4 turmae), mentre alle altre nove 66 ciascuna (2 turmae per ciascune delle nove coorti). Questo incremento della cavalleria fu dovuto proprio alla necessità di avere un esercito sempre più "mobile" e versatile nel corso del III secolo, come conseguenza delle continue invasioni, sia da parte dei barbari lungo i confini settentrionali, sia a causa della crescente minaccia orientale, dove alla dinastia dei Parti Arsacidi subentrò (dal 224) quella dei Sasanidi, assai più bellicosa e che intendeva replicare ai fasti dell'antico Impero achemenide.

Gallieno promosse il rafforzamento delle vexillationes equitum, i reparti mobili a cavallo, in particolare svincolando la cavalleria dal controllo dei governatori provinciali e collocandola in alcuni centri strategici come Mediolanum (Milano). Promossa o meno da Gallieno, si assistette al consolidamento delle forze di uomini a cavallo, detti Equites promoti (con base nella già citata Milano) formati da unità reclutate nell'Illirico (dalmatae), in Nord Africa (mauri) e in aggiunta da forze d'élite (scutarii), sempre svincolati dalla legione, non è chiaro se preposte all'intervento come forza d'emergenza nel caso di invasione ("riserva mobile"). Queste forze insieme erano definite Equites illyriciani o vexillatio. L'importanza di questa nuova organizzazione crebbe a tal punto che chi comandava queste unità di cavalleria poteva aspirare a ruoli di maggiore prestigio e addirittura a proclamarsi imperatore (si pensi a Claudio il Gotico e ad Aureliano). Con Gallieno, inoltre, si giunse alla fine delle responsabilità militari dell'ordine senatorio a tutto vantaggio dell'ordine equestre, processo iniziato sotto Settimio Severo e che portò all'abolizione della figura del legatus Augusti pro praetore di rango pretorio. Con un editto infatti l'imperatore abrogò l'accesso dei senatori alla legazione di legione.

La cavalleria legionaria di questo periodo appare divisa ancora in turmae e guidata da decurioni. In battaglia, il decurione era affiancato dal draconarius, portatore dell'insegna del draco (simbolo di nuova introduzione per le coorti e le unità di cavalleria, di derivazione dacico-sarmatica), e seguito da un calo (lo schiavo del decurione che montava il suo cavallo di riserva).

Sembra che i cunei o cunei equitum, unità di cavalleria, siano stati costituiti nel corso del III secolo. Erano in sostanza similari ai numeri, quindi con marcate connotazioni etniche, ma a differenza di quest'ultimi, sembra che si differenziassero proprio per la caratteristica di utilizzare solo reparti di truppe montate a cavallo.

Aureliano, da: QUI.

Ai tempi di Aureliano le legioni scesero a 31, per un totale di 150.000 legionari, affiancati probabilmente da un'altra metà di ausiliari, certamente maggiore in alcune province, per un esercito complessivamente composto da 300.000 uomini, di molto inferiore a quello di settant'anni prima a causa dell'incidenza delle guerre civili, delle numerose sconfitte e delle difficoltà di reclutamento. Il ricorso a unità di cavalleria svincolate dalle legioni (le vessillazioni) si era fatto sempre più frequente.


Diocleziano.
Nel tardo Impero Romano, la vera riforma politico-militare operata da Diocleziano sarà quella di nominare, come suo vice (in qualità prima di cesare e poi di co-augusto), un valente ufficiale di nome Marco Aurelio Valerio Massimiano (285-286), formando così una diarchia in cui i due imperatori si dividevano su base geografica il governo dell'impero e la responsabilità della difesa delle frontiere, oltre alla lotta contro gli usurpatori. Tale sistema, concepito da un soldato come Diocleziano, non poteva che essere estremamente gerarchizzato.

Data la crescente difficoltà a contenere le numerose rivolte all'interno dell'impero, nel 293 si procedette a un'ulteriore divisione funzionale e territoriale, al fine di facilitare le operazioni militari: Diocleziano nomina come suo cesare (vice e successore) per l'oriente Galerio e Massimiano fece lo stesso con Costanzo Cloro per l'occidente, così che la diarchia tramuta in tetrarchia. Nell'ambito della cavalleria avverranno importanti riforme collegate a questa nuova divisione dei territori imperiali, operate poi anche dal successore Costantino I.

Lo sfondamento ripetuto di tutte le frontiere romane, eredità della crisi del III secolo, costrinse Diocleziano a creare un modello di difesa che moltiplicasse il normale ed unico comando imperiale in uno formato ora da quattro imperatori: la tetrarchia. Ciò determinò, di conseguenza, la necessità di creare nuove e numerose legioni da porre lungo i confini imperiali. Questa necessità strategica di difesa del limes, portò inevitabilmente ad un incremento del fabbisogno finanziario statale per mantenere le armate che ormai sembra raggiungessero i 450.000/500.000 uomini. Si rese così necessaria un'ulteriore tassazione del cittadino romano e una miglior distribuzione della circolazione monetaria per meglio rifornire le truppe alloggiate e distribuite a guardia dei confini provinciali.

La forma di governo a quattro, se da un lato non fu così felice nella trasmissione dei poteri (vedi successiva guerra civile), ebbe tuttavia il grande merito di fronteggiare con tempestività i pericoli esterni al mondo romano. La presenza di due Augusti e due Cesari facilitava, infatti, la rapidità dell'intervento armato e riduceva i pericoli che la prolungata assenza di un unico sovrano poteva arrecare alla stabilità dell'Impero.

Diocleziano creò una vera e propria gerarchia militare sin dalle più alte cariche statali, quelle dei "quattro" Imperatori, dove il più alto in grado era l'Augusto Iovio (protetto da Giove), assistito da un secondo Augusto Herculio (protetto da un semidio, Ercole), a cui si aggiungevano i due rispettivi Cesari, ovvero i "successori designati".

In sostanza si trattava di un sistema politico-militare che permetteva di dividere meglio i compiti di difesa del confine: ogni tetrarca, infatti, curava un singolo settore strategico e la sua sede amministrativa era il più possibile vicino alle frontiere che doveva controllare (Augusta Treverorum e Mediolanum-Aquileia in Occidente; Sirmium e Nicomedia in Oriente), in questo modo era possibile stroncare rapidamente i tentativi di incursione dei barbari, evitando che diventassero catastrofiche invasioni come quelle che si erano verificate nel III secolo.

Sculture raffiguranti i
Tetrarchi trafugate
dai Veneziani nel 1201
a Costantinopoli
durante la IV crociata.

Diocleziano riorganizzerà l'esercito, uscito dalla grande crisi del III secolo, comprendendo quale importanza rivestisse allora la di cavalleria, l'unica forza che potesse essere tempestiva lungo tutto il limes

Trasformò  infatti la "riserva strategica mobile" introdotta da Gallieno (di sola cavalleria) in un vero e proprio "esercito mobile" detto comitatus, nettamente diverso da un "esercito di confine" stanziale. 

Il comitatus era costituito da:

due vexillationes di cavalleria (Promoti e Comites), 
tre legiones (Herculiani, Ioviani e Lanciarii).
Grande importanza rivestivano le forze di cavalleria (vexillationes), che al tempo di Gallieno costituivano l'intera "riserva strategica mobile".

Si divisero le forze armate in esercito di campagna (truppe palatinae, della guardia imperiale; comitatenses, del comitatus dell’imperatore) ed esercito confinario (truppe riparienses, poichè limitrofe a fiumi o limitaneae se nei pressi del limes). Con la riforma di Diocleziano, ma soprattutto con quella di Costantino e dei suoi figli, le vessillazioni divennero unità di cavalleria standard: le vexillationes palatinae e quelle comitatentes erano nominalmente formate da 300 o 600 cavalieri. La Notitia dignitatum, un documento che riporta la disposizione delle unità militari all'inizio del V secolo, elenca ben 88 vessillazioni

Massenzio
Nel 312, dopo la battaglia di Ponte Milvio fra Costantino e Massenzio, visto che il corpo degli Equites singulares, istituito nella guardia pretoriana durante il II secolo, si erano schierato al fianco di Massenzio, viene sciolto dallo stesso Costantino I. Gli equites singulares erano reclutati solitamente tra le alae ausiliarie, mentre l'etnia prevalente era dapprima germanica, successivamente a partire da Settimio Severo, in maggioranza fu composta da PannoniDaci e Traci.

La testa della colossale
 statua di Costantino,
nei musei Capitolini
di Roma. 
Costantino completò la riforma militare di Diocleziano, suddividendo l'"esercito mobile" in "centrale" (unità palatinae) e "periferico" (unità comitatenses). In genere le unità palatinae costituivano l'esercito dedicato ad una intera Prefettura del Pretorio, mentre le unità comitatenses costituivano l'esercito dedicato ad una singola Diocesi nell'ambito della Prefettura.

La Schola Palatina era una unità di cavalleria d'élite dell'esercito del tardo Impero romano, al diretto comando dell'imperatore, di cui costituivano la guardia. Le scholae palatinae furono istituite all'inizio del IV secolo, per opera di Diocleziano o di Costantino I, che aveva sciolto l'antica guardia imperiale dei Pretoriani, compresi gli Equites singulares Augusti  (letteralmente la cavalleria personale dell'imperatore). Le scholae furono poi divise tra l'Impero romano d'Occidente e d'Oriente: le prime, in quanto guardia imperiale, furono sciolte da Teodorico il Grande  (e  continuarono ad esistere, forse come guardie cittadine di Ravenna, fino al VI-VII secolo), le seconde sopravvissero fino al tardo XI secolo, quando scomparvero durante il regno di Alessio I Comneno. Ogni schola era una unità di cavalleria, composta, all'epoca di Giustiniano I (VI secolo), da 500 cavalieri, reclutati soprattutto tra le tribù germaniche: Franchi e Alemanni nella parte occidentale dell'impero e Goti in quella orientale. Ogni schola era comandata da un tribuno, poi successivamente al V secolo da un comes scholarorum, che aveva sotto il suo diretto comando un certo numero di ufficiali anziani detti domestici o protectores. Se all'inizio de IV secolo erano elencate tre unità, nel V secolo la Notitia dignitatum elenca sette scholae nella parte orientale dell'Impero e cinque in quella occidentale.

E se si ricordano solo poche unità di Cataphractarii nell'esercito del Principato (fino al 284), furono invece assai più numerose quelle nel tardo Impero romano, soprattutto in Oriente. Se ne registrano ben 19 unità secondo la Notitia Dignitatum, una delle quali era una scholareggimento imperiale di guardie a cavallo. Tutte queste unità, tranne due, appartenevano al Comitatus, con una minoranza tra i Comitatensi palatini, mentre ci fu solo un'unità militare di arcieri catafratti.

Reggimenti cataphractarii nel tardo Impero romano:

Forze militari             Quartier generale     Nome dell'unità                      n° delle unità    degli effettivi**
Élite palatina                   Costantinopoli          Schola scutariorum                                1                    500                                                                                             clibanariorum                                                             
Comitatus praesentalis I     Nicea                     Comites clibanarii                                  3                   1.500                                                                                           Equites cataphractarii Biturigenses                                                                                                                               Equites I clibanarii Parthi
Comitatus praesentalis II   Adrianopoli            Equites Persae clibanarii                          4                   2.000                                                                                      Equites cataphractarii                                                                                                                                                    Equites cataphractarii Ambianenses                                                                                                                              Equites II clibanarii Parthi
Comitatus orientis            Antiochia              Comites cataphractarii Bucellarii iuniores    4                1.750                                                                                      Equites promoti clibanarii                                                                                                                                              Equites IV clibanarii Parthi                                                                                                                                             Cuneus equitum II clibanariorum Palmirenorum
Comitatus thraciae         Marcianopoli           Equites cataphractarii Albigenses                1                  500
Limes thebaidos             Thebes                   Ala I Iovia cataphractaria                             1                  250
Limes scythae                                              Cuneus equitum cataphractariorum              1                  250
TOTALE ORIENTE                                                                                                             15                6.750
Comitatus praesentalis  Milano                     Comites Alani                                                2               1.000                                                                                       Equites sagitarii clibanarii
Comitatus africae         Cartagine                 Equites clibanarii                                           1                500
Comitatus britanniarum Londra                    Equites cataphractarii iuniores                       1                500
TOTALE OCCIDENTE                                                                                                                     2.000
** Ipotizzando 500 armati effettivi in un'unità del comitatus e 250 per i limitanei.

Non sembra vi fossero particolari cambiamenti interni alla struttura della legione. Ciò che cominciò, invece, a delinearsi con maggiore frequenza, fu il costante invio di vexillationes (di 1.000-2.000 legionari) da parte della "legione madre" (attraverso la suddivisione di unità più antiche) che, sempre più spesso, non facevano più ritorno. La legione però rimaneva ancora legata al territorio, alla provincia di appartenenza, anche se andò perdendo di consistenza, passando dai circa 6.000 componenti dell'età alto-imperiale, ai 5.000 dell'età dioclezianea e ai 3.000 di quella valentiniana. I principali motivi furono determinati dalle situazioni contingenti del momento:
- il prolungarsi di numerose guerre lungo i vari fronti imperiali;
- la frequenza con cui la guerra civile, che determinò nel 324 la fine della tetrarchia, portò ad un continuo avvicendarsi di augusti e cesari nelle varie parti dell'impero, e di conseguenza il cambio di potere al vertice, impedendo di fatto il ritorno di queste vexillationes migrate spesso molto lontane dalle fortezze originarie.

Carta con quella che ancora
oggi chiamiamo "Pianura
Sarmatica" fino al Kuban'
caucasico.
LE STAFFE IN EUROPA - Le prime staffe rinvenute in Europa  sono attribuibili al quarto secolo dopo Cristo e vengono dalle tombe dei cavalieri Sàrmati nel bacino del fiume Kuban, a nord del Caucaso.

VERSO LA FINE DELL'IMPERO - Nel 377 le popolazioni gotiche sono respinte dalla provincia di Tracia da alcuni generali di Valente, fino verso la Dobrugia, regione situata tra il Danubio e il Mar Nero, divisa ora tra la Dobrugia Settentrionale che fa parte della Romania e la Dobrugia Meridionale che è oggi parte della Bulgaria.

Mesia con evidenziata
Adrianopoli, in Tracia,
 da: QUI.
Nel 378, mentre i goti  Tervingi (poi chiamati  Visigoti) in Mesia compievano ripetute razzie nelle regioni circostanti, sul fronte settentrionale una nuova incursione di Alemanni (confederazione di Germani Suebi) era repressa da Graziano nella Battaglia di Argentovaria,  nei pressi di Colmar, a cui seguì l'ultima spedizione romana al di là del Reno, nella foresta Ercinia. Il co-imperatore d'occidente Graziano richiamò Teodosio il giovane, al quale affidò l'incarico di respingere le nuove incursioni di Sarmati Iazigi in Pannonia e lo nominò  magister militum. Intanto la risposta dei Goti non si fece attendere, infatti nel corso di quell'anno  dilagarono fino a sud dei Balcani insieme ad alcuni reparti degli stessi Unni. Riuscì però a fermarli il magister peditum Sebastiano, che ne rallentò provvisoriamente le incursioni. Poco dopo mosse contro le orde barbariche lo stesso imperatore d'oriente Valente, che nella successiva battaglia di Adrianopoli, subì non solo una disastrosa sconfitta, ma cadde egli stesso sul campo di battaglia. 
Solidus di Flavio Giulio Valente
 (Cibalae, Vinkovci città della Croazia,
 328 - Adrianopoli, 9 agosto 378),
imperatore d'Oriente, da: QUI.
Valente, per non dover dividere il successo con Graziano,  figlio di suo fratello Valentiniano I e co-imperatore d'occidente, che stava sopraggiungendo in forze, aveva deciso di dirigersi da solo contro i Goti: disponeva probabilmente di 40.000 soldati contro un'orda di circa 50.000 guerrieri più altri 50.000 cavalieri goti. Una volta arrivato presso il cerchio di carri goto, Valente passò alcune ore a disporre in campo l'esercito. In questa fase furono comunque avviate trattative di pace: l'imperatore ricevette infatti una delegazione di preti cristiani ariani che gli consegnarono una lettera da parte dell'ariano Fritigerno (condottiero dei goti Tervingi poi chiamati  Visigoti) nella quale si prendeva in considerazione l'ipotesi di intavolare delle trattative sulla consegna ai Goti di terre, come era stato loro promesso ai tempi del trasbordo del Danubio. 

Battaglia di Adrianopoli.
Nella battaglia di Adrianopoli, pare che il capo goto, in realtà, volesse rimandare il più possibile l'inizio della battaglia (cosa di cui era certo Ammiano Marcellino) nella speranza che ritornassero in tempo le squadre di cavalleria che si erano allontanate per foraggiare i cavalli. Ad un tratto accadde l'imprevistodue reparti di cavalleria leggera romana schierati sull'ala destra e composti da arcieri a cavallo, giunti a tiro dei barbari, attaccarono di propria iniziativa, gesto che diede inizio alla battaglia.
Schema della battaglia di
Adrianopoli, da https://best5.it
/post/le-5-sconfitte-pegg
iori-dellimpero-romano/
.
I reparti di Valente, in inferiorità numerica, furono massacrati. Mentre i due schieramenti continuavano a scontrarsi, la cavalleria gota rompeva gli equilibri colpendo il fianco sinistro romano che era rimasto scoperto. I fanti romani, schierati in ordine compatto e con scarso margine di manovra, non poterono resistere all'urto e lo schieramento, dopo una ferrea resistenza, si sfaldò e si dette alla fuga. Alla fine lo stesso imperatore rimase ucciso e i resti delle forze romane si dettero alla macchia. Non si è mai saputo di preciso in che modo l'imperatore morì: forse fu colpito da una freccia o forse, come si raccontò dopo la battaglia, bruciò vivo nell'incendio di una fattoria nella quale, ferito, si era riparato nottetempo e a cui i Goti avevano dato fuoco. Con lui caddero anche due comites (Sebastiano e Traiano), tre duces, trentacinque tribuni e circa 30.000 soldati persero la vita. In seguito alla vittoria i barbari dilagarono nei territori intorno alla città compiendo ogni genere di razzie e massacrando le popolazioni romane. Il magister equitum Vittore si salvò e portò la notizia della sconfitta a Graziano, rimasto a oltre trecento chilometri dal campo di battaglia. Il comes (dal latino, "compagno") nell'antica Roma era un nome ufficiale usato dagli accompagnatori di alcuni magistrati e dal III secolo in poi fu sempre più spesso usato per i funzionari imperiali fino ad essere un grado dell'esercito e dell'amministrazione romana, ed evolutosi poi nel tardo Impero romano fino a diventare un titolo nobiliare nel Medio Evo: conte.
Carta con le date dell'avanzata della
migrazione dei Visigoti attraverso
l'Europa.
Teodosio accorse per frenare l'invasione dei Goti ma dovette in seguito  riconoscere i goti Tervingi (poi chiamati Visigoti) come federati, che cominciarono così a percorrere l'impero in ogni direzione. La battaglia di Adrianopoli segna il momento culminante della Guerra gotica, durata fino al 382. Gli Unni, giungendo fino all'Elba, spingevano intanto contro le frontiere romane anche i Germani occidentali che da allora, alla guida dei loro re, estesero sempre più i loro insediamenti  nelle provincie dell'impero. Le violente incursioni degli Unni causarono movimenti migratori anche da parte degli Slavi occidentali, i Venedi-Sclavini stanziati nelle terre a sud-ovest dell'Elba e dell'Oder, pur non essendo interessati direttamente dalle incursioni unne. Per reazione alla spinta degli Unni, si crearono unioni  tribali miste di GermaniSlaviSàrmati e Mauri ma non i Goti, in via di conversione all'arianesimo  cristiano promosso da Ulfila, contro cui combattevano invece tribù Sarmatiche e Slave.

Solidus di Flavio
Graziano (359 -
383). Di Rasiel
 Suarez - Opera
propria, CC BY-
SA 3.0: QUI.
In seguito al disastro di Adrianopoli dell'agosto del 378 in cui era stato ucciso l'imperatore d'oriente Valente, Graziano si ritrovava a governare anche la parte orientale dell'impero, ma sentendosi impreparato a fronteggiare da solo la pressione barbarica nominò, il 19 gennaio 379, il suo magister militum Teodosio  imperatore d'oriente come Teodosio I e da lì in poi gli imperatori romani e i loro successori avrebbero adottato una nuova strategia di contenimento  nei confronti dei barbari, cominciando ad  adottare politiche di pacificazione basate sui sistemi di hospitalitas e  foederatio, meccanismi che consentissero l'integrazione e l'assimilazione  delle genti che premevano lungo il limes  romano. La disfatta di Adrianopoli inoltre, innescò un circolo vizioso per il quale le forze militari romane iniziarono a fare assegnamento, in modo sempre più esclusivo, sull'apporto dei soldati di origine barbarica, al punto che l’esercito giunse ad essere costituito, in larga parte, da mercenari e truppe barbare romanizzate oltre ai dediticii, membri di comunità che erano volontariamente dipendenti da Roma. La battaglia segnò l’inizio del percorso che avrebbe portato alla caduta definitiva dell’Impero  d'Occidente e al suo sfaldamento per l'incapacità di gestire un tassello basilare come quello militare, a causa delle sempre più frequenti pressioni che i militari stranieri esercitavano sull'autorità imperiale, in termini di donativi, privilegi e richieste che, a vario titolo, i vertici dell'esercito insistevano a pretendere dagli imperatori. L'incapacità di far fronte a queste domande, il rafforzarsi della posizione  dei  comandanti barbari che disponevano spesso di un proprio e autonomo esercito all'interno dell'impalcatura militare romana e l'acuirsi di forme di ricatto, costituirono i punti deboli del potere romano. Questo processo fu contrastato e arrestato con successo alla metà del V secolo nella Pars  Orientis dell'impero, mentre in occidente si svilupperà incontrastato fino alla presa di potere di Odoacre nel 476.

La Notitia Dignitatum attesta la presenza nei primi anni del V secolo, di 15 colonie militari di Sàrmati anche in Italia, soprattutto nella pianura del Po, sotto il comando di un Praefectus Sarmatarum  gentilium. Secondo quel documento una di queste guarnigioni era stanziata nell'odierna provincia di Cuneo, a Pollentia (oggi Pollenzo), nota per essere stata teatro nel 402 della battaglia tra i Visigoti di Alarico e i Romani, fra le cui file erano presenti cavalieri Sarmato-Alani. In seguito si sarebbero spostati sul più sicuro e poco distante altopiano alla confluenza fra il Tanaro e la Stura di Demonte, dove oggi sorge il piccolo paese di Salmour che si ipotizza derivi il nome da quell'antico insediamento (Sarmatorium). Altre probabili colonie di Sàrmati ad aver lasciato il segno nella toponomastica locale potrebbero essere Sermide (Sarmata nell’Alto Medioevo), in provincia di Mantova, Sarmaticula (oggi Sarmeola di Rubano), presso Padova e Sarmede, in provincia di Treviso.

Nel V sec. si registravano 175 legioni, ormai notevolmente ridotte di consistenza e importanza rispetto ai numeri barbarici, più bellicosi.

Le devastazioni dovute alle invasioni e le perdite territoriali determinarono una costante diminuzione del gettito fiscale con conseguente progressivo indebolimento dell'esercito: un esercito professionale come quello romano, infatti, per essere mantenuto efficiente, aveva bisogno di essere pagato e equipaggiato, e le ristrettezze economiche dovute al crollo del gettito fiscale portarono ovviamente a un declino progressivo delle capacità di addestramento, arruolamento, dell'organizzazione logistica e della qualità dei rifornimenti in armi e derrate ai soldati (si spiegano in questo senso le sempre più crudeli minacce ai cittadini contenute nelle leggi del periodo in caso di mancato versamento dei tributi). Da un'attenta analisi della Notitia Dignitatum, si può ricavare che quasi la metà dell'esercito campale romano-occidentale andò distrutto nel corso delle invasioni del 405-420, e che le perdite furono solo in parte colmate con l'arruolamento di nuovi soldati, mentre molte delle ricostituite unità erano semplicemente unità di limitanei promossi a comitatenses, con conseguente declino delle potenzialità militari con riferimento sia alla consistenza meramente quantitativa delle truppe che sotto il profilo della qualità.

La perdita dell'Africa ebbe riverberi inevitabili e seri sulle finanze dello stato, indebolendo  ulteriormente l'esercito (attorno al 444). Le perdite subite portarono all'ammissione in grosse quantità di ausiliari e foederati germanici (ad esempio Unni): ciò poteva portare benefici a breve termine, ma era deleterio a lungo termine, in quanto diminuiva gli investimenti nel rafforzamento delle unità regolari.

Nel tardo impero l'esercito, per difendere i confini imperiali dalla crescente pressione barbarica, non potendo contare su reclute insignite di cittadinanza, a causa sia del calo demografico all'interno dei confini dell'Impero, sia della resistenza alle coscrizioni, ricorse sempre di più a contingenti di gentiles (fino a una vera deriva "mercenaristica"), utilizzati dapprima come mercenari a fianco delle unità regolari tardo imperiali (legiones, vexillationes e auxilia), ed in seguito, in forme sempre più ingenti e diffuse, come alleati che conservavano le loro tradizioni e le loro usanze belliche. Il risultato fu un esercito romano nel nome, ma sempre più culturalmente estraneo alla società che era chiamato a proteggere.

Vegezio, autore di un manuale di strategia militare redatto tra la fine del IV secolo e la prima metà del V secolo, si lamentò per l'imbarbarimento progressivo dell'esercito romano, il quale, cominciando a combattere alla maniera barbarica, perse il suo tradizionale vantaggio nella superiore disciplina e strategia militare; lo stesso Vegezio si lamentò per il fatto che l'imperatore Graziano avesse permesso ai suoi fanti, probabilmente di origini barbariche, di non indossare più elmo e armature, esponendoli maggiormente alle armi nemiche e portando come nefasta conseguenza a diverse sconfitte contro gli arcieri goti. Vegezio lamentò poi che non si costruissero più accampamenti e riferisce le conseguenze nefaste di questa scelta. Sempre Vegezio lamentava poi che i proprietari terrieri, non intendendo perdere manodopera, escogitavano diversi espedienti pur di non fornire soldati all'esercito, ricorrendo anche alla corruzione degli ufficiali reclutatori: ciò fece sì che, invece di reclutare gente idonea al combattimento, venissero reclutati pescatori, pasticcieri, tessitori ed altre professioni ritenute non idonee da Vegezio. La soluzione di Vegezio era tornare all'antico modo di combattere, alla "maniera romana", abbandonando il modo di combattere "alla barbara" introdotto dal sempre più crescente arruolamento di Barbari; in Occidente, tuttavia, per diverse ragioni, non si riuscì a invertire questa tendenza, portando alla sua rovina.


In Asia la prima staffa per l’intero piede è stata trovata nelle selle cinesi del sec. V d.C. In Cina figure di staffe compaiono nelle sculture funerarie in terracotta della dinastia mongolo-tartara Wei, del 500 d.C. circa, e una testimonianza scritta intorno al 477 (Biografia di un capo militare cinese) ne attribuisce la paternità ai popoli nomadi delle steppe. Questa testimonianza scritta cinese riporta infatti testualmente che la staffa fu introdotta in Cina dai Hsiung-Nu. - E gli Xiongnu o Hsiung-nu sono un popolo di pastori nomadi dell'Asia centrale che alla fine del 3 ° secolo aC, formarono una grande lega tribale che ha dominato gran parte dell'Asia centrale per più di 500 anni. Nei loro grandi spostamenti, in quel periodo, essi giunsero anche alla frontiera settentrionale cinese e alla conquista della Cina del nord, della Corea e della Manciuria meridionale. Scavi di tombe Xiongnu hanno rivelato, oltre a resti di prodotti tessili cinesi, anche iraniani e greci; e ciò indica il contatto e un ampio commercio anche con questi popoli lontani da quell'area ma più vicini a noi e alla loro zona di origine. Ciò che è certo è che coloro che i cinesi chiamano Xiōngnú (Hsiung-nu) erano una confederazione nomade di tribù dell'Asia Centrale e che la maggior parte delle informazione su di loro viene dalle fonti cinesi. Infatti quel poco che sappiamo dei loro nomi e titoli deriva da translitterazioni in lingua cinese (contenuta in documenti cinesi) e che di originale sono rimaste solo una ventina di parole e un'unica frase che appartiene alla lingua “altaica”. Queste poche notizie hanno fatto sì che l'identificazione del nucleo etnico degli Xiongnu sia stato oggetto di varie ipotesi e di varie proposte da parte di quegli studiosi che hanno teorizzano la loro lingua genericamente come “Altaica”, “mongola”, “iraniana” o “yeniseian; e che taluni li identificassero con gli Unni (es. Joseph de Guignes nel XVIII sec.) accendendo ancor più il dibattito sulla loro origine, che resta tuttora controversa. In Cina, un rilievo nella tomba dell'imperatore T'ai-Tsong (Taizong o T’ai Tsung, 627-641 d.C.) della dinastia T'ang, ci mostra un cavaliere asiatico che estrae una freccia dal petto del suo cavallo sellato e con le staffe ben evidenti. Anche in Giappone la staffa arrivò probabilmente nello stesso periodo e una statuetta votiva del periodo pre-buddista ci mostra un cavallo con sella e staffe. Anche in Corea esistono testimonianze simili su una caraffa di terracotta del 5°-6° sec. d.C. (in forma di statuina equestre con sella con arcione e paletta elevate e staffe). Anche in Siberia sono state ritrovate staffe, di pregevole modello e lavorazione, nella regione di Minusinsk, nell'alto Ienisei, in tombe del periodo tra il 6° e l'8° sec. d.C. I ritrovamenti ci forniscono dunque un quadro abbastanza omogeneo su una vasta area e dimostrano che la staffa entrò in uso in Eurasia tra il IV e il VI sec. d.C. e con ogni probabilità diffusa rapidamente e contemporaneamente in conseguenza alle migrazioni a vasto raggio in cui erano impegnati tra oriente e occidente i popoli nomadi che praticamente vivevano a stretto contatto col cavallo. 

Territori degli Unni, con la loro
capitale, nella pianura ungherese,
nella metà del V secolo. Da: https:
//it.wikipedia.org/wiki/Unni
CAVALLERIA UNNA con SELLE e STAFFE - Nel 412/413 lo storico e ambasciatore Olimpiodoro di Tebe conduce un'ambasceria presso gli Unni, che erano già stanziati lungo il corso medio del Danubio. Quindi gli Unni, identificati da alcuni studiosi con il popolo popolo guerriero nomade Hiung-nu (che i cinesi chiamavano Xiōngnú o Hsiung-nu, probabilmente di ceppo turcico (turco), provenienti dalla Siberia meridionale, erano giunti in quegli anni  nella grande pianura ungherese e probabilmente, secondo la teoria di Heather, fu lo spostamento degli Unni a spingere Radagaiso (condottiero ostrogoto che capo di una vasta coalizione di tribù germaniche e celtiche era dilagato in Italia tra la fine del 405 e gli inizi del 406, per poi essere sconfitto dall'esercito romano nella battaglia di Fiesole) a invadere l'Italia, mentre Vandali, Alani, Svevi e Burgundi dilagavano nelle Gallie e Uldino (uno dei primi capitribù degli Unni durante il regno degli imperatori Arcadio e Teodosio II) invadeva la Tracia durante la crisi del 405-408. All'epoca dell'ambasceria di Olimpiodoro, gli Unni erano governati da molti re, ma nel giro di vent'anni, probabilmente attraverso lotte violente, il potere verrà detenuto da un unico re: Attila (pr. attìla, forse un titolo più che un nome proprio, così come faraone).
Nella metà del V secolo, gli Unni costituiranno un regno nell'Europa centro-orientale e, come gli orientali Xiongnu, incorporeranno gruppi di popolazioni tributarie, arrestando così il flusso migratorio ai danni dell'Impero che essi stessi avevano provocato, in quanto, volendo dei sudditi da sfruttare, impedivano ogni migrazione da parte delle popolazioni sottomesse. Nel caso europeo, Alani, Gepidi, Sciri, Rugi, Sarmati, Slavi e specialmente le tribù gotiche, vennero tutti uniti sotto la supremazia militare degli Unni. Guidati dai re Rua, Attila (406-453 che apparteneva alla famiglia reale) e Bleda, gli Unni si rafforzarono molto. I germanici Eruli  sono citati tra le popolazioni che si unirono agli Unni guidati da Attila, al cui seguito parteciparono alle scorrerie per tutta l'Europa.
Gli Unni in battaglia contro gli Alani
in un'illustrazione ottocentesca di
Johann Nepomuk Geiger, da https
://it.wikipedia.org/wiki/Unni
 
Gli Unni sono stati descritti come un popolo di uomini brutti e spaventosi e lo stesso si diceva dei loro cavalli, la loro vera  grande arma  vincente sui campi di battaglia. I cavalli unni erano diversi dai cavalli attuali e molto diversi da quelli adottati dalla cavalleria romana e dai popoli con cui si scontrarono. Esteticamente questi cavalli potevano sembrare poco attraenti, erano molto magri, decisamente più bassi dei cavalli adottati dagli eserciti imperiali ma erano forti, resistenti e veloci, in grado di percorrere anche 100 km senza aver bisogno di essere ferrati, di indole mansueta e in grado di trovare il foraggio anche sotto la neve: sopravvivevano dunque facilmente anche in condizioni ambientali poco favorevoli. L'unico territorio in cui questi cavalli si muovevano a disagio era quello montagnoso, ma nelle vaste praterie della steppa Europea, nelle pianure e nelle valli si dimostrarono molto più performanti di qualsiasi cavalleria contro cui si scontrarono. I cavalieri unni sembravano un tutt'uno in sella ai loro cavalli, i bambini imparavano a cavalcare nello stesso tempo in cui imparavano a camminare e al galoppo di quei veloci destrieri sapevano destreggiare le armi con una precisione che le altre cavallerie, più rigide, pesanti e diversamente equipaggiate, non possedevano. Grazie all'uso sia della sella che della staffa i loro attacchi erano sorprendentemente potenti, scanditi da repentini movimenti inaspettati. Si ritiene che un tipo di sella arcaica sia stata usata fin dal 700 a.C. circa dagli Sciti, un popolo nomade della steppa eurasiatica, ma è stato certamente l'arrivo in Europa di selle robuste come quelle cinesi a fare la differenza in battaglia. Lo scoprirono a loro spese i Romani, che combatterono gli Unni seduti su coperte appoggiate ai cavalli mentre la cavalleria dei loro nemici era già dotata di selle in legno con pomelli davanti e dietro, il cui vantaggio era una stabilità senza pari e la possibilità di tirare frecce senza fermarsi. Allo stato attuale e basandoci sui ritrovamenti effettuati in alcuni siti archeologici, è possibile oggi affermare che le prime staffe rinvenute in Europa sono attribuibili al quarto secolo dopo Cristo e provengono dalle tombe dei cavalieri Sàrmati situate nel bacino del fiume Kuban, a nord del Caucaso, mentre al quinto secolo dopo Cristo appartengono alcune staffe in ferro, con la fessura per il passaggio dello staffile e la forma consueta che ancora oggi gli viene data, rinvenute in tombe di Unni in Ungheria. Gli storici romani e cristiani che tanto disprezzarono gli Unni, descrivendoli come rozzi e incivili, narrarono di come si nutrissero della carne cruda che riponevano sotto la sella durante le cavalcate, appena scaldata e "cotta" dal continuo movimento del corpo sulla sella. In realtà quella carne proteggeva l'animale dall'attrito del contatto, rendendogli quindi la cavalcata più lieve, che poi quella carne venisse realmente mangiata non apparirebbe certo strano oggi, soprattutto alla luce del prezzo della carne di Kobe, pregiatissima perché "massaggiata" a mano. Il cavaliere unno non avevano solo un cavallo a disposizione, ma un'intera scuderia di cavalli al seguito, in modo da poter contare sempre su un cavallo riposato per un'azione scattante. Quando gli Unni avanzavano lo facevano così velocemente che si potevano vedere le sentinelle correre disperate per annunciare l'arrivo degli Unni quando già se ne sentiva lo scalpitìo sul terreno e l'orizzonte si copriva della polvere sollevata dagli zoccoli dei loro cavalli. 

Nel 451, il 21 giugno, si combatte la battaglia dei Campi Catalaunici (o Catalauni, o anche Maurici), detta anche battaglia di Chalons, in una pianura della Gallia nei pressi dell'odierna Châlons-en-Champagne, fra le truppe del generale romano Ezio, reclutate soprattutto tra i barbari e affiancate dagli alleati Visigoti di Teodorico I e gli Unni di Attila, che vengono sconfitti. Ezio aveva chiamato a raccolta i suoi alleati germanici sul suolo romano per aiutarlo a respingere l'invasione degli Unni. I Franchi Salii risposero alla chiamata e anche i Ripuari, che lottarono su entrambi i lati, in quanto alcuni di essi vivevano al di fuori dell'impero. Il reparto dei Salii era guidato da re Meroveo, figlio e successore di  Clodione. Costui, in un primo tempo, si era dimostrato insofferente ai Romani. Infatti, il generale Ezio, prima che il capo barbaro gli diventasse amico ed alleato, aveva requisito a Clodione, in una battaglia, dei carri, aveva fatto dei prigionieri e gli aveva preso in ostaggio perfino la moglie incinta. La leggenda narra che costei, durante la prigionia, mentre nuotava nel mare, fu posseduta, già incinta del figlio di re Clodione, da un mostro marino ("bestea Neptuni Quinotauri similis") dalla cui unione nacque poi un figlio di due padriMeroveo.
Quinotauro, di Andrea Farronato.
Lo storico Prisco, che conobbe personalmente Clodione, narra di suo figlio Meroveo, che si era recato a Roma (nel 448 d.C.), per conferire con Ezio e chiedergli aiuto: "Io lo vidi qui, ed era ancora molto giovane. Aveva bellissimi capelli biondi, folti, lunghissimi che gli scendevano sulle spalle". Meroveo  introdusse nel suo governo le cosiddette "Leggi Saliche", sorta di codice in cui erano elencate le disposizioni civili e penali elaborate da un popolo che attingeva queste leggi da una lontana tradizione arcaica, tutte tramandate oralmente e patrimonio memorialistico dei vecchi saggi dei vari clan. Inoltre i Merovingi dettero origine ad una lingua che sostituì quella latino-germanica: il fiammingo. I fiamminghi (in olandese Vlamingen), sono un gruppo etnico storicamente legato alla regione delle Fiandre, nell'attuale Belgio settentrionale, discendenti delle antiche tribù germaniche, soprattutto Franchi, in seguito mescolatesi alle tribù gallo-celtiche di lingua gallica, lingua celtica parlata nelle antiche Gallie (odierne Francia ed Italia settentrionale), prima del latino volgare del tardo Impero Romano, che ci è nota attraverso i dialetti, diverse centinaia di iscrizioni su pietra, su vasi di ceramica e altri manufatti, su monete e talvolta su metallo.

Nel V sec. si registravano nell'impero Romano 175 legioni, ormai notevolmente ridotte di consistenza e importanza rispetto ai numeri barbarici, assai più bellicosi.


Invasioni nell'Impero Romano dal 375
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SFALDAMENTO DELL'IMPERO ROMANO D'OCCIDENTE - Intorno al 460 l'esercito romano, e di conseguenza le legiones, dovevano apparire solo l'ombra di sé stesse, con i territori ridotti ormai alla sola Italia o poco più. Nonostante tutto, secondo alcuni studiosi, l'esercito romano rimase efficiente fino ad almeno a Maggioriano (461). Sotto Ezio e Maggioriano, l'Impero sembra fosse ancora in grado di affrontare e vincere in battaglia Visigoti, Burgundi, Bagaudi, Franchi, mantenendo sotto il suo controllo la Gallia, a riprova di una sua relativa efficienza. Solo con l'uccisione di Maggioriano cominciò il definitivo declino, a causa della rivolta dell'esercito delle Gallie che portò alla formazione di uno stato secessionista in Gallia settentrionale, il Dominio di Soissons. Privato dell'esercito delle Gallie, ed essendosi ridotti i territori gallici sotto il controllo del governo centrale alle sole Provenza e Alvernia, l'impero non fu più in grado di difendere queste province con il solo ricorso all'esercito d'Italia. Nel 476 le armate sollevate da Odoacre contro il magister militum Flavio Oreste e l'ultimo imperatore in Italia, Romolo Augusto, erano costituite unicamente da alleati germanici, perlopiù Sciri ed Eruli. Tuttavia l'assetto generale dell'esercito romano tardo-imperiale, e alcune sue unità, sopravvissero almeno fino al VI secolo in seno alla Pars Orientis. Teofilatto Simocatta attesta, ancora a fine VI secolo, l'esistenza della Legio IV Parthica, anche se all'epoca le legioni erano quasi del tutto scomparse, sostituite da reggimenti di circa 500 soldati denominati numeri (in latino) o arithmoi (in greco).
Da alcune fonti letterarie del tempo si può evincere che il termine "ausiliario" divenne a poco a poco sinonimo di "soldato", così come lo fu nei secoli precedenti il termine "legionario", il che sta ad indicare una fase di progressiva smobilitazione delle antiche unità legionarie in favore di quelle ausiliarie. In una seconda ed ultima fase, l'esercito romano avrebbe perso definitivamente la sua identità, quando probabilmente anche la maggior parte degli auxilia palatina furono rimpiazzate da federati.

Flavio Belisario, generale
dell'Impero Romano
d'Oriente, dal mosaico
della chiesa di S. Vitale
di Ravenna, da http://tizi
anobedonni.blogspot.
com/p/la-staffa-origini
-e-storia.html
LA CAVALLERIA NELL'IMPERO ROMANO D'ORIENTE - Tratto da http://tizianobedonni.blogspot.com/p/la-staffa-origini-e-storia.html: In Occidente (popoli nomadi esclusi), stando alle cronache, il primo condottiero che  fece adottare le staffe in cavalleria, fu colui che può essere considerato il più insigne comandante di cavalleria agli albori del primo Medio-Evo: il principe bizantino Belisario (Flavio Belisario, 500-565) che combatté prevalentemente dal 527 per l'imperatore Giustiniano. Il primo testo scritto che ricordi l'uso della staffa in Europa, da parte degli Àvari (il popolo nomade di origine asiatica, imparentato con gli Unni e che usava le staffe e le armature, ovvero cavalieri catafratti), è lo Strategikon: il trattato di arte militare scritto nel VI sec. d.C. dall'Imperatore di Bisanzio, Maurizio (Flavio Maurizio Tiberio, nato in Cappadocia nel 539 d.C. e morto a Costantinopoli il 27 novembre del 602 d.C.) che iniziò la sua carriera militare con l'Imperatore Tiberio II, che gli affidò il comando dell'esercito romano-orientale in Mesopotamia contro i Persiani, in sostituzione del generale Giustiniano, che divenne poi a sua volta imperatore. Successivamente Maurizio regnò a sua volta dal 580 al 582 e prescrisse nel suo “trattato di arte militare” l'uso della staffa e l'aggiunta dei ferri da cavallo. Con lo “Strategikon” il “cavaliere-catafratto” e “staffato” diventa una carta vincente nell'esercito bizantino che, con una sua specifica tecnica e manovra, poteva scompaginare l'esercito nemico e vincerlo. Flavio Maurizio Tiberio, come stratega e Imperatore si impegnò alla riorganizzazione politica e militare in Italia e in Africa, creando gli Esarcati di Ravenna e di Cartagine. Ottenuta una relativa tranquillità sul fronte orientale, concentrò gli sforzi nella lotta contro gli invasori dei Balcani, gli Àvari, da cui apprese, comprese, descrisse e potenziò l'uso delle staffe e delle armature: specializzò dunque i cavalieri catafratti già introdotti da Adriano. Il suo “Strategikon” è il primo testo che menzioni l’uso della staffa in Europa da parte degli Àvari, e ci dà una vivida descrizione di come i nemici dell’Impero fossero visti dai loro avversari. Nello “Strategikon” si trovano descrizioni e giudizi su “Longobardi”, “Àvari”, “Persiani” e “Franchi”, i principali avversari di Costantinopoli (che gli storici si ostinano a chiamare Bisanzio) e dell'Impero Romano d'Oriente in quel periodo.

I Romano-Orientali ebbero comunque un primato anche nella marineria militare, grazie anche alla scoperta del "fuoco greco".

GLI ÀVARI - Nel 502, Dopo essersi formato nelle steppe asiatiche, per via della competizione con le altre tribù turche, dalle quali era poi stato scacciato, un gruppo misto di superstiti turco/mongoli migra verso l'Europa dell'est, dal 502 al 530 si stabilisce nell'area del Volga, dove fonderà il Khanato degli Àvari intorno al 550 e prende così avvio la sua era delle conquiste. Gli Àvari erano una combinazione di un popolo di stirpe uigura (etnia turcofona che oggigiorno è di religione islamica e vive nel nord-ovest della Cina, nella regione autonoma dello Xinjiang), chiamato Hund, e un popolo di stirpe mongola detto Var, che si era formato intorno a Balkh (provincia dell'Afghanistan con capitale Mazar-i Sharif) negli anni tra il 410 e il 470. Pare che il nome Àvari abbia radici comuni con la parola turca "avare", che  significa  girovago o vagabondo. Così potrebbe essere che il termine Àvari, sia stato usato per popoli diversi, con il significato di "migranti", "nomadi", come sembra sia avvenuto anche per etnonimi come Ebrei, Arabi o Cosacchi (Kazaki).
Kaganato degli Àvari nel 600 da https://upload. wikimedia
.org/wikipedia/commons/a/af/East-Hem_ 600ad.jpg.
Nella carta si possono vedere le posizioni dei Magiari,
degli Oghuz e di altre popolazioni turco-mongole,
 varie popolazioni slave, tutte con le scritte nere,
le popolazioni germaniche vassalle dell'impero romano
scritte in blu, le popolazioni di stirpe iranica
scritte in verde.
Nel 550, lo storico della Chiesa Zacharia menziona una "comunità" avara in Occidente. Intorno alla metà del VI secolo anche Menandro scrive al riguardo degli Àvari e nello stesso periodo Procopio distingue nella sua "Storia delle guerre" tra Unni Bianchi e Unni europei, che successivamente l'autore bizantino Teofilatto Simocatta, nella prima metà del VII secolo, definisce rispettivamente "reali" e "pseudo-Àvari". La loro capitale - in realtà, un campo fortificato - si trovava lungo la riva sinistra del fiume Tibisco (affluente di sinistra del Danubio), non lontano dalla regione ungherese dell'Hortobagyi. Nel V secolo gli Àvari avevano creato una sorta di impero privo di organizzazione centrale che si estendeva dalla Corea al mar Caspio. Spinti da altre popolazioni (Unni e Bulgari) erano dilagati nella pianura sarmatica (già occupata dai Sarmati, popolo di stirpe nord-iranica dei quali facevano parte anche gli Alani). Nel VI secolo gli Àvari , dopo essersi insediati in Pannonia, spingeranno i Longobardi a migrare verso l'Italia. Con il capo (khagan) Baian (565-602) raggiungeranno il loro apice di importanza in Europa, guardando verso sud e arrivando nel 626 a cingere d'assedio la stessa Costantinopoli (grazie a un'alleanza con i persiani), mantenendo comunque saldo il controllo in una vasta area di Europa centrale. Una situazione caotica seguirà all'ascesa al potere degli Àvari in Europa dopo il 550 e la dinastia bulgara Onoghur (580-685) mischierà il patrimonio avaro con quello bulgaro; il nome Onoghur deriva probabilmente da "Oghuz", mentre il nome "Ungheria" usato oggi deriva da Onogur.

In Europa, stante i ritrovamenti archeologici, le staffe sono dunque abbastanza frequenti a partire dal 560 d.C. nelle tombe degli Àvari in Ungheria, verosimilmente introdotte dai “nomadi delle steppe”. L'adozione della staffa non fu però dovunque immediata tant'è che fino all'ottavo secolo continuano ad apparire figure di cavalieri senza staffe. In nord Europa, i “Longobardi” stessi, un popolo germanico che pur venuto a contatto con gli Àvari nel V e VI sec. non ne apprese da loro l'uso, ma l'adottò solo dopo la migrazione in Italia (nel 586 d.C.), apprendendone qui l'uso evidentemente dai popoli locali e dai Romani Orientali (Bizantini).

LA CAVALLERIA nella TARDA ANTICHITÀ e nel MEDIOEVO - La tarda epoca imperiale romana e gli albori del primo medio-evo, con l'introduzione della staffa, vedono stravolgere in Eurasia e in Europa ogni tattica militare ed avviano il progredire di differenti e nuove tecniche equestri. Analizzando la storia militare della cavalleria non possiamo non rilevare come si contrappongano e si alternino ripetutamente due concezioni tattiche opposte: la “cavalleria leggera” e la “cavalleria pesante”.

La cavalleria leggera: rapida, con cariche veloci che non arrivano quasi mai a fondo; con attacco a distanza e la cui arma più tipica è l'arco; con cavalieri che scagliano le frecce e con una rapida conversione si ritirano per poi tornare all'attacco di nuovo; evitando sempre di prendere contatto col nemico. Una tattica tipica dei cavalieri nomadi delle vaste steppe e di chi principalmente assale e non deve difendere né città né beni immobili. Una tattica specializzata nell'impegnare il nemico in lunghe corse per stancarlo ed attirarlo lontano dalle basi per poi attaccarlo agevolmente in orde. Cavalli veloci, agili e leggeri, di tipo “meso-dolicomorfo” selezionati per l'uso. Cavalieri agili, con staffature corte e selle leggere. Poco ingombranti. Cavalieri “leggeri sulle staffe” e che proprio grazie all'utilizzo delle staffe non “gravano” seduti sul dorso dei “destrieri” ma se ne distaccano in velocità distribuendo maggiormente il loro peso su ambo i lati lasciando al cavallo la massima libertà di “schiena” in manovra e in tutti i “tempi di sospensione da terra”.

La cavalleria pesante: più lenta, più statica, d'urto e che ha come arma l'impatto travolgente e la lunga lancia; col cavaliere protetto da una più robusta e pesante corazza e da uno scudo e che pertanto ricerca lo scontro ravvicinato. Un tipo di combattimento e di “cavalleria” che pare sia stata introdotta dai cavalieri “Sarmati” e di cui l'avvento della staffa accentuò le differenze dalla tarda epoca imperiale in poi e con l'inizio del Medio-Evo. Cavalieri con staffature-lunghe e gambe praticamente distese in selle più avvolgenti e pesanti ed in grado di dare “stabilità” sia a chi indossava più voluminose armature che alle “reste” delle lance. Cavalieri seduti in toto sul dorso, col loro totale e ingombrante peso e quello delle armature gravante in toto sulle schiene dei cavalli. Cavalli morfologicamente diversi da quelli funzionali alla “cavalleria-leggera”: cavalli meso-brachimorfi, più robusti e più lenti; in grado di “portare-peso” e appositamente selezionati per l'uso.

Il diverso utilizzo della staffa (e delle selle) caratterizza sia i (due) diversi tipi di “monta” che di “cavalleria”; che di tecnica “equestre” e di “combattimento”.

Come già evidenziato nello "Strategikon" di Maurizio, i “cavalieri catafratti” entrarono a far parte stabilmente della cavalleria in epoca tardo-romana per contrastare le cavallerie dei Parti prima, dei Sassanidi poi, oltre che dei Sarmati, ecc.. Se all'inizio, in occidente, la cavalleria costituiva prevalentemente una particolare squadra di “esploratori” o di “inseguitori” leggeri; la “cavalleria pesante” divenne un corpo ben distinto di cavalleria “d'urto”. Inizialmente i primi “cavalieri-catafratti” di epoca romana erano armati con una lancia a due punte e di una spada leggermente più lunga del corto gladio già in dotazione ai legionari, e avevano un elmo con pennacchio e con apertura a visiera, e la loro corazza (praticamente una evoluzione modificata della “lorica-squamata”) proteggeva anche braccia e gambe. Le prime unità di “catafratti” furono introdotte nell'esercito romano da Adriano e si trattava di poche unità, che divennero numerose solo nel periodo del tardo impero soprattutto in Oriente, dove era sorta la “scuola” di addestramento ed erano state create ben 19 unità di base oltre al primo-reggimento di guardie-imperiali a cavallo che la storia ricordi. Tutte queste unità imperiali comprendevano sia arcieri che lancieri catafratti. Il catafratto-bizantino fu in pratica il diretto erede di quello romano di Adriano. In epoca tardo imperiale e bizantina il “cavaliere-catafratto” vide rinnovato il suo equipaggiamento, con l'aggiunta di un differente ed efficace arco e frecce; la spada tipo “gladio” fu sostituita con la sciabola , molto utile in un combattimento a cavallo. Furono dotati di una corazza molto più forte, di un elmo di epoca medievale, con più vistosi pennacchi (per abbellirlo e per far più timore al nemico); e come conferma lo “Strategikon” (il manuale scritto da Maurizio di Bisanzio), furono adottate le staffe e aggiunti i ferri ai cavalli. In definitiva cambiò un'epoca e grazie al reparto dei cavalieri-catafratti e staffati, Bisanzio riuscì ad ottenere molti successi in Occidente. In realtà, la cavalleria bizantina rappresenta una fusione delle due tattiche. Con essi inizia tuttavia il Medio-Evo e l'epopea cavalleresca. In tal senso occorre rammentare che poiché anche nelle tombe dei “Franchi”, nella tomba di Carlo Martello (714-741) avo di Carlo Magno è stata trovata una staffa; la qual cosa ci autorizza a supporre che anche la sua cavalleria ne facesse uso corrente già nella storica battaglia di Poitiers del 732 contro i “mori”; e ad ipotizzarne l'utilità che tale ausilio possa avere avuto in quella vittoria che tanta influenza ebbe per il successivo corso della storia medievale. Gli Arabi sconfitti a Poitiers da Carlo Martello infatti, che erano divenuti padroni dell'Africa Settentrionale, della Spagna e di parte della Sicilia, non conoscevano l'uso della staffa avendo adottato una cavalleria leggera e priva di staffe. Essi la adottarono infatti poi assai tardi, in pratica dopo il 1000 e quando ormai in tutto il resto d'Europa (e oltre) il suo uso era diffuso e tecnicamente consolidato da secoli.

Così come l'invenzione e l'introduzione della staffa e della sella ha segnato una svolta epocale e storica nell'utilizzo del cavallo e nell'equitazione (tecnica equestre), ancor oggi il diverso utilizzo della staffa e delle selle caratterizza sia i diversi tipi di “monta” (discipline sportive), che di tecnica “equestre”, che di “utilizzo” del cavallo. E l'utilizzo (la destinazione d'uso) ne condiziona ancor oggi come in passato la “selezione” e la scelta in quanto a “razze” e “tipi” morfologici più funzionali ai diversi impieghi.

In Europa, con la definitiva adozione delle staffe, i cavalieri poterono utilizzare in battaglia il peso del loro corpo e quello del cavallo per condurre gli attacchi “lancia in resta”, ossia con la lancia fissata a un’apposita appendice dell’armatura (la resta, appunto). Per mezzo delle staffe il cavaliere poteva sostenersi poggiando esclusivamente sui piedi, e ciò gli rendeva libere le braccia e le mani per usare le armi, potendo così scagliare in modo più efficace lance e frecce nonché maneggiare la spada durante la battaglia.

Fin dall’epoca dell'invincibile cavalleria macedone di Alessandro, dove i cavalieri avevano l’immenso gap operativo di dover controllare le bestie solo con le ginocchia mentre andavano alla carica, rischiando comunque al momento dell’urto con il nemico di essere sbalzati di sella, l’avvento della staffa rivoluzionerà le tattiche militari tardo-antiche e medievali. Sarà questo semplicissimo strumento, ovvero un cerchio metallico a fondo piatto che pende ai lati della sella e nel quale il cavaliere può riporre il piede, a consegnare definitivamente il ruolo di regina delle battaglie, dalla fanteria di epoca classica alla cavalleria romano-orientale e medievale. In campo militare costituirà la più importante delle innovazioni, poiché garantendo maggior stabilità, permetterà  movimenti più complessi e articolati. Infatti il cavaliere poteva finalmente utilizzare al meglio sia la lancia da carica sia l’arco, senza rischiare il disarcionamento per aveva mollato le briglie della cavalcatura. 


Dall’età feudale infine, l’importanza della fanteria decadde rispetto a quella della cavalleria, che da lì all'età moderna sarà l'elemento decisivo nelle battaglie.

Da https://www.albertomassaiu.it/il-miracolo-della-staffa/: IL MIRACOLO DELLA STAFFA, 15 marzo 2016: La data che la maggior parte degli storici assegnano al passaggio di consegne tra la legione di fanteria romana e la cavalleria è il 9 agosto del 378 dopo Cristo. Nella calda piana antistante alla città di Adrianopoli l’imperatore Valente affrontò con le truppe d’élite dell’Impero Romano d’Oriente un’orda di guerrieri goti. Disponeva di otto legioni, circa 40.000 fanti e 20.000 cavalieri, mentre da parte barbarica stavano 50.000 fanti e forse altrettanti cavalieri. Ma con un imperdonabile errore l’imprudente sovrano aveva mosso battaglia senza compiere le opportune azioni di esplorazione, lasciando così i fianchi scoperti. Quindi i goti che si trovò davanti erano solo i fanti, che immediatamente si barricarono nel loro accampamento, circondando tutto il perimetro con i carriaggi per poterli usare come un rudimentale bastione contro i superiori romani. L’orda a cavallo, che era uscita in cerca di rifornimenti, ritornò proprio nel momento peggiore, ovvero quando tutto l’esercito romano era impiegato in mischia contro i carri. Migliaia di cavalieri attaccarono gli imperiali sul fianco destro e da tergo, circondandoli e stritolandoli nel classico schema di incudine e martello, dove il primo erano i guerrieri goti dell’accampamento e il secondo la cavalleria avanzante. Fu una tremenda carneficina, dove le forze scelte romane vennero annientate completamente (40.000 caduti) e dove anche Valente e tutto il suo stato maggiore perse la vita. Da allora crebbe a dismisura l’impiego di contingenti barbari nell’esercito imperiale, che fu una delle tante cause di declino e infine della caduta dell’Impero e del mondo antico. Ma come fecero a prevalere questi popoli che per secoli erano stati puntualmente battuti dai romani?

Da parte mia sono sicuro che per quanto politicamente e storicamente devastante, il risultato di Adrianopoli non fu per nulla scontato, ma anzi si sarebbe di sicuro rivelato nettamente favorevole ai romani, ancora tatticamente e qualitativamente superiori, se Valente non avesse commesso dei madornali e scriteriati errori.
Nonostante questa premessa va detto che l’esercito sbaragliato quel 9 agosto non era più quello che possiamo immaginare, ma risultava piuttosto “imbarbarito”. Questo processo non va visto nell’ottica che è comunemente accettata negli attuali libri di storia. I romani avevano iniziato a immettere barbari nelle fila legionarie da almeno un secolo, per non parlare dei contingenti di ausiliari che erano sempre stati composti da non cittadini. Ma qualunque fosse la loro origine etnica, questa veniva azzerata dall’addestramento e dal comando, sempre monopolizzato da italici o da provinciali fidati, che rendevano le truppe di origine barbarica pari a quelle di origine romana.

Fin dalla crisi del III secolo, durante il periodo di anarchia militare iniziato con la scomparsa della dinastia dei Severi, l’esercito aveva avuto un tracollo. Questo era dovuto alla sua usura costante durante le guerre civili, non alla forza barbarica. Va detto infatti che quando i romani trovarono un forte leader, vedi Aureliano dal 270 al 275, riuscirono a schiacciare sia usurpatori, sia stati secessionisti come le Gallie o Palmira, sia barbari esterni come alemanni e goti. Un’altra prova della superiorità legionaria a dispetto dell’opinione degli storici filo-cavalleria si può notare ancora un secolo dopo. Nel 357 il cesare Giuliano, poi passato alla storia come Giuliano l’Apostata, sconfisse con una coalizione di popoli germanici guidata dagli alemanni presso Argentorarum.


Da questo episodio possiamo desumere due cose: la prima è la superiorità romana ancora intatta, infatti la vittoria fu ottenuta da 13.000 soldati imperiali contro un numero triplo di barbari; la seconda è l’assoluta sopravvalutazione della cavalleria come elemento fondamentale delle truppe di linea romane.
Infatti lo scontro iniziò con la rotta dei reparti tanto vantati di cavalleria catafratta (ovvero pesantemente corazzata), che abbandonò vergognosamente la pugna appena venne investita da una carica di guerrieri barbari. La battaglia venne decisa invece dai legionari delle pesanti coorti di fanteria, che, serrati gli scudi, prima respinsero le cariche degli avversari, poi gli incalzarono con spietata efficienza e infine li misero in rotta massacrandoli. Si dice che Giuliano abbia lodato pubblicamente i suoi eroici soldati, costringendo invece i cavalieri pesanti a sfilare per il campo vestiti da donna, come punizione per il loro comportamento tanto vigliacco.

Ma analizziamo più compiutamente quello che avevamo accennato a proposito dei cambiamenti avvenuti fin dal III secolo. Quello che voglio evidenziare è che l’esercito romano abbia per certo subito cambiamenti, ma il suo nucleo, l’essenza di forze di fanteria pesante, sia rimasto intatto almeno fino al definitivo tracollo che passa tra due eventi traumatici: Adrianopoli nel 378 in oriente e la caduta del limes renano nel 406 in occidente.

I generali romani di epoca imperiale avevano sempre un problema davanti a loro, ovvero come utilizzare le antiche legioni per garantire la sicurezza su tutti i confini, radunarle per affrontare i rivali nelle intermittenti guerre civili e infine riuscire anche ad utilizzarle per effettuare spedizioni punitive contro i nemici esterni che avevano saccheggiato qualche lembo di territorio dello Stato.
Un’intelligente soluzione venne trovata probabilmente fin dall’epoca dei primi imperatori, ma divenne sempre più popolare durante i momenti di maggior crisi istituzionale e militare, ovvero le vexillationes. Queste erano distaccamenti di uomini scelti presi da più legioni, che venivano utilizzati durante le campagne dai sovrani o dai comandanti romani. Molto spesso queste unità non tornavano più alla loro regione d’origine e diventavano dei nuclei di reparti mobili distaccati. A queste unità si tendeva sempre di più ad associare un alto numero di cavalieri, iniziando quel processo che doveva rendere questi reparti molto più mobili rispetto ad una legione standard.

I cavalieri sono sempre stati il tallone d’Achille dei romani. Fin dall’epoca repubblicana i loro contingenti erano reclutati prima presso i socii italici, poi presso gli alleati o i popoli sottomessi (esempi famosi sono stati i numidi o i galli). Lo strumento principe, quello dove militavano i giovani rampolli dell’aristocrazia dell’Urbe e che era l’unico degno di un vero cittadino, era la legione. Il suo bacino di reclutamento si allargò lentamente fino all’inizio del III secolo d.C., all’inizio riservato ai soli cives romani, poi inglobò tutti gli italici e infine anche i provinciali di comprovata fedeltà (come galli e africani). Con la Constitutio Antoniniana del 212 la cittadinanza venne estesa a tutti i cittadini liberi dell’Impero con l’obbiettivo di allargare le possibilità di tassazione, ma l’effetto più incisivo fu di declassare definitivamente l’arruolamento degli italici nell’esercito, in favore delle provincie. Segno distintivo di questo passaggio è l’aumento esponenziale di galli, illirici, africani, ispanici e orientali nelle legioni, nei quadri di comando superiori e infine sul gradino più alto della gerarchia romana, ovvero il soglio imperiale (da Massimino il Trace fino a Filippo l’Arabo).

Tra la fine del III e l’inizio del IV secolo salì al potere un illirico passato alla storia come l’ultimo grande persecutore di cristiani, Diocleziano, che riuscì, dopo decenni di guerre civili, a rimanere in sella abbastanza tempo (vent’anni, un vero record!) da poter ridare respiro all’esausta compagine imperiale. Qui non affronterò né la riforma fiscale da lui intrapresa, né l’importante esperimento della tetrarchia (fallita con Costantino, che spazzò via tutti i tetrarchi), ma mi limiterò ad analizzare con voi la sua ristrutturazione dell’esercito.

Come un attento lettore potrà presto notare, la base della riforma militare intrapresa da lui e poi proseguita da Costantino affondava le sue radici nell’istituto delle vexillationes, ma andiamo per gradi.
L’idea di base era quella di non presidiare più ogni singolo chilometro di confine imperiale, ma di spostare la visione strategica ad un concetto di difesa in profondità. Oramai per l’esercito romano risultava impossibile pattugliare e difendere efficacemente con pesanti legioni tutto il limes, lungo migliaia di chilometri, con il rischio di veder spazzate via truppe troppo isolate ed esposte solo per difendere qualche fattoria di confine.
Partendo da questo presupposto le truppe imperiali vennero divise sempre di più in due classi: le legioni che presidiavano permanentemente forti e strade di confine divennero una sorta di milizia di confine, i limitanei; le vexillationes divennero invece il nucleo, poi ingrandito con i reparti migliori delle legioni frontaliere e di contingenti scelti di cavalleria pesante e leggera, di armate mobili dette comitatenses, parola che deriva dal comitatus, ovvero il seguito del sovrano.
I limitanei divennero sempre di più delle truppe di contadini-soldato, utilizzati per pattugliare e presidiare i confini ma non addestrati a respingere grosse invasioni. Erano sempre più spesso reclutati tra la popolazione locale, non erano armati pesantemente e quasi sempre avevano famiglia nei villaggi adiacenti ai forti dove vivevano. I comitatenses erano al contrario il meglio dell’esercito delle epoche precedenti, rinforzato da contingenti di cavalleria e arcieri, e che agivano come un vero e proprio corpo d’armata mobile. Venivano stanziati più all’interno delle province, di frequente in grandi città, ed entravano in azione quando i limitanei non riuscivano a respingere da soli l’incursione nemica. Nel sistema di Diocleziano e Costantino vennero istituite all’incirca quattro grandi armate di comitatenses: una in Gallia, una nel settore danubiano e due in oriente. L’armata distrutta ad Adrianopoli dai goti era il meglio delle forze comitatenses di tutto l’oriente, quindi si può comprendere l’entità del disastro che investì Roma dopo una tale perdita. In tutti questi cambiamenti le legioni non sparirono, ma subirono un processo di ristrutturazione volto ad adattarle alle nuove esigenze militari. Nei registri militari dell’epoca risultano infatti molti nomi delle legioni più antiche e gloriose e inoltre ne vengono nominate anche moltissime altre di nuova denominazione, cosa che a primo acchito farebbe pensare ad un aumento esponenziale degli effettivi dell’esercito!

Questo è uno dei motivi per i quali molti storici sbrigativi hanno affermato, facendo calcoli basati sul testo della Notitia Dignitatum (una sorta di elenco di tutte le forze imperiali della fine del IV secolo), che le forze romane potevano annoverare oltre 650.000 uomini tra oriente e occidente agli inizi del V secolo. La Notitia, per quanto sia effettivamente un documento redatto dalla Cancelleria Imperiale di quel periodo, presenta due ordini di problemi:

Le legioni del tardo impero non erano più composte da 5/6.000 uomini come all’epoca di Augusto o Traiano, bensì da non più di 1.500 (numericamente erano simili alle vexillationes del II-III secolo).
I funzionari della Cancelleria Imperiale non erano esperti militari e in secondo luogo (e questo problema l’hanno purtroppo tramandato ai nostri burocrati) avevano la tendenza a gonfiare le cifre e a non controllare bene tutti i dati e i documenti che inserivano nella Notitia (ad esempio molte legioni citate erano scomparse da tempo).
Forse una cifra maggiormente realistica potrebbe oscillare sui 300.000 uomini, che d’altro canto erano più o meno i soldati di cui necessitava Augusto tre secoli prima.
Inoltre era cambiata un’altra cosa, infatti, come abbiamo accennato più volte precedentemente, il rapporto fanti-cavalieri si stava sempre più spostando dalla netta sproporzione nei confronti dei primi verso un riequilibrio tra le due armi.

Alla cavalleria più antica, che serviva per operazioni di esplorazione, pattugliamento e disturbo, si stava sempre più associando quella di un altro tipo, finalizzata a cercare l’urto e lo sfondamento dei ranghi avversari. Copiando le formidabili truppe a cavallo persiane, sia corazzate sia equipaggiate come arcieri montati, che erano tanto temute nelle guerre in oriente, nacquero i reparti di catafracti e clibanarii, truppe a cavallo dotate di pesanti armature sia per gli uomini sia per i cavalli.

Queste unità vennero utilizzate molto spesso fin dall’epoca dei costantinidi, sia nelle loro guerre civili sia nelle lotte contro i barbari, alternando momenti di grande valore ad altri con infime prestazioni (come ad Argentorarum). Di sicuro Valente poteva disporre di diverse unità di questo tipo nella sua armata annientata ad Adrianopoli. Quale era il pregio di questi soldati? In primis la mobilità, che si sposava perfettamente con la strategia incentrata sulle armate di manovra, oramai cardine del sistema difensivo imperiale; inoltre va sottolineato che cento uomini a cavallo corazzati potevano prevalere su molti più fanti, soprattutto se armati alla leggera e poco disciplinati come molti barbari (la proporzione nel Medioevo diverrò di dieci a uno, ovvero un solo cavaliere bardato prevaleva su dieci contadini armati malamente).

Con i due momenti traumatici del 378 e del 406 questo sistema militare si avviò verso il tramonto. Le forze comitatenses, travolte non per loro demeriti o deficienze ma per la mancanza di una guida autorevole (Valente per la prima data e l’imbelle Onorio per la seconda), vennero sempre più spesso rimpiazzate da contingenti barbari che non venivano più addestrati “alla romana”, ma tendevano a combattere alla maniera dei loro avi, chi con l’ascia e la lancia a piedi come franchi e alemanni, chi a cavallo come goti e più tardi gli unni.

La fanteria legionaria scomparve definitivamente in occidente nei fatti che seguirono la caduta del limes renano nel fatale inverno del 406, mentre in oriente declinerà lentamente, mentre gli eserciti di Costantinopoli verranno sempre più composti da cavalieri pesanti o dotati d’arco (con molti barbari, goti e unni, almeno fino a Giustiniano).

Ma elemento fondamentale che rivoluzionerà del tutto il mondo militare tardo-antico e medievale è l’avvento della staffa. Sarà questo semplicissimo strumento, ovvero un cerchio metallico a fondo piatto che pende ai lati della sella e nel quale il cavaliere può riporre il piede, a consegnare definitivamente il ruolo di regina delle battaglie dalla fanteria di epoca classica alla cavalleria medievale.
In campo militare costituisce la più importante delle innovazioni perché garantendo maggior stabilità permetteva movimenti più complessi. Infatti il soldato poteva finalmente utilizzare al meglio sia la lancia da carica sia l’arco, senza rischiare il disarcionamento perché aveva mollato le briglie della cavalcatura. Fin dall’epoca della invitta cavalleria macedone di Alessandro i suoi uomini avevano avuto l’immenso gap operativo di dover controllare le bestie solo con le ginocchia mentre andavano alla carica, rischiando comunque al momento dell’urto con il nemico di essere sbalzati di sella. La staffa risultò quindi come un immenso vantaggio per il popolo che ne fece uso. Questo strumento venne inventato in India nel II secolo d.C. e probabilmente venne visto per la prima volta in Europa durante le invasioni barbariche, forse portato dagli unni, che erano formidabili arcieri a cavallo.
Nei secoli appena successivi alla caduta di Roma probabilmente questo mezzo venne dimenticato nuovamente tranne che in oriente, dove Bisanzio prosperò e anzi riformò tutto il suo esercito, abbandonano le grandi e pesanti legioni di fanteria per più veloci e specializzate truppe di cavalieri dotate di archi, lance da carica e armature. Nell’Europa occidentale riapparve e si affermò definitivamente con le invasioni degli arabi nell’Alto Medioevo (VII-VIII secolo), permettendo alla dinastia carolingia di equipaggiare molti contingenti di cavalleria pesante che formeranno la crema dell’esercito con il quale Carlo Magno sottomise mezza Europa tra la fine dell’VIII e l’inizio del IX secolo. Per l’anno mille la cavalleria pesante era considerata il reparto più temuto di ogni armata medievale, e in genere chi disponeva di un maggior numero di cavalieri prima metteva in rotta o catturava i corrispettivi avversari per poi massacrare i poveri contadini reclutati a forza per comporre le unità di fanteria. Si dovranno aspettare gli archi lunghi inglesi, le picche svizzere e i primi archibugi per rivedere vittorie ottenute con l’apporto fondamentale della fanteria (con rarissime eccezioni).

Ma ora analizziamo i diversi casi che, tra il V e il XV secolo, resero famosa la cavalleria. Infatti questo non è un percorso perfettamente lineare, anzi ebbe diverse oscillazioni a seconda dei popoli che la adottarono nei propri eserciti, dei suoi usi e del suo armamento.

Analizzeremo assieme il cavaliere unno, molto simile ai mongoli (entrambi popoli delle steppe), che era capace sia di prodezze immani con l’arco, sia di grande capacità d’urto mediante reparti più pesanti; poi c’è il cavaliere bizantino, un’unità altamente specializzata che al massimo del suo splendore era superiore agli unni e agli avari, popoli ai quali si era ispirato, sia con l’arco sia con la lancia; ancora il cavaliere barbaro e quello arabo delle prime conquiste islamiche avevano in comune l’armamento non eccessivamente pesante che era però controbilanciato dalla grande forza combattiva e dall’impeto che mettevano nelle loro cariche non troppo disciplinate ma molto vigorose; poi abbiamo l’evoluzione del tipico cavaliere europeo, dagli albori con Carlo Magno fino alle compagnie di ventura del XV secolo.

Partiamo dalla prima di queste distinzioni, ovvero il cavaliere unno. In sé il cavaliere unno non era molto dissimile dai popoli di cavalieri della steppa che lo precedettero (sciti) e da quelli che gli succedettero (avari, bulgari, ungari, peceneghi, cumani e infine mongoli). La ragione della loro singolarità stava nell’adozione di piccoli destrieri di origine mongola, molto più resistenti di tutti gli altri cavalli che avevano conosciuto i romani, cosa che permise loro di superare distanze e problemi logistici che per ogni esercito imperiale erano considerati insormontabili. Inoltre erano abilissimi sia con l’arco, sia con la spada, sia con un laccio che, come i lazos dei cowboy dell’ottocento, gli permettevano di bloccare e catturare i nemici. La tattica era abbastanza standardizzata, oramai interiorizzata da ogni unno come elemento ancestrale di appartenenze alla propria stirpe e affinata da secoli di lotte tra le steppe. L’attacco veniva sferrato con rapide bordate di frecce scagliate dai potentissimi archi compositi ricurvi, che potevano uccidere da grandi distanze. Se il nemico non attaccava subiva un gran numero di perdite da lontano, e se attaccava non era comunque in grado di entrare in contatto con gli avversari. In più, se durante la carica scompaginava i suoi ranghi, si esponeva alle formidabili cariche degli unni, che in pochi decisivi attimi si ammassavano e attaccavano i punti dove lo schieramento nemico si era indebolito o si stava riorganizzando, facendo una strage con le loro sciabole. Per un esercito non preparato a questo metodo di combattimento gli effetti dovevano essere devastanti. I popoli barbari, ognuno specializzato in un determinato approccio bellico, vennero tutti sottomessi da questo popolo dotato di un immenso vantaggio sia tattico che strategico. I romani, dotati invece di immense risorse e di un potere più accentrato, poterono pian piano assorbire l’effetto di questa magnifica risorsa bellica. Prima trattando con gli unni o reclutandoli nelle fila dei loro eserciti (Giustiniano si doterà di forti contingenti unni nelle armate che riconquisteranno l’Africa, l’Italia e la Spagna meridionale nel VI secolo), poi copiando il loro sistema di combattimento e creando dei reparti scelti che univano al vantaggio delle armi unne la disciplina e l’organizzazione dell’esercito romano.
L’unica debolezza di questo popolo fu quella di non aver mai fatto due passi fondamentali: per prima cosa non prestarono mai attenzione all’assorbimento delle capacità dei popoli conquistati, ad esempio l’abilità dei fanti germanici o le conoscenze d’assedio romane (infatti le grandi città caddero raramente anche se davanti avevano forze unne soverchianti); come seconda non crearono mai un sistema di burocrazia e di gestione del loro impero tale da reggere alla morte dei loro leader più carismatici (l’impero di Attila si estinse dopo una sola battaglia, quella di Nedao nel 454, un anno dopo la sua morte).

Queste due deficienze vennero superate dal popolo delle steppe che seppe creare il più grande impero della storia (nel XIII secolo contava trentasei milioni di km², con cento milioni di sudditi), i mongoli.

Gengis Khan, che vuol dire per l’appunto “Sovrano Universale” (il suo vero nome era Temujin), dopo aver unificato i mongoli e aver riorganizzato l’esercito con un sistema estremamente sofisticato ed efficiente, lanciò una serie di campagne di conquista che lo portarono a conquistare mezza Cina e buona parte dell’Asia centrale prima della sua morte. Inoltre seppe creare un sistema di governo accentrato formidabile, una rete viaria e una burocrazia tale (usando i molto più esperti cinesi) che l’impero non solo sopravvisse, ma si allargò per tutto il XIII secolo, fino all’estensione spropositata già citata, che andava dall’Oceano Pacifico all’Ungheria, dall’India settentrionale fino alla Russia, dalla Palestina fino alla Corea. Anche il cuore dell’esercito mongolo era composto da reparti di formidabili arcieri a cavallo, a cui si aggiungevano contingenti di lancieri pesantemente corazzati che potevano rivaleggiare con i cavalieri europei. Inoltre seppero sfruttare bene le abilità dei popoli conquistati per ovviare ai loro deficit, come l’organizzazione statale e le conoscenze ossidionali cinesi, cosa che rese i mongoli anche molto efficienti nel conquistare (e poi radere al suolo fino alle fondamenta) le città.
L’ordinamento dell’esercito era basato sul sistema decimale: una divisione, composta da diecimila uomini, era detta tumen, a sua volta suddivisa in dieci reggimenti (mingham) da mille soldati, suddivisi ancora in squadroni da cento (jagun) e infine da compagnie da dieci (arban). La più potente unità dell’esercito era il Keshik, la guardia imperiale, composta da diecimila effettivi che rimanevano sempre sotto le armi anche in tempo di pace ma in compenso avevano prestigio e privilegi superiori anche ai comandanti superiori delle unità regolari.
La disciplina era severissima, il sistema di comando intuitivo ed efficiente, il dinamismo era la parola d’ordine ed erano inoltre dotati di una resistenza sconosciuta agli avversari (molto simile a quella unna). La loro maggior capacità di adattamento rispetto agli altri popoli delle steppe permise loro di creare un immenso impero multietnico e multi-religioso che scomparve del tutto solo nel XVIII secolo, con la fine degli ultimi eredi dei numerosi Stati da loro fondati in tutta l’Asia. In quanto alla tattica in battaglia questa era molto simile a quella già citata per gli unni, a cui si aggiungevano le maggiori capacità di assedio e logistiche che li rendevano un esercito quasi invincibile (tanto che subì le prime sconfitte solo in grande inferiorità numerica e contro avversari che oramai conoscevano le tattiche mongole).

Passiamo ora al cavaliere bizantino, unità che aveva preso spunto dalle innovazioni portate dai numerosi popoli della steppa che vennero in contatto con Costantinopoli, dagli unni fino ai turchi selgiuchidi.

Nell’Impero Romano d’Oriente, una volta caduta la parte occidentale, non si era perso lo spirito della romanità e gli imperatori avevano anzi puntato molto sull’esercito, proseguendo nella strada tracciata dai loro predecessori e apportando modifiche sostanziali e originali che rivoluzioneranno l’esercito tardo-romano.
Andando oltre la vecchia concezione delle truppe comitatenses, formate da fanti pesanti e cavalieri e ancora finalizzate allo scontro frontale e all’annientamento del nemico, si decise a varare una coraggiosa rivoluzione tattico-strategica. Il cuore dell’esercito divennero sempre di più dei reparti d’élite che agivano come gli arcieri a cavallo unni. Queste truppe, oltre all’abilità con l’arco, erano dotate di corazza e lancia per la carica, cosa che le rendeva estremamente versatili. Naturalmente l’arciere/lanciere a cavallo bizantino non era abile quanto un unno con l’arco (il secondo veniva addestrato fin dalla nascita al tiro e viveva in simbiosi con il cavallo), ma con un durissimo allenamento poteva cavarsela egregiamente contro questi avversari e prevaleva nettamente contro tutti gli altri barbari. In più la maggior bardatura, la possibilità di agire come una forza d’urto, la ferrea disciplina e l’ottima organizzazione pareggiavano i conti con la superiorità “genetica” dei temuti predoni della steppa.
Di sicuro la trasformazione non fu ne indolore, ne semplice. Gli estimatori del vecchio sistema legionario pensavano che non fosse onorevole un combattimento basato più sulla schermaglia che sull’urto, il passo cadenzato e il rullo di tamburi in campo aperto. Procopio di Cesarea, storico del VI secolo, difese così il nuovo sistema: “Vi sono quelli che chiamano i soldati dei tempi odierni gli arcieri, e quelli dei tempi antichi ai quali vogliono attribuire qualifiche elevate come soldati da corpo a corpo, scudieri e altri titoli simili. Ritengono che il valore di quei tempi non sia sopravvissuto fino ad oggi. Ma c’è da dire che gli arcieri derisi da Omero non si muovevano a cavallo ne si proteggevano con scudi e lance. In realtà essi non portavano addosso alcuna protezione; e non potevano partecipare ad una battaglia decisiva in campo aperto. Gli arcieri di oggi scendono in campo corazzati di giustacuori che coprono loro il petto e la parte alta del dorso e indossano schinieri alti fino al ginocchio. Portano le frecce appese al fianco destro e sull’altro lato la spada. E alcuni hanno anche la lancia”. La scelta di cambiare tecniche di combattimento fu probabilmente dovuta ad un accorto ragionamento. La legione era tutta incentrata sull’annientamento dell’avversario, sulla conquista di posizioni fortificate, sulla ricerca dello scontro decisivo. I bizantini avevano però capito, dopo oltre un secolo di invasioni barbariche, che quel sistema non era più adatto alla difesa o che comunque risultava troppo oneroso. Gli invasori barbari o i predoni a cavallo non offrivano un bersaglio netto e preciso per i reparti di fanteria pesante, infatti in genere si dedicavano più al saccheggio e alla scorreria. Gli arcieri/lancieri bizantini erano perfetti per rintuzzare queste azioni e nel caso effettuare rapide spedizioni punitive contro i loro accampamenti. Oltretutto lo scacchiere danubiano, una delle due aree “calde” delle frontiere imperiali (l’altra era il confine con la Persia), era sempre più caratterizzato da invasori che non combattevano a piedi o a cavallo come i goti, i franchi o gli alemanni, ma quasi esclusivamente da popoli di arcieri a cavallo nomadi, che sarebbero risultati un bersaglio imprendibile per una disciplinata, ma lenta, legione romana. Come ulteriore argomento da aggiungere a questa tesi, va sottolineato quello che ho già accennato precedentemente: il cavaliere era oramai diventato qualitativamente superiore al fante e costava meno. Mi spiego meglio: un operazione compiuta da soli cavalieri si poteva effettuare più rapidamente, con meno sforzi logistici e soprattutto impiegando meno soldati. Farò due esempi per avvalorare la mia tesi: nel 533 al generale Belisario bastarono 10.000 fanti (eredità delle legioni e mercenari barbari) e 5.000 cavalieri (i nuovi arcieri bizantini e alcuni reparti di unni) per conquistare tutto il regno vandalico (che poteva schierare decine di migliaia di guerrieri), cosa che meno di un secolo prima non era riuscita a ben due spedizioni romane condotte con effettivi almeno quattro o cinque volte superiori; nel 535, quando prese Roma ai goti, venne assediato da un numero preponderante di nemici che volevano riprendere la città. Un giorno mandò a fare una sortita un reparto di duecento arcieri a cavallo, che quando ritornò all’imbrunire dentro la città aveva inflitto alcune migliaia di caduti agli assedianti senza subire una sola perdita.
La miglior prova si questo nuovo tipo di truppa però lo possiamo riscontrare nelle guerre contro gli avari, ennesimo popolo delle steppe a rovesciarsi nell’Europa orientale. Tra il 580 e il 590 e soprattutto sotto l’Imperatore Maurizio (582-602), l’esercito bizantino addestrato secondo i nuovi dettami diede gran prova di sé, contenendo e sconfiggendo ripetutamente questi nemici che non dovevano essere troppo dissimili dagli unni.
Ultima annotazione: questo tipo di unità è da considerare d’élite, come tale necessitava di un continuo addestramento e di una forte volontà del potere centrale a mantenere un alto grado di efficienza delle truppe. Per questo che, in momenti di debole leadership o di un periodo di pace troppo lungo, questo sistema tendeva a svalutarsi. Questo infausto evento si verificò dopo la morte di Basilio II nel 1025 e il successivo periodo di congiure, rivolte e imbelli imperatori, che furono la causa principale del repentino collasso del complesso difensivo imperiale sotto l’assalto dei turchi selgiuchidi e la sconfitta di Manzikert del 1071.

Ma ora abbandoniamo il teatro di guerra bizantino per spostarci ad ovest, andando a studiare lo strumento principe degli eserciti medievali dell’Europa occidentale, il cavaliere pesante. Di sicuro l’antenato del cavaliere feudale dell’anno mille è il guerriero montato di epoca carolingia. I franchi infatti, dall’epoca in cui erano famosi per i fanti armati d’ascia, si erano pian piano riconvertito all’uso di forti contingenti a cavallo armati e bardati pesantemente. Dalle fonti degli storici dell’epoca sappiamo che il popolo franco, insediatosi nella Gallia romana fin da quel fatidico 406, basò tutta la sua fase di affermazione e conquista degli altri barbari (burgundi, alemanni, sassoni e visigoti) della regione sulla sua resistente fanteria e questo modo di fare la guerra rimase in uso almeno fino a Carlo Martello. Questi era il maggiordomo di palazzo dei sovrani merovingi del regno franco. Gli ultimi sovrani erano passati alla storia come re fannulloni, tanto che vennero rimpiazzati dalla famiglia dei loro primi ministri, ovvero Carlo e suo figlio Pipino. Probabilmente è merito del loro operato se i franchi si convertirono alla cavalleria pesante, introducendo nei loro eserciti la staffa e l’uso di poderose cariche di cavalieri corazzati. Nel 732, nella battaglia di Poitiers, quella che insieme alla difesa di Costantinopoli ad oriente (717-718) respinse la marea musulmana e preservò l’Europa cristiana, questo processo doveva essere appena iniziato o ancora in fase di progettazione. Infatti il contributo della cavalleria, a parte l’intervento del duca d’Aquitania Oddone fu minimo, mentre lo scontro fu deciso dalla solidità del muro di scudi, lance e spade che la fanteria pesante franca, sassone, frisona e bavara oppose alle cavallerie leggere e ai guerrieri musulmani.

I cronisti arabi parlarono di uno scontro contro un muro di ghiaccio, dove gli uomini del nord li aspettarono in un raggelante silenzio, immobili come statue fino all’urto, quando estrassero le spade e calarono le asce sui molto meno corazzati nemici. Altra prova della mancanza di cavalleria franca è che non fu effettuato un vero e proprio inseguimento dei nemici, che vennero lasciati ritornare in Spagna indisturbati.
Quindi probabilmente gli anni tra il 732 e il 771 circa devono essere stati fondamentali, ma purtroppo sono anche poco conosciuti agli storici, tranne le invasioni dell’Italia effettuate da Pipino, in sostegno del Papa, tra il 755 e il 766.

Anche l’entità numerica degli eserciti utilizzati da Carlo Magno nelle sue guerre di conquista non è purtroppo certa, ma siamo ragionevolmente sicuri che oltre ad una buona fanteria potesse schierare un nucleo di diverse migliaia di cavalieri. Ma come mai i franchi adottarono questo tipo di contingente così lontano dal loro modo di fare la guerra? La risposta potrebbe essere ricercata nelle nuove esigenze militari di un regno che stava diventando sempre più simile ad un impero europeo. Era passato molto tempo da quando i franchi erano una semplice confederazione di tribù che agiva come foederata dell’Impero Romano. Fin dai tempi di re Clodoveo (VI secolo) avevano conquistato Parigi ed esteso i loro confini in tutte le direzioni, sia a sud, sia ad est.

Da quando si erano convertiti in massa al cristianesimo erano in breve diventati strenui difensori della Chiesa e utilizzavano questo mezzo come efficiente propaganda e utile casus belli contro le altre tribù germaniche rimaste pagane come i sassoni. La forte ma lenta fanteria franca non garantiva più un sistema efficace a rendere sicura tutta la frontiera, infatti non era abbastanza numerosa a livello locale e ci metteva troppo tempo a radunarsi in numero tale da respingere grosse invasioni. Al contrario un sistema basato su gruppi più ristretti, maggiormente corazzati e montati a cavallo poteva reprimere in fretta rivolte, scacciare incursori esterni e nel caso fornire la punta di diamante degli eserciti di linea franchi. L’apparato era molto semplice e intuitivo: il re concedeva terre e proventi a uomini di sua fiducia, che amministravano la giustizia, riscuotevano tasse e difendevano la regione a livello locale; in cambio questi privilegiati dovevano andare in guerra armati di tutto punto quando il signore li chiamava, molto spesso portandosi appresso un seguito di cavalieri pesanti e un numero maggiore di attendenti, servi e contadini arruolati con la leva stagionale. Era nato il sistema feudale!
Naturalmente le zone più ricche e quelle più esposte ad attacchi erano quelle più ambite dai nobili, dato che le prime erano dotate di maggiori proventi, le seconde di un maggior numero di soldati sotto il controllo del signore provinciale. Abbiamo già parlato del declino della qualità della fanteria, che con l’affermarsi di questo nuovo sistema si accentuò sempre di più. I fanti, un tempo capaci – come abbiamo visto a Poitiers – di resistere agli assalti di orde di cavalieri, scomparvero e vennero rimpiazzati da leve stagionali contadine o nei migliori casi cittadine. Queste erano male armate e peggio motivate e venivano di regola messe in rotta dalla cavalleria che risultava vincente nello scontro contro la sua controparte. Insomma, chi schierava più cavalieri vinceva! E Carlo, per tutta la durata del suo lungo e prospero regno, ne poté schierare sempre di più.

Ma facciamo un balzo di un secolo e mezzo e analizziamo la cavalleria altomedievale al suo apice. Siamo vicini all’anno mille e per l’Europa non è un bel periodo: l’impero di Carlo Magno si è spezzato ed è dilaniato dalle guerre civili, il suo ultimo discendente diretto si è spento senza eredi nel X secolo e nuovi e vecchi nemici premevano alle frontiere. I vichinghi dai mari del nord, i saraceni da quelli del sud e i magiari dalle pianure dell’est. Questi ultimi esponenti di una lunga serie di predoni a cavallo della steppa che avevano invaso l’Europa fin dall’epoca degli unni e antenati dell’odierna nazione ungherese, si erano insediati per l’appunto nelle pianure della Pannonia e da li saccheggiavano indiscriminatamente Germania, Italia, Polonia e perfino Francia. Le loro erano grandi incursioni più che opere di conquista e in questo rispecchiavano il classico modus operandi di queste stirpi altaiche.
Nel 936 salì al potere in Germania Ottone, uomo dall’immensa ambizione e in possesso di tutte le doti e la abilità per soddisfarla. Voleva ricreare il potere perduto dei carolingi, instaurando un Sacro Romano Impero che avrebbe compreso sia la Germania, sia l’Italia. Per farlo dovette affrontare le numerose rivolte dei suoi feudatari e perfino del suo stesso figlio, ma dopo due decenni di lotte era abbastanza sicuro da poter concentrare le forze per risolvere una volta per tutte il problema ungaro.
Nel 955 un orda di forse 50.000 magiari entrò in terra tedesca e si diede al saccheggio della Baviera, assediando la città di Augusta. Ottone decise di affrontarli, riunì tutti i suoi feudatari e marciò verso il nemico.
Il re non disponeva di non più di 10.000 uomini, ma tutti erano cavalieri pesanti, mentre i magiari erano per la maggior parte arcieri a cavallo e molti non erano per nulla preparati alla mischia. A Lechfeld, dove le due armate si scontrarono, fu una travolgente vittoria germanica. Infatti i magiari, contando sulla superiorità numerica, avevano distaccato un grosso contingente affinché attaccasse da tergo i tedeschi, mentre il grosso della truppa avrebbe dato il colpo di grazia frontale una volta che i ranghi nemici sarebbero stati scompaginati dai lanci di frecce. Il piano iniziò bene, infatti il reparto ungaro mise quasi in rotta la retroguardia di Ottone, ma per problemi di coordinamento i magiari non attaccarono in quel momento, dando il tempo al sovrano di mandare rinforzi nelle retrovie, massacrare il contingente nemico e rischierare tutti i suoi cavalieri in un unico fronte davanti ai magiari. A questo punto gli invasori erano ancora superiori almeno di tre a uno, se non di più, ma vennero investiti dalla carica dei cavalieri di Ottone prima di poter agire. Il terreno di Lechfeld avvantaggiava le truppe di cavalleria che vi operavano, ma allo stesso tempo non era così ampio da permettere le strategie elusive degli arcieri a cavallo della steppa, che provarono per la prima volta l’attacco irresistibile di una schiera pesantemente bardata di uomini a cavallo. Gli ungari poterono lanciare una sola bordata di frecce, ma questa venne per lo più bloccata dagli scudi levati dei tedeschi, poi fu un massacro. I cavalieri germanici spinsero l’orda nemica verso il fiume, dove la annientò con tutta calma. Si dice che solo un quinto degli invasori ritornò a casa in seguito ai giorni di spietato rastrellamento che seguirono la battaglia vittoriosa, effettuati dagli uomini di Ottone e dai contadini locali, esasperati da decenni di ruberie ungare.

Cosa è successo quel 10 agosto? Come mai la tanto consolidata cavalleria leggera nomade era stata sconfitta? Fino ad allora, la sua mobilità e la sua capacità di attaccare il nemico a distanza con potenti archi compositi le aveva dato la qualifica di strumento praticamente invincibile in campo aperto. Le sue sconfitte erano state pochissime, tutte dovute ad un nemico diventato in quella tecnica bravo come loro (vedi i bizantini) oppure in seguito a particolari condizioni (nella battaglia di Nedao gli unni vennero sconfitti perché la pioggia rese inutilizzabili i loro archi e meno mobili le loro forze a cavallo).

A Lechfeld si trovarono di fronte a tre ordini di problemi: in primo luogo le condizioni atmosferiche umide e forse le piogge estive tedesche avevano reso meno efficaci i loro archi (l’umidità rovina i collanti animali che rendono tanto potente l’arco composito); in secondo luogo la posizione scelta, che in un pianoro con a fianco un fiume e probabilmente molti boschi non ha permesso la consueta agilità nomade; infine l’abilità di Ottone e la potenza della cavalleria pesante germanica, che agiva come un rullo compressore se le si dava un terreno senza ostacoli, un nemico che lo aspetta frontalmente senza lance o picche e il tempo di organizzare bene la carica (tutte condizioni che i magiari furono tanto gentili da concedere loro).

"Battaglia di Legnano" di Amos Cassoli (1860-70).
Firenze, Galleria d'arte moderna di palazzo Pitti.

In genere queste saranno le condizioni che la cavalleria pesante cercherà sempre di ottenere durane le battaglie, riuscendo a prevalere per tutti i secoli fino al tardo medioevo. Solo l’avvento di fanterie specializzate nel XIV secolo inizierà ad incrinare questo predominio, portando prima ad un declino del classico cavaliere corazzato, poi ad una rivoluzione, sia nel suo armamento, sia nel suo utilizzo in battaglia. Ma la scomparsa definitiva degli uomini a cavallo dai campi di battaglia non avverrà con la comparsa di archibugi e cannoni, ma solo quando appariranno i nuovi “cavalieri pesanti” dell’Era Moderna: carri armati e cacciabombardieri!            Alberto Massaiu


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