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lunedì 26 gennaio 2015

Scoperta la calamita cosmica più potente: Magnetar SGR 0418+5729

Magnetar SGR 0418+5729 e il suo
campo magnetico.
È la calamita cosmica più potente mai scoperta nell’universo. Si tratta di una stella a neutroni (il nome in codice è SGR 0418+5729) scovata a 6.500 anni luce dalla Terra con il satellite Xmm-Newton dell’Agenzia spaziale europea (Esa) da un gruppo di dodici astronomi appartenenti a istituzioni italiane (Istituto universitario di studi superiori di Pavia-Iuss, Istituto nazionale di astrofisica-Inaf, Università di Padova, Istituto nazionale di fisica nucleare-Infn) ed europee (University College di Londra, Cea francese, Institut de Ciencies de l’Espai di Barcellona).
Le stelle a neutroni caratterizzate da forti campi magnetici sono state battezzate magnetar dagli astrofisici Robert Duncan e Christopher Thompson che le hanno scoperte oltre vent’anni fa, e complessivamente se ne conoscono una ventina.
“Negli ultimi decenni la teoria delle magnetar è stata confermata da diverse osservazioni, ma nessuno prima d’ora, era riuscito a misurare direttamente l’intensità del campo magnetico di questi oggetti celesti”, commenta Andrea Tiengo, dello Iuss di Pavia e dell’Inaf, primo firmatario del risultato pubblicato dalla rivista britannica “Nature”.
Magnetar con l'ingrandimentodell regione che ha fatto
registrare il campo magnetico conosciuto più intenso
dell'universo. Clicca per ingrandire.
Tutte le stelle, quando finiscono di bruciare il loro combustibile nucleare si spengono, ma in un modo differente a seconda della loro taglia: quelle che hanno una massa da 10 a 25 volte superiore al nostro Sole si trasformano in stelle a neutroni, cioè la loro materia collassa e la dimensione si rimpicciolisce arrivando ad appena una ventina di chilometri di diametro.
Con il satellite europeo gli astronomi sono riusciti a misurare la frequenza dei raggi X emessi da SGR 0418+5729, che è legata alla frequenza delle particelle che si muovono nel campo magnetico, la quale a sua volta rivela l’intensità del campo magnetico.
Il valore registrato è enorme, un milione di miliardi di Gauss, quando il campo magnetico della Terra è inferiore a 1 Gauss.
Magnetar CXO J164710.2-455216
nell'ammasso stellare Westerlund 1
Clicca per ingrandire.
Sarebbero proprio le magnetar con forti campi magnetici a essere all’origine di alcune potenti esplosioni cosmiche registrate nel tempo e persino in grado di disturbare le comunicazioni terrestri pur avvenendo in luoghi molto lontani, a migliaia di anni luce.
In scala minore ciò avviene anche sul nostro Sole, irradiando fiumi di particelle che investono la Terra provocando talvolta qualche guaio.

Campo magnetico della Magnetar nata dall'esplosione
della supernova gamma2 Velorum (Regor) situata
a circa 1250 anni luce da noi (S. Bowers)


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I buchi neri esistono... eccome!

Buco nero gigante rilevato nella
galassia ellittica M87, il più grande
conosciuto per ricerca diretta. Dista
50 milioni di anni luce.
Le equazioni della gravità di Einstein sono alla base della moderna teoria dei buchi neri; per ironia della sorte, egli le utilizzò per dimostrare che simili oggetti non possono esistere.

Orizzonte degli eventi - All'interno dell'orizzonte degli eventi tutti i percorsi portano la particella più vicino al centro del buco nero. La particella non può più sfuggire.
La caratteristica distintiva di un buco nero è la comparsa di un orizzonte degli eventi -un confine spazio- temporale attraverso il quale la materia e la luce possono passare solo verso l'interno del buco nero. Nulla, nemmeno la luce, può sfuggire dall'orizzonte degli eventi. L'orizzonte degli eventi è indicato come tale, perché se un evento si verifica entro i suoi confini, le informazioni da tale evento non possono raggiungere un osservatore esterno, rendendo impossibile determinare se si sia effettivamente verificato. Come predetto dalla relatività generale, la presenza di una massa deforma lo spazio-tempo in modo tale che i percorsi seguiti dalle particelle piegano verso la massa del buco. All'orizzonte degli eventi di un buco nero, questa deformazione diventa così forte che non esistono percorsi per sfuggire al buco nero. Per un osservatore distante, un orologio vicino a un buco nero sembra ticchettare più lentamente rispetto a quelli più lontani dal buco nero. A causa di questo effetto, noto come dilatazione temporale gravitazionale, un oggetto che cade in un buco nero sembra rallentare come si avvicina l'orizzonte degli eventi, impiegando un tempo infinito per raggiungerlo. Allo stesso tempo, tutti i processi attivi su questo oggetto rallentano, dal punto di vista di un osservatore esterno fisso, provocando un effetto noto come redshift gravitazionale. Infine, in prossimità dell'orizzonte degli eventi, l'oggetto in caduta emette così poca luce che non può più essere visto. D'altra parte, un osservatore in caduta in un buco nero non nota nessuno di questi effetti mentre attraversa l'orizzonte degli eventi. Secondo il suo personale orologio, attraversa l'orizzonte degli eventi dopo un tempo finito senza notare alcun comportamento singolare. In particolare, non è in grado di determinare esattamente quando lo attraversa, come è impossibile determinare la posizione dell'orizzonte degli eventi da osservazioni locali. La forma dell'orizzonte degli eventi di un buco nero è sempre approssimativamente sferica. Per buchi neri non rotanti (statici) la geometria è appunto sferica, mentre per i buchi neri rotanti la sfera è alquanto oblata.

Principio Olografico - Nel 1972, lo scienziato e astronomo Jacob Bekenstein si domandò cosa accade a un oggetto con entropia, ad esempio un gas caldo, quando varca l'orizzonte degli eventi: se essa scomparisse ciò comporterebbe una violazione del secondo principio della termodinamica, in quanto il contenuto aleatorio del gas scomparirebbe, una volta assorbito dal buco nero. La seconda legge può essere salvaguardata solo se si considerano i buchi neri come oggetti aleatori, con una enorme entropia, il cui incremento compensi abbondantemente l'entropia contenuta nel gas risucchiato. Il principio olografico trae origine dai calcoli effettuati sulla termodinamica dei buchi neri, che implicano che l'entropia massima possibile contenuta in una regione sia proporzionale alla superficie che racchiude la regione, non al suo volume, come ci si aspetterebbe (ovvero al quadrato del raggio, non al cubo). Nel caso specifico del buco nero, la teoria comporta che il contenuto informativo caduto nel buco nero sia interamente contenuto nelle fluttuazioni superficiali dell'orizzonte degli eventi. Nel 1981 il fisico Stephen Hawking sollevò il paradosso informativo, dovuto all'entropia e conseguente evaporazione dei buchi neri, da lui stesso calcolata per altra via a partire dalle fluttuazione quantistiche appena sopra l'orizzonte degli eventi; attraverso essa, sempre secondo Hawking, sarebbe scomparsa l'informazione intrappolata dall'orizzonte. Nel 1993 il fisico Leonard Susskind propose una soluzione del paradosso basata sul principio della Complementarità (mutuato dalla fisica quantistica), per cui il gas in caduta entrerebbe "o" non entrerebbe dentro l'orizzonte, a seconda del punto di vista: da un punto di vista esterno un osservatore vedrebbe le stringhe, ovvero i componenti più elementari del gas, allargare le loro spire fino ad abbracciare la superficie dell'orizzonte degli eventi, dove si manterrebbe tutta l'informazione senza alcuna perdita per l'esterno, nemmeno in conseguenza della successiva evaporazione, mentre, per un osservatore che seguisse il gas in caduta, l'attraversamento dell'orizzonte avverrebbe, e avverrebbe senza particolari fenomeni di soglia, in conformità al principio relativistico (primo postulato della relatività ristretta), verso la singolarità. Il principio olografico risolverebbe dunque il paradosso informativo, nel contesto della teoria delle stringhe.

03 febbraio 2014 - "Cos'ha detto (davvero) Stephen Hawking sui buchi neri" di Sabine Hossenfelder
Il clamore suscitato della recente affermazione di Stephen Hawking che i buchi neri non esistono nasce da un equivoco, e dalla confusione fra il concetto puramente matematico di buco nero, potenzialmente eterno, e quello fisico. Il primo potrebbe benissimo non avere alcun corrispettivo fisico, senza che ciò influisca minimamente sull'altro, la cui esistenza appare comprovata di Sabine Hossenfelder
A meno che non abbiate trascorso gli ultimi giorni dentro un buco vero e proprio, avrete probabilmente letto da qualche parte che Stephen Hawking ora sostiene che i buchi neri non esistono. Ero sul punto di chiudere gli occhi e lasciare che questa ondata di sciocchezze mediatiche mi passasse accanto, ma persino mia madre mi ha chiesto che cosa significava. Quindi, ecco la spiegazione in breve.
Si dice spesso che un buco nero è definito dalla presenza di un orizzonte degli eventi. L'orizzonte degli eventi è il confine di una regione da cui non può sfuggire alcuna informazione, mai. La parola decisiva è “mai”. L'orizzonte degli eventi è una proprietà matematicamente ben definita dello spazio-tempo, ma è solo un costrutto interamente matematico. Dovremmo letteralmente aspettare fino alla fine dei tempi per scoprire se un orizzonte degli eventi è davvero un orizzonte degli eventi nel senso di questa definizione.
Quindi, invece che di orizzonte degli eventi, i fisici parlano spesso di orizzonte apparente. L'orizzonte apparente è, grosso modo, un qualcosa che somiglia a un orizzonte degli eventi per un periodo finito di tempo. Dal momento che noi possiamo misurare solamente cose che avvengono in tempi finiti, ciò su cui ci interroghiamo, che cerchiamo e che osserviamo è l'orizzonte apparente.
Agli effetti pratici - vale a dire le reali osservazioni di buchi neri astrofisici - la distinzione tra orizzonti apparenti e orizzonti degli eventi è del tutto irrilevante. Ed è per questo che né voi - né, probabilmente, molti giornalisti scientifici - ne avete mai sentito parlare. L'idea che quando la materia collassa possano formarsi non orizzonti degli eventi veri e propri, ma solo orizzonti degli eventi apparenti che finiscono per svanire non è nuova. Nella letteratura scientifica è oggetto di discussione da una ventina di anni. In un articolo che ho scritto con Lee Smolin, abbiamo discusso la possibilità che non ci siano orizzonti degli eventi, ma solo orizzonti apparenti per ragioni di carattere molto generale. 
Schematizzazione degli eventi nei
buchi neri
(Si veda la figura 3 dell'articolo e relativa didascalia)
Ma allora che cosa ha detto veramente Hawking? La citazione esatta è:
“L'assenza di orizzonti degli eventi implica che non ci siano buchi neri, nel senso di condizioni da cui la luce non può sfuggire all'infinito.”
Se si definisce un buco nero come uno spazio-tempo con un orizzonte degli eventi, allora l'affermazione è corretta. Ma ci saranno ancora degli oggetti, chiamiamoli “buchi neri apparenti”, che somigliano quasi perfettamente ai buchi neri per tempi che superano di diversi ordini di grandezza la durata di vita dell'universo. E nessuna osservazione attualmente possibile sarà in grado di dire se, per esempio, il centro della Via Lattea ospita un buco nero con un orizzonte degli eventi o un buco nero apparente che somiglia a un buco nero con un orizzonte degli eventi.
Sostanzialmente, ciò che Hawking sta dicendo è di ritenere che un collasso della materia porti solo a un orizzonte apparente temporaneo, e non a un orizzonte degli eventi eterno. Questo è un parere condiviso da molti suoi colleghi (me compresa) e non c'è nulla di nuovo in questa idea.
E' davvero un peccato che questa dichiarazione di Hawking sia stata così fraintesa, dato che ci sono davvero persone che affermano che i buchi neri non esistono. Sostengono che ciò che osserviamo in realtà sono solo oggetti massicci molto scuri che non collassano oltre il loro raggio di Schwarzschild [una distanza associata e proporzionale alla massa di un corpo celeste, N.d.R.] e che hanno una superficie materiale. Si tratta di un'opinione a dir poco minoritaria, perché richiede modifiche sostanziali alla teoria della gravità di Einstein, senza contare che è in conflitto con le osservazioni. Sono sicurissima che non è questo ciò che Hawking intendeva.
Detto questo, “l'articolo” di Hawking è in realtà solo un resoconto di una conferenza tenuta lo scorso anno. E soprattutto una sintesi delle sue riflessioni sul cosiddetto firewall dei buchi neri, nessuna delle quali ho trovato molto appassionante e straordinaria. Se l'articolo fosse stato scritto da qualcun altro, nessuno vi avrebbe prestato attenzione.
In sintesi, in seguito all'articolo di Hawking non è cambiato nulla nella nostra comprensione dei buchi neri.
Circolare, circolare, qui non c'è niente da vedere.

Sabine Hossenfelder insegna fisica delle alte energie al Nordic Institute for Theoretical Physics (NORDITA) a Stoccolma. Laureatasi alla Johann Wolfgang Goethe Universität di Francoforte, è interessata alle teorie della gravità quantistica e delle stringhe.


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domenica 25 gennaio 2015

Il senso della vita nell'antichità e l'Homo Faber degli antichi Romani

La specie umana
verso il proprio destino.
La civiltà sumera, la più antica dell'Occidente, si è sviluppata intorno al 5.000 a.C., quando il mondo era giovane e le persone avevano appena preso coscienza di sé e della propria collettività. I Sumeri per primi adottarono la scrittura con un proprio alfabeto, ma questa scelta pragmatica e razionale non aveva un corrispettivo nella loro concezione del senso della vita, come si può evincere dalla loro mitologia. L'insieme delle traduzioni dei loro testi in nostro possesso, ci presentano un mondo in cui le persone non sono padrone del proprio destino e la morte è l'unica sorte che le aspetta: solo gli dei sono immortali e ci si trova sulla Terra con il solo ed unico scopo di servirli... Questa è la legge ineluttabile della vita.
La persona non è ancora l'homo faber dei latini, poiché si è convinti che tutta una serie di entità, anche in conflitto fra di loro, decidano gli eventi terreni; per di più, col tempo, si crederà che la materia stessa origini dannazione e dolore. Segnalo comunque che fu proprio dei Sumeri il primo racconto del diluvio universale, il cui Noè si chiamava  Utnapishtim, nell'"Epopea di Gilgamesh", un ciclo epico scritto in caratteri cuneiformi su tavolette d'argilla, che risale a circa 4500 anni fa, scritto tra il 2600 a.C. e il 2500 a.C. Esistono sei versioni conosciute di poemi che narrano le gesta di Gilgamesh, re sumero di Uruk, nipote di Enmerkar e figlio di Lugalbanda e la versione più conosciuta dell'"Epopea di Gilgamesh" è babilonese: - Vivevo nella città di Shurrupak, sulle rive dell'Eufrate, servo fedele del saggio dio Ea. La città invecchiò, ed invecchiarono gli dei: Anu, il padre, e i suoi figli, Enlil, Ea, Ninurta, Ennugi, Ishtar e gli altri. Ishtar creò problemi tra gli uomini: guerra e agitazione. Gli dei non potevano dormire a causa della confusione. Alla fine Enlil, il guerriero, disse agli dei: "Liberiamo le acque del mondo e anneghiamo questa folla che disturba il nostro riposo." Gli dei acconsentirono. Anche Ea (Enki) fu costretto a sottostare alla decisione degli dei. Non poteva avvisare il genere umano del diluvio, ma sussurrò il segreto alla mia casa di canne, e il vento, tra le canne, lo sussurrò a me nel sonno: 'Uomo di Shurrupak, abbatti la tua casa e costruisci una barca'. Ubbidiente al dio, costruii una barca, lunga ed ampia, e provvista di un tetto, e portai nella barca i semi di tutte le cose viventi. Portai la mia famiglia e i miei beni, e un maschio e una femmina di tutte le creature viventi del mondo, sia selvatiche che addomesticate. La tempesta infuriò per sei giorni e sei notti, sommergendo il mondo. Il settimo giorno la tempesta si placò. Guardai fuori dalla barca: non c'era nient'altro che acqua sulla faccia della terra. Allora mi misi a piangere. Alla fine la nave si incagliò sulla cima del monte Nisir.
Sigillo cilindrico sumero al museo di
Berlino raffigurante Anu che riceve
altri dei, fra i quali si riconosce il
sistema solare con il Sole al centro
e 11 pianeti che gli ruotano intorno.
Per "Astrologia e Oroscopo nei
nostri tempi" clicca QUI
Ansioso di scoprire se l'acqua stava diminuendo, liberai una colomba, una rondine, un corvo. La colomba e la rondine tornarono, esauste, ma il corvo non tornò: aveva trovato un posto sulla terraferma dove riposarsi. Pieno di gioia, feci un sacrificio agli dei. Appena Enlil sentì il fumo dolciastro del mio sacrificio, montò su tutte le furie. “È scampato qualcuno di questi fastidiosi mortali? Avrebbero dovuto morire tutti. Qualcuno deve averli avvertiti!”. Ma il saggio Ea rispose: "Il diluvio era un destino troppo duro per tutta l'umanità. Questo uomo, almeno, non meritava di morire. Comunque, non gli ho mandato nessun avvertimento; ha fatto un sogno". A queste parole, l'ira di Enlil si placò. Mi prese per mano e fece venire mia moglie accanto a me. Ci inginocchiammo, e lui ci toccò la fronte. "Fino ad ora, Utnapishtim era mortale. Ora lui e sua moglie saranno come gli dei." -

Da http://www.spaziofatato.net/storiamagiaantica1.htm: Gli dei sumerici erano comuni a gran parte del Medio Oriente; magari cambiavano i nomi, ma le attribuzioni restavano le stesse, come Ishtar che presso i Fenici prendeva il nome di Astarte, pur restando sempre la protettrice delle donne e dell'amore. Faceva invece eccezione l'Iran, in cui veniva adorato Mithra, il cui culto seguiva rituali segreti e sacrifici cruenti, i misteri mithriaci che erano riservati ai soli uomini. Nati come culto della vegetazione, erano basati su due divinità, una delle quali doveva morire per assicurare la fertilità, per poi rinascere. Questo culto fu portato in Italia dai soldati dell'esercito romano nel I secolo a.C., e da qui si propagò nei paesi dell'area germanica, in Gallia, Britannia, Spagna: in Europa trovò enorme fortuna.
Zoroastro fu il fondatore di un nuovo movimento religioso, nel VI-V secolo prima di Cristo. Nato nell'odierno Afghanistan nel 630 a.C., desiderava diventare sacerdote, ma si ribellò all'imperante culto mithriaco, rifiutandosi di sacrificare animali, convinto che anche questi avessero un'anima. Decise allora di abbandonare l'apprendimento del sacerdozio mithraico per fare un lungo periodo di meditazione solitaria; all'età di trent'anni ricevette una rivelazione da Vohu Manah, un angelo mandatogli dal dio supremo Ahura Mazda. Egli divenne allora profeta della nuova religione e combatté con ancora maggior foga i sacrifici di animali. Dopo dieci anni di predicazione e di feroci dissidi con i sacerdoti di Mithra, egli lasciò il suo paese e raggiunse la Persia, dove ebbe la fortuna di convertire il re Ciro il Grande; la conversione appianò tutte le sue difficoltà ed egli rimase in Persia a fare proseliti fino alla sua morte, avvenuta a settantasette anni.
Lo Zoroastrismo era una religione basata sull'adorazione di Ahura Mazda, dal nome del quale fu detta Mazdeismo e fu la prima religione dualistica, che definì il male non come manifestazione del dio supremo, ma derivante da un principio del tutto separato, un dio malvagio. Ahura Mazda era la sorgente della bontà, della verità e della luce, creatore dell'universo, degli uomini e degli animali; alla fine dei tempi egli avrebbe giudicato le anime, premiando i buoni e punendo i malvagi. Nell'arduo compito di badare al mondo veniva aiutato dallo Spirito Santo suo figlio e da sei santi immortali. I nomi di questi santi compaiono ancora sui calendari tradizionali iraniani; sono protettori della terra, degli animali, del fuoco, dell'acqua, dei metalli e delle piante. 
La torre di Babele
Il culto del dio si svolgeva nei "Templi di fuoco", costruzioni a forma di torre, così chiamati perché vi ardeva sempre un fuoco, che veniva spento soltanto alla morte del re, per essere riacceso dal suo successore. Antagonista di Ahura Mazda era Angra Mainyu o Ahriman, spirito malvagio; egli era il dio del male, delle tenebre, della menzogna, di tutto ciò che era nefasto ed impuro; poteva causare ben 9999 malattie. Come il dio del bene veniva aiutato dagli angeli, così il dio del male era circondato dai Devas, i demoni. Le milizie delle due parti si affrontavano in assetto di guerra, come due eserciti ben addestrati. Il mondo, quindi, era diviso in due: l'uomo doveva scegliere da che parte stare. Se decideva di condurre una vita giusta concorreva alla vittoria del bene, che comunque era destinato a vincere sul male. Al tempo del giudizio universale Ahura Mazda avrebbe diviso i malvagi dai buoni: i primi sarebbero sprofondati nel metallo fuso, i secondi avrebbero potuto vivere in eterno in un mondo senza dolore, malattia o morte. Ahura Mazda aveva creato una sorgente di vita, il Toro, subito ucciso da Ahriman; ma dal suo seme sparso sulla terra erano nati il primo uomo e la prima donna.
Il malvagio Ahriman aveva sedotto la donna con offerte di frutti maturi e di latte; in seguito anche l'uomo aveva ceduto al peccato. Essi avevano così perso il paradiso ed in più si erano trovati la terra infestata da serpenti ed altri rettili, animali cari ad Ahriman. Come si può vedere, lo Zoroastrismo influì su molte religioni, in particolare sul Cristianesimo e sull'Ebraismo: nelle tre religioni troviamo identici concetti di angeli, demoni, resurrezione della carne, paradiso e giudizio universale. Concetti derivati dal Mazdzeismo si ritrovano nei Manichei, nei neo-platonici, nella Gnosi e nella religione islamica.
I sacerdoti del culto di Ahura Mazda si chiamavano Magi. Essi erano divisi in gradi successivi: apprendista, maestro e maestro perfetto. Tutti si occupavano di scienza della divinazione ed affermavano che la verità era l'oggetto dei loro studi; il loro libro sacro era l'"Avesta", paragonabile alla Bibbia per i Cristiani, ma i libri più interessanti per le concezioni magiche del Mazdeismo sono i "Vendidad" (Legge di abiura di tutti i demoni dell'Avesta zoroastriano), elenchi di pratiche contro i demoni e di precetti magici. Una grandissima attenzione veniva prestata alle unghie ed ai capelli: una volta tagliate, se lasciate in giro queste parti diventavano preda del male. Questa superstizione si è conservata per secoli: in Turchia, in Armenia e nella pampa argentina i capelli tagliati vengono ancora oggi nascosti nei muri o negli alberi cavi; presso alcune tribù africane i capelli vanno consegnati allo stregone, che li seppellisce per evitare operazioni di magia nera sul proprietario delle ciocche. Altri rituali erano diretti contro le mosche, che nei paesi a clima molto caldo possono rappresentare una tale calamità da dar ragione a Zoroastro, che le considerava entità demoniache. Una cerimonia particolare contro le mosche veniva eseguita sui cadaveri, prima che fossero toccati, affinché la "diavolessa mosca" non li contaminasse; chi violava il tabù veniva costretto ad un complicato e sgradevole rito di purificazione, che durava nove giorni ed era fatto con aspersioni alternate di acqua ed urina di bue; il rituale era accompagnato da formule molto simili a quelle cattoliche di esorcismo per gli indemoniati. I riti funebri consistevano nell'esporre la salma sulle "Torri del silenzio", (esistenti tuttora in Oriente, n.d.r.) finché gli avvoltoi scarnificavano totalmente il corpo; questa cerimonia impediva che il corpo contaminasse l'acqua, il fuoco o la terra, essendo esso preda di demoni malefici e quindi impuro. Il cerimoniale durava tre giorni ed era accompagnato da formule di scongiuro e di propiziazione; le ossa rimaste venivano raccolte negli ossari. (Autore: Devon Scott da Tradizioni perdute, edizioni Lunaris)

"Il rimorso di Oreste", opera del 1832
di William-Adolphe Bouguereau che
raffigura Oreste perseguitato dalle
Erinni, che nella mitologia Greca
personificavano la vendetta (in quella
Romana erano le Furie), soprattutto
nei confronti di chi colpisce i propri
parenti o i membri del proprio clan.
Nell'antichità, in svariate culture, il senso della vita era permeato da concezioni "gnostiche".
Lo gnosticismo è stato un movimento filosofico-religioso, molto articolato, la cui massima diffusione si ebbe tra il II e il IV secolo dell'era cristiana. Il termine gnosticismo deriva dalla parola greca gnósis cioè "conoscenza". Sebbene parrebbe collocarsi principalmente in un contesto cristiano, il pensiero gnostico include credenze religiose pre-cristiane e pratiche spirituali comuni al cristianesimo delle origini, al neoplatonismo, al giudaismo del Secondo Tempio, alle religioni misteriche e allo zoroastrismo, specialmente per ciò che riguarda lo zervanismo, una corrente in cui i due dei, Ahura Mazda il dio buono e Ahriman il dio cattivo, sono entrambi soggetti al principio dello Zervan Akarana o Zurvan Akarana, il "Tempo che non è stato creato"; dall'esame di alcuni passi dei testi pahlavici che la riguardano, si riscontra in questa corrente, una grande tendenza al pessimismo e all'ascetismo.

Croce solare degli
gnostici, identica
alla croce celtica.
Con la scoperta dei codici di Nag Hammadi, si sono chiariti vari aspetti del pensiero degli gnostici. I codici sono un insieme di testi gnostici, sia cristiani che non cristiani, rinvenuti nei pressi di Nag Hammâdi, una cittadella lungo il Nilo sita 450 Km. a sud del Cairo, in Egitto, nel dicembre del 1945 e la zona del ritrovamento dei codici è situata accanto alla parete rocciosa di Jabal-al Tarif. Si tratta di 13 papiri che furono ritrovati in una giara di terracotta da un abitante del villaggio di al-Qasr, presso un monastero cenobita pacomiano. I cenobiti (dal latino cenòbium, a sua volta dal greco koivòs "comune" e bios "vita") sono monaci cristiani le cui prime comunità risalgono al IV secolo. Il cenobitismo è una forma comunitaria di monachesimo, praticata in monasteri (chiamati cenobi) sotto la guida di un'autorità spirituale, secondo una disciplina fissata da una regola. I cenobiti si differenziavano dagli eremiti in quanto praticavano una vita comunitaria anziché solitaria e il loro fondatore è considerato San Pacomio, monaco egiziano vissuto a cavallo fra III e IV secolo. Il cenobitismo fu diffuso in occidente da San Benedetto da Norcia, dopo l'incontro con l'abate Servando, con l'istituzione del monachesimo dell'Ordine di Benedetto.
I papiri rimasero nascosti per lungo tempo dopo il loro ritrovamento e in seguito a complesse vicende, dopo essere stati dispersi, furono recuperati e messi a disposizione degli studiosi. I testi contenuti nei codici sono, per la maggior parte, scritti gnostici, ma includono anche tre opere appartenenti al "Corpus Hermeticum" attribuito ad Ermes (Ermete) Trismegisto ed una parziale traduzione della "Repubblica" di Platone. Si ipotizza che tali codici appartenessero alla biblioteca del monastero cenobita pacomiano e che i monaci li abbiano nascosti per salvarli dalla distruzione quando si cominciò a considerare lo gnosticismo come eresia. I testi sono scritti in egiziano copto, benché la maggior parte di essi (o forse tutti) siano stati tradotti dal greco. L'opera più importante presente in essi è il "Vangelo di Tommaso", l'unico testo completo noto dell'opera. Grazie a questa scoperta gli studiosi riscontrarono la presenza di frammenti di questo testo nei manoscritti di Ossirinco, scoperti nel 1898, e ne ritrovarono tracce nelle citazioni presenti negli scritti dei Padri della Chiesa. La datazione dei manoscritti risale al III e IV secolo, mentre per i testi greci originali, benché ancora controversa, è generalmente accettata una datazione del I e II secolo.

Nel passato lo gnosticismo veniva considerato come una delle eresie del cristianesimo mentre le prime tracce di sistemi gnostici possono essere trovate già secoli prima dell'era cristiana. Al quinto Congresso degli Orientalisti, (a Berlino nel 1882) Kessler fece notare il collegamento tra gnosis e religione babilonese, non la religione originale della Babilonia, ma la religione sincretistica che si sviluppò dopo la conquista della regione da parte di Ciro il Grande. Sette anni più tardi (1889) F.W. Brandt pubblicò il suo “Mandäische Religion”, in cui descriveva la religione mandea. In tale opera l'autore dimostrò che questa religione è una forma così chiara di gnosticismo, da essere prova che lo gnosticismo è esistito indipendentemente ed anteriormente al cristianesimo. Molti studiosi, invece, hanno ricercato la fonte delle teorie gnostiche nel mondo ellenistico e, specialmente, nella città di Alessandria d'Egitto. Nel 1880 Joel cercò di provare che l'origine di tutte le teorie gnostiche risiedeva in Platone. Anche se la tesi su Platone può essere considerata come una forzatura, l'influenza greca sulla nascita e sullo sviluppo dello gnosticismo non può essere negata. In ogni caso, che il pensiero alessandrino (Alessandria d'Egitto) abbia avuto qualche influenza, almeno nello sviluppo dello gnosticismo cristiano, è dimostrato dal fatto che la maggior parte della letteratura gnostica di cui siamo in possesso arriva da fonti egiziane (copte).

Il pensiero gnostico appare come un sincretismo di tutti i sistemi religiosi dell'antichità (religioni misteriche, astrologia magica persiana, zoroastrismo, ermetismo, Kabbalah ebraica, filosofie ellenistiche, giudaismo alessandrino, cristianesimo dei primi secoli), ma in realtà ha una radice più antica, che ha assimilato in ogni substrato culturale ciò di cui aveva bisogno per la sua vita e per la sua crescita: il motivo portante di questa corrente di pensiero è il pessimismo filosofico e religioso. Gli gnostici, ad onor del vero, presero in prestito quasi completamente la loro terminologia dalle religioni esistenti, ma la usarono solamente per illustrare la loro grande idea del male insito nell'esistenza ed il dovere di fuggirlo con l'aiuto di incantesimi e di un Salvatore sovrumano. Qualunque cosa abbiano preso in prestito dalle altre religioni, sicuramente non fu il pessimismo. Questo pessimismo assoluto, questo piangere l'esistenza dell'intero universo come una corruzione ed una calamità, con una delirante insistente preghiera di essere liberati dal corpo tramite la morte e la speranza che potremmo, attraverso  delle parole magiche, se solo le conoscessimo, sopprimere gli effetti del corso di questa "maledettaesistenza, sono il fondamento di ogni pensiero gnostico. Quando Ciro il Grande entrò a Babilonia nel 539 a.C., si incontrarono due grandi scuole di pensiero e il pensiero persiano cominciò a mescolarsi con l'antica civiltà babilonese.
L'idea della lotta titanica tra bene e male, che pervade l'universo in eterno, è l'idea da cui deriva il Mazdeismo, o dualismo persiano. Questo, e l'immaginata esistenza di innumerevoli spiriti intermedi, angeli e demoni, fu la spinta che fece superare l'idea del monoteismo assoluto dell'Ebraismo, anche se Salomone finì per non professarlo (per "Salomone e il suo tempio, massoneria e demoni" clicca QUI). D'altra parte la fiducia incrollabile nell'astrologia e la convinzione che il sistema planetario aveva un'influenza totale sugli affari di questo mondo si sviluppò proprio tra i Caldei.
I Caldei, popolo semita abitante la parte meridionale della Mesopotamia, furono connessi alle tribù aramaiche ma erano distinti etnicamente da queste. Il loro territorio di insediamento era la parte inferiore dell'Eufrate, da Nippur a Ur e Uruk; nel corso della seconda metà dell'VIII secolo a.C. si mescolarono con le differenti popolazioni abitanti l'area babilonese perdendo le proprie caratteristiche etniche, anche se la loro dimensione tribale risultava maggiore di quella aramaica. I Caldei furono alleati degli Elamiti nelle guerre condotte da costoro contro gli Assiri nel corso dell'VIII e del VII secolo a.C. e furono certamente potenti, in quanto impegnarono gli Assiri e si imposero sui Babilonesi. La dinastia caldea continuò a governare la Babilonia fino alla conquista persiana del 539 a.C. L'identificazione dei Caldei come Babilonesi e come sinonimo di astrologi, risale allo scrittore ellenistico di origine babilonese Berosso del III secolo a.C.
«Da molto tempo i Caldei hanno condotto osservazioni sulle 'stelle' e primi tra tutti gli uomini hanno indagato nella maniera più accurata i movimenti e la forza delle singole stelle; per questo essi posso predire molto il futuro degli uomini. » (Diodoro Siculo. Bibliotheca historica, II,29)
Per "Elenco degli storici antichi dell'Occidente" clicca QUI

La grandezza dei Sette (la Luna, Mercurio, Venere, Marte, il Sole, Giove, e Saturno), il sacro Hebdomad, (Settenato, potere dei geni dei Sette pianeti, da cui il concetto di "settimana") simboleggiato per millenni dalle torri di Babilonia, non fu sminuito. In verità, essi cessarono di essere adorati come divinità, ma rimasero come arconti e dynameis, regole e poteri, la cui forza quasi irresistibile contrastava le persone. Furono trasformati da dei a devas, spiriti cattivi. La religione degli invasori e quella degli invasi si fusero in un compromesso: ogni anima, nella sua ascesa verso il buon Dio e la luce infinita dell'Ogdoad, doveva combattere contro l'avversa influenza del dio o degli dei dell'Hebdomad. Questa ascesa dell'anima attraverso le sfere planetarie fino al paradiso cominciò ad essere concepita come una lotta con poteri avversi, e divenne la prima e predominante linea dello gnosticismo. La seconda grande linea del pensiero gnostico fu la magia, il potere creativo operato da nomi, suoni, gesti ed azioni. Queste formule magiche, che provocavano risate e disgusto ai non iniziati, non sono corruzioni più tarde della filosofia gnostica, ma una parte essenziale dello gnosticismo e furono osservate in tutte le forme dello gnosticismo cristiano. Nessuna "gnosis" era completa senza la conoscenza delle formule che, una volta pronunciate, permettevano l'annullamento dei poteri ostili. Lo gnosticismo entrò in contatto col giudaismo abbastanza presto. Considerando le forti, ben organizzate ed estremamente colte colonie ebree nella valle dell'Eufrate, questo primo contatto col giudaismo è perfettamente naturale. Forse l'idea gnostica di un Redentore deriva proprio dalle speranze Messianiche ebree. Ma, fin dall'inizio, la concezione gnostica del Salvatore è più sovrumana di quella del giudaismo; il loro Manda d'Haye, o Soter, è una manifestazione immediata della Divinità, un Re della Luce, un Æon (Eone). Quando lo gnosticismo entrò in contatto con il Cristianesimo, il che dovrebbe essere accaduto quasi immediatamente, esso si gettò con una strana rapidità sulle forme di pensiero cristiane, prese in prestito la sua terminologia e riconobbe Gesù come Salvatore del mondo, simulò i suoi sacramenti, pretese di essere una rivelazione esoterica di Cristo e dei Suoi Apostoli, sommerse il mondo con Vangeli apocrifi, Atti ed Apocalissi, per provare le sue tesi. Man mano che il Cristianesimo si sviluppava, lo gnosticismo cercava di spacciarsi per l'unica vera forma di Cristianesimo, non idoneo per la volgare folla, ma sviluppato per i dotati e gli eletti. Per tale motivo i primi Padri della Chiesa dedicarono tutte le loro energie a combatterlo. Sebbene lo spirito dello gnosticismo sia del tutto alieno rispetto a quello del Cristianesimo, sembrava a coloro che lo guardavano superficialmente solo una modifica o addirittura un raffinamento di quello cristiano. La gnosi ebbe come centri di maggiore fioritura soprattutto Alessandria d'Egitto e Roma. Un particolare impulso ebbe, negli ultimi secoli, in Siria ed in Egitto, grazie alla sua diffusione in ambienti monastici, attraverso le numerose correnti ascetiche.

Lo gnosticismo, comunque, ebbe i suoi rappresentanti più noti nei primi secoli dopo Cristo, con prominenti insegnanti come Marcione, Valentino e Basilide. Altri gnostici noti furono Cerinto, Carpocrate e Simon Mago con tutta la sua scuola. Anche quando la corrente principale e centralizzata della Chiesa Cattolica Romana divenne il corpo cristiano dominante e iniziò a sopprimere le idee cristiane alternative e il paganesimo, lo gnosticismo non svanì senza lasciar traccia, anche se Sant'Ireneo di Lione, Tertulliano e San Giustino Martire rimasero le sue uniche fonti di conoscenza fino al 1945, anno in cui furono scoperti i codici di Nag Hammâdi, nei pressi del villaggio di al-Qasr, contenenti 44 opere gnostiche. Una delle conclusioni che si ricavano da Sant'Ireneo di Lione, dove per la prima volta appare il termine «gnostico», è che esistono tanti tipi di gnosticismo quante le persone che lo proclamano con una certa autorità.

Lo gnosticismo, seppure permeato apparentemente da ideologie di numerose religioni, assomiglia, come concezioni di base, ai Veda dell'antica India. Il parallelo più evidente sta nel nome, infatti la parola "Veda" sta per "Conoscenza", proprio come la parola "Gnosi". Le cosiddette "parole magiche", all'interno della cultura vedica, descritta dai profani come "induismo", sono rappresentati da mantra espressi in lingua sanscrita, una lingua particolarmente profonda e dal forte potere vibrazionale. La cultura vedica ha origine migliaia di anni fa e la sua prima comparsa nella storia avviene quando i popoli Arii occuparono parte dell'India, trasmettendogli queste culture indoeuropee. Tale cultura considera anch'essa il corpo come una prigione di cui liberarsi per spezzare il ciclo del Samsara (il ciclo di rinascite e morti) e raggiungere il Moksha (ascensione al piano trascendentale) attraverso la realizzazione spirituale. Tale raggiungimento è possibile tramite regole di buon comportamento, chiamate principi regolatori, descritti molto bene dall'Associazione Internazionale per la Coscienza di Krishna, e l'utilizzo di numerose pratiche tra cui anche particolari mantra, capaci, sempre secondo la cultura vedica, di ripulire il corpo grossolano (corpo fisico) e quello sottile (mente e intelligenza) attraverso la recitazione e l'ascolto di vibrazioni vocali particolari. Tutte queste pratiche devozionali sono volte a pregare l'Unico Dio affinché li liberi dalla miserevole condizione di esseri incarnati nella materia.

Benché la rilevanza del pensiero gnostico comincerà a declinare a partire dal IV secolo, esistono tuttavia tracce della persistenza di tali concezioni nella storia del pensiero religioso e filosofico occidentale fino ai giorni nostri, così come nel caso dei Mandei, la comunità religiosa tuttora attiva in Iraq e Iran, sopravvissuta isolandosi geograficamente, i cui caratteri gnostici sono molto evidenti.

Nel corso della storia, le idee gnostiche continuarono a riaffiorare a intervalli regolari, come dimostra l'apparizione di movimenti quali i Manichei, i Catari, i Bogomili, i Pauliciani e tanti altri, i quali abbracciavano le concezioni dualistiche (lotta fra il dio del bene e quello del male) sviluppate dallo gnosticismo. Per quanto non siano rilevabili continuità tra lo gnosticismo e l'eresia catara medievale, appaiono fra quei sistemi di pensiero notevoli affinità e nel 1208, contro i Catari, definiti dai cattolici come "buoni cristiani" ma definiti dalla Chiesa cattolica come eretici, fu indetta da Innocenzo III la crociata contro gli albigesi (Albi, in Occitania, era una delle loro roccaforti. Per "Occitani: storia e cultura" clicca QUI), scontro che assunse i contorni dell'olocausto e che terminò solo nel 1244, con la caduta della roccaforte catara di Montsegur.
Più tardi ripresero il modello gnostico l'alchimia e l'astrologia rinascimentale, scienze esoteriche che si nutrivano delle pubblicazioni di letterati come Marsilio Ficino (1433 - 1499), che nel 1463 tradusse il "Corpus Hermeticum", una raccolta di scritti sapienziali di epoca ellenistica, attribuiti a Ermes Trismegisto.

Occorre poi precisare che lo gnosticismo, come filone di pensiero, attraversa tutta la storia della filosofia e riemerge periodicamente con movimenti di pensiero, ortodossi ed eterodossi (secondo la Chiesa ufficiale). L'Ottocento, in particolare, vede la nascita di diversi movimenti di tipo religioso o parareligioso che si richiamano dichiaratamente allo gnosticismo antico. Fra essi, a puro titolo di esempio, la teosofia di Helena Blavatsky e di Rudolf Steiner, che la traghettò poi verso l'antroposofia.
In epoca contemporanea, a fianco di movimenti elitari che si richiamano alle correnti gnostiche del passato, non mancano tentativi di identificare caratteri gnostici in correnti di pensiero moderne, così come il nichilismo e in qualche modo, l'esistenzialismo, dove si riscontra l'assenza di significato dell'esistenza terrena.
Va precisato comunque che i gruppi neo-gnostici del XIX secolo non possono vantare alcuna continuità con lo gnosticismo delle origini, tanto che spesso modificano, più o meno consapevolmente, le dottrine originarie.
La scoperta, nel 1945 dei Codici di Nag Hammadi ha dato nuova forza a molti di questi movimenti, ed è possibile riscontrare tracce delle dottrine gnostiche in svariate opere letterarie contemporanee.

Duomo di Siena: Rappresentazione
di Ermes Trismegisto, indicato
come contemporaneo di Mosè.

Invece, fino all'avvento del cristianesimo, la mentalità dei Romani antichi era piuttosto pragmatica e libera da eventuali condizionamenti filosofico-religiosi.

Sicuramente, fin dalla Roma arcaica, Auguri e Pontefici si assicuravano che gli dèi fossero soddisfatti della considerazione che i Romani avevano per essi e degli auspici e/o sacrifici che si officiavano prima di decisioni importanti, anche se un vero e proprio culto era riservato solo a LariMani e Penati, gli spiriti degli antenati defunti.

«[Apuleio] afferma inoltre che anche l'anima umana è un demone e che gli uomini divengono Lari se hanno fatto del bene, fantasmi o spettri se hanno fatto del male e che sono considerati dèi Mani se è incerta la loro qualificazione.». (Agostino di Ippona, La città di Dio IX,11).

Per cui l'opinione comune nella Roma antica era: "Faber est suae quisque fortunae", locuzione latina che tradotta letteralmente significa "Ciascuno è artefice della propria sorte", espressione caratteristica della teoria dell'homo faber, secondo cui l'unico artefice del proprio destino è la persona stessa. 
La parola "fortuna", per i romani, aveva il solo significato di "casualità".

Questa visione del mondo è un contrapporsi, della persona romana, all'idea del fato (dominante nel mondo classico), per essere invece responsabili protagonisti delle proprie azioni nella lotta contro il bisogno e la miseria

La teoria dell'homo faber verrà in seguito sviluppata soprattutto durante l'Umanesimo, nel Rinascimento, specialmente alla luce della riconsiderazione del rapporto tra virtù e fortuna intesa come destino dell'uomo in genere. Se nel Medioevo la persona è considerata succube del destino, nell'Umanesimo e nel Rinascimento è vista come intelligente, astuta ed energica, e perciò capace di utilizzare al meglio ciò che la natura gli offre, essendo dunque l'artefice del proprio destino. Forte sostenitore di questa visione è stato il filosofo Giordano Bruno.

Francia, ponte di acquedotto romano sul fiume
Gard, che riforniva di acqua la città di Nemasus,
l'odierna Nimes.
Probabilmente la consapevolezza dei Romani di determinare il proprio destino, concetto che li faceva sentire liberi da condizionamenti di entità immateriali e li rendeva consapevoli della propria autodeterminazione nella vita, gli permise la realizzazione di progetti grandiosi, in vari ambiti, compreso quello di modificare l'ambiente a misura delle proprie esigenze.

Dal 312 a.C.Roma inizia la costruzione delle strade e degli acquedotti.
La prima strada consolare a essere costruita fu la Via Appia. La costruzione delle strade inizialmente era stata dettata dalla necessità di spostare rapidamente le truppe in qualsiasi regione conquistata, ed infatti le prime strade furono costruite proprio dai legionari. Anche se in principio avevano una funzione militare permisero un notevolissimo sviluppo al commercio dell'Urbe favorendo lo spostamento di merci e mercanti, oltre che della gente comune e dei messaggeri. In poco tempo le prime vie Consolari come: l'Appia, l'Aemilia, la Salaria, la Postumia ed altre, vennero prolungate, fino a formare un complesso sistema che permetteva di raggiungere qualsiasi punto dell'Impero in poco tempo; si calcola che furono costruite più di 29 strade che percorrevano oltre 120.000 Km (due volte il giro della Terra!). Le strade romane avevano il compito fondamentale di mettere in comunicazione Roma con il resto dello Stato nel modo più rapido effettuabile. Per questo venivano tracciate il più rettilinee possibile per evitare allungamenti, anche a costo di lasciare isolati i centri più piccoli, i quali venivano comunque collegati con vie secondarie. La necessità di superare ostacoli naturali come specchi d'acqua o colline per dare continuità al tracciato venne compiuta  con la costruzioni di mirabili ponti, viadotti e gallerie in parte tuttora praticabili. Ricordiamo tra tutti il ponte più lungo dell'antichità costruito sul Danubio per volere di Traiano con una lunghezza di oltre 2,5 km!
Questi sono solo alcuni dei segni più imponenti che questa civiltà ci ha lasciato, e che tra l'altro furono per secoli studiati per la loro perfezione: il Medioevo incapace di imitare le strade e i ponti romani li chiamò per questo "sentieri dei giganti" o "strade del diavolo".
La via sacra dell'antica Roma.
La parola miglio deriva dall'espressione latina milia passuum, "migliaia di passi" (singolare: mille passus "mille passi"), che nell'Antica Roma denotava l'unità pari a mille passi (1 passo = 1,48 metri). Occorre ricordare che per gli antichi romani il passus era inteso come la distanza tra il punto di distacco e quello di appoggio di uno stesso piede durante il cammino, quindi il doppio rispetto all'accezione moderna.
Ad ogni miglio, veniva posto ai bordi della strada una pietra cilindrica alta anche 3 o più metri, sulla quale erano incise le miglia percorse dalla città precedente, e quelli alla prossima, oltre che alla distanza da Roma; erano inoltre incisi il nomi di coloro che la fecero costruire. Al centro dell'Urbe, vicino al Foro, l'Imperatore Ottaviano Augusto fece collocare accanto ai Rostri il Miliarium Aureus ossia una pietra miliare dorata con le distanze di tutte le principali città dell'Impero; inoltre non lontano c'era anche una grande mappa bronzea dell'Impero detta Forma Imperii, accanto a quella di Roma detta Forma Urbi. La velocità di percorrenza giornaliera media delle strade era di  30 Km orari in carro, 7-8 Km/h a piedi, ed 80 Km giornalieri al massimo per i messaggeri imperiali del cursus publicus ossia i corrieri a staffetta per i funzionari di Governo.
Le strade che gli antichi
Romani hanno edificato
in Italia. 
Le principali strade in Italia furono:
I. Via Appia: fu costruita nel 312 a.C. dal Console Appio Claudio; essendo la più antica delle vie Consolari è chiamata regina viarum, cioè la regina delle strade. Inizialmente fu tracciata fino a Capua, grande centro della Campania, ma fu poi prolungata fino a Beneventum, Venosa, Tarantum e Brundisium ove c'era un importantissimo porto.
Nel II secolo d.C. l'Imperatore Marco Ulpio Traiano crea una un percorso alternativo tra Benevento e Brindisi passando attraverso gli Appennini, dando origine alla Via Appia Traiana, la quale permetteva di risparmiare oltre un giorno di marcia. Questa opera è ricordata sopratutto per il fatto che durante i lavori di costruzione, per riuscire a oltrepassare uno scaglione di roccia molto alto, i Romani lo fecero letteralmente tagliare! Tutt'ora è possibile vedere ciò che ne resta.
II. Via Aemilia: altro non era che il proseguimento della via Flaminia verso Nord-Ovest. Essa congiungeva Ariminum con Placentia, toccando Caesena, Forum Livi, Bononia, Mutina, Regium Lepidum e Parma.
III. Via Capua-Rhegium: si staccava dalla via Appia a Capua , proseguiva fino a Rhegium, passando per Consentia e Vibo Valentia.
IV. Via Aurelia: strada costiera che andava a Nord: collegava l'Urbe con Vada Sabatia (Vado Ligure), attraverso Pisae, Luna e Genua. Venne poi edificata la Via Julia Augusta che proseguiva per le Gallie attraversando il sito dei Balzi Rossi, nei pressi dell'attuale confine sulla costa Ligure fra Italia e Francia.
V. Via Domitiana: si separava dalla Via Appia a Sinuessa (Mondragone) e giungeva fino a  Neapolis.
VI. Via Popilia-Annia: altro proseguimento della via Flaminia, verso Nord-Est: partiva da Ariminum passando per Rabenna, Atria (Adria), Patavium (Padova), Altinum, Aquileia, Tergeste (Trieste).
VII. Via Latina: collegava l'Urbe direttamente con Capua spercorrendo passando per Anagnia, Frusino, Casinum.
VIII. Via Flaminia: univa Roma con Ariminium (Rimini), toccando Fanum Fortunae (Fano) e Pisuarum.
IX. Via Salaria: prende il nome dalla materia prima (il sale) che per secoli fu trasportata lungo il suo tracciato. Essa partiva da Roma e giungeva fino Castrum Truentinum (Porto d’Ascoli), passando per  Reate e Asculum.
X. Via Postumia: passando per la Pianura Padana univa  Genua con Aquileia, attraversando Cremona, Verona, Vicetia.
XI. Via Valeria: collegava l'Urbe Ostia Aterni (Pescara), passando per Tibur (Tivoli) e Teate Marrucinorum (Chieti).
XII. Via Cassia: congingeva l'Urbe al Nord Italia, passando attraverso Arretium, Florentia, Pistoia, Luca.
XIII. Via Clodia: collegava  Roma a Saturnia.
Manto stradale sezionato che
mostra i vari strati di cui erano
costituite le strade romane. 
Nonostante le strade fossero ben lastricate, comunque in carro non era possibile andare troppo veloci, anche perché spesso erano tirati dai buoi, si preferivano se possibile i viaggi per mare, che si rivelavano più rapidi ma anche più pericolosi a causa delle frequenti tempeste. Le strade in epoca imperiale vennero sviluppate soprattutto per garantire un efficiente servizio postale e un rapido spostamento di messaggeri. Per facilitare ciò a intervalli regolari sorgevano stazioni per il cambio dei cavalli (mutationes) e locande per le soste notturne (mansiones), che erano attive per tutti anche per i Cittadini i quali all'interno trovavano dipinte sulle pareti delle vere e proprie guide stradali, chiamate "intineraria picta", con segnalati i punti di sosta tra un itinerario e l'altro, le città, le distanze e tutte le strade importanti. Di queste mappe non sono rimaste tracce, tuttavia esiste una copia di uiepoca medioevale di eccezionale importanza, chiamata Tabula Peutingeriana, che ci da un'idea di come fossero strutturate, e quali nozioni geografiche avevano i Romani. Questa mappa lunga sei metri e alta trenta centimetri rappresenta tutto il mondo conosciuto allora dai Romani dalle colonne d'Ercole fino all'estremo Oriente.
Roma nella tavola
Peutingeriana.
E' da notare, che nelle mappe antiche l'Oriente è posto verso l'alto, infatti nella foto della Tabula Peutingeriana qui a lato (cliccare sopra per ingrandire) il tratto di terra orizzontale è l'Italia, e in alto c'è il Mare Adriatico, sotto il Mare Tirreno, si notano inoltre Roma seduta sul trono, e Ostia sotto. Secondo il Diritto romano, il transito sulle strade dell'Impero era libero, ma la manutenzione del manto stradale spettava agli abitanti della Provincia  attraversata dalla strada, tuttavia con la riforma del governo iniziata dall'Imperatore Ottaviano Augusto la gestione fu affidata al Curator Viarum il quale dava l'ordine, o la concessione per la ristrutturazione o la costruzione della strada. Facendo una piccola osservazione si può ben notare come tutte le autostrade attuali in Europa seguano il percorso delle strade romane, conservando talvolta addirittura il nome!
Le strade che i Romani hanno
edificato in Europa.
L'attuale termine strada deriva da viae strata cioè via lastricata. Ogni strada romana, aveva una struttura ben precisa e si sviluppava in modo più o meno rettilineo. Originariamente le dimensioni delle strade erano sancite dalle XII Tavole: per esempio la larghezza media andava dai 4 ai 6 metri, potevano avere due marciapiedi (margines) laterali di 2/3 metri di larghezza circa o anche più. Avevano uno spessore che andava dai 90 ai 120 cm, ed erano formate da una massicciata di tre strati di pietre sempre più piccole, legate con malta (ciò per permettere una maggior resistenza e durata nel tempo), e dal piano stradale lastricato, costituito da uno strato di blocchi di pietra spianati e accostati. La costruzione iniziava con il scavare un "letto" tra due solchi, i quali ne delimitavano la larghezza, nel quale sarebbero stati posati i vari strati di pietre. Lo strato più basso, era composto da pietre molto grandi come sassi ed era detto statumen, il secondo chiamato rudus era formato da ciottoli di medie dimensioni, il terzo da ghiaia mista ad argilla detto nucleus, ed il quarto era il vero e proprio manto stradale chiamato pavimentum: esso era composto da lastre grosse e piatte adagiate in orizzontale, ma con una forma lievemente convessa per facilitare lo scolo delle acque piovane, verso le canalette di scolo, sempre presenti nelle vie cittadine. Se nelle strade dell'Impero regnava l'ordine quasi assoluto, non si poteva dire lo stesso dell'Urbe, dove al contrario le strade erano tutt'altro che ordinate e rettilinee. Questo è facilmente spiegabile dal fatto che Roma è nata e si è estesa senza dei piani urbanistici; questi infatti verranno ideati appena alla fine della Repubblica per opera di Giulio Cesare,  Ottaviano Augusto ed altri Imperatori. Quindi fatta eccezione per alcune vie principali, che sono rettilinee poiché penetrazioni urbane delle vie Consolari, molte altre strade sono strette e intricate e alcune addirittura senza marciapiedi. Tuttavia bisogna dire che i marciapiedi a Roma non erano necessari visto che per un decreto di Giulio Cesare, i carri (fatte alcune eccezioni) non potevano transitare in città di giorno ma solo la sera e la notte. L'Urbe era inoltre una città caotica e rumorosa sopratutto nelle zone centrali, dove c'erano i  mercati, i Fori e gli edifici pubblici più importanti.
Tra le opere più grandi e vistose lasciateci dai Romani, sicuramente ricordiamo gli imponenti acquedotti. Gli acquedotti vengono ideati a Roma nel IV sec. a.C. perché ormai la fornitura idrica dell'Urbe, che fino ad allora si affidava al Tevere o ai pozzi, non era più sufficiente. Roma si stava trasformando nella più grande metropoli di tutta l'Antichità e non solo, quindi si decise di costruire un' acquedotto che collegasse una sorgente e portasse l'acqua fresca in città, il primo fu l'Aqua Appia costruito nel 312 a.C. per volere dell'omonimo Console Appio Claudio, lo stesso che diede il nome alla celeberrima via. Con il passare degli anni ne vennero costruiti altri di maggior portata. In totale c'erano ventiquattro acquedotti, che trasportavano ogni giorno nell'Urbe oltre 1 milione di metri cubi d'acqua percorrendo in totale oltre 400 Km di condutture.
Se oggi possediamo molte informazioni sugli acquedotti e l'edilizia idraulica lo dobbiamo all'opera del Curator Aquarum Sesto Giulio Frontino, contemporaneo dell'Imperatore Nerva, il quale scrisse un libro, il De aqueductu Urbis Romae (letteralmente Sugli acquedotti della Città di Roma),  nel quale spiega i metodi di costruzione, i materiali edili, ma anche nomi e percorsi delle condutture idriche, l'ubicazione delle sorgenti e molto altro. Dalla prosa ricca di tecnicismi di Frontino traspare la consapevolezza e l'orgoglio che porta lo scrittore, cives romanus, a compiacersi della mole degli acquedotti, sostenuti per chilometri da imponenti arcate, e a sorridere, con un certo disprezzo, delle piramidi egiziane ed ai templi greci, opere famose ma inutili. Dietro la costruzione di un acquedotto stanno tutta una serie di problematiche, che gli ingegneri Romani hanno saputo perfettamente risolvere. Per esempio la forza motrice dell'acqua. L'acqua non si sposta da sola! E' necessario un "motore", e i Romani ne trovarono uno veramente "autonomo" cioè la forza di gravità. Gli ingegneri avevano intuito che sarebbe stato sufficiente dare una certa pendenza all'acquedotto e mantenerla per tutto il tragitto, e poi la forza di gravità avrebbe fatto tutto il resto, così capirono che un'inclinazione del 25%, in media un metro di pendenza ogni chilometro, avrebbe fatto scorrere l'acqua senza problemi fino alla città. Era inoltre necessario saper scegliere la sorgente giusta, in modo da fare defluire una giusta quantità d'acqua tutto l'anno senza periodi di secca e periodi di piena.
La struttura degli
acquedotti romani
sopraelevati.
Una volta scelta la sorgente adeguata, si stabiliva il percorso che l'aqueductus avrebbe compiuto per arrivare in città, per fare ciò si tracciava un profilo della geografia del terreno segnando coline e avvallamenti, pianure e corsi d'acqua. Per questo lavoro i tecnici adoperavano uno strumento di legno simile all'attuale livella, ma di dimensioni assai più grandi: il coròbate. Questo poteva dirsi in esatta posizione orizzontale quando i fili a piombo attaccati al suo ripiano di legno pendevano parallelamente alle gambe e quando l'acqua che colmava una vaschetta scavata sul ripiano non debordava. guardando attraverso il coròbate i tipografi potevano tracciare un'immaginaria linea orizzontale che seguiva tutto il percorso dell'acquedotto e segnare su questa linea, a intervalli di 10 metri, le distanze verticali tra essa e il terreno. Unendo tutti i segni presi con una linea si otteneva il vero profilo del terreno e gli ingegneri stabilivano se appoggiare le condotte al livello del suolo, se farle passare sotto, oppure elevarle di alcuni metri. A questo punto si procedeva alla sua edificazione. Spesso per la necessità di mantenere una pendenza costante le condotte facevano percorsi molto lunghi con molte curve, e non andavano mai in linea retta, in tal modo l'acqua defluiva senza problemi fino alla "foce artificiale", che quasi sempre era costituita da una grossa cisterna. 
Il percorso dell'acquedotto era per la maggior parte interrato o talvolta scavato sotto colline e montagne; in questo caso la condotta era formata solo da una struttura di laterizio parallelepipeidale impermeabilizzata e areata con dei pozzetti posti ogni 20-30 metri, usati anche per la manutenzione periodica. Solo talvolta la conduttura doveva superare fiumi o pianure  ed era quindi necessario costruire una struttura di sostegno (aquae pensiles). Uno degli esempi più famosi è il ponte-acquedotto sul fiume Gard nell'attuale Francia, che riforniva la città di Nemasus l'odierna Nimes. La realizzazione iniziava con l'edificazione delle fondamenta dei pilastri: se passavano sulla terra si scavava una buca profonda vari metri e si costruiva una solida base a tronco di piramide con grossi blocchi di pietra. Se invece si trattava di un fiume era necessario preparare un recinto di legno impermeabilizzato con la pece tutto intorno all'area della costruzione di ogni singolo pilastro: in tal modo si poteva asportare prima l'acqua, poi la fanghiglia e la ghiaia per poter edificare una solida base di grossi blocchi di pietra. Fatto ciò iniziava la costruzione dei piloni veri e propri. Questi potevano essere sia di pietra che di laterizio, e venivano sovrapposti tra loro alternati e uniti con malta. Solo a questo punto si univano i pilastri con gli archi i quali si costruivano utilizzando delle strutture di sostegno di legno dette centine che permettevano la collocazione dei conci fino alla chiusura della "chiave di volta". Costruita la prima arcata si procedeva all'edificazione delle altre arcate che poggiavano sempre sugli stessi pilastri, all'ultimo piano sorgeva in laterizio la vera e propria condotta dell'acquedotto. Una città come Roma con il suo milione e mezzo di abitanti doveva essere ben rifornita di acqua, anche perché questa non serviva solo direttamente ai suoi Cittadini ma anche ai complessi termali, i quali sembra consumassero molta acqua. Roma si avvaleva di undici acquedotti costruiti in varie epoche a partire dal II sec. a.C. e che rimasero sempre tutti in funzione, e che nel complesso portavano nell'Urbe oltre un milione di metri cubi di acqua al giorno.
I. Aqua Appia - Fu il primo acquedotto di Roma, edificato nel 312 a.C. dal Console Appio Claudio, lo stesso che fece costruire la Via Appia. Le sorgenti sono situate sulla via Collatina ed è lungo ben 16 Km, anche se il suo percorso è quasi del tutto sotterraneo, e giungeva fino al foro boario.
II. Aqua Ania o Anio Vetus - Lungo oltre 63 km, prende il suo nome dalla valle dell'Aniene presso Tivoli, le sue acque giungevano fino alle Terme di Diocleziano, mentre una ramificazione secondaria giungeva erogava l'acqua necessaria alle terme di Caracalla.
III. Acqua Marcia - Il nome deriva dal Pretore M. R. Marcius, e fu edificato nel 114 a.C. La sorgente era situata presso Marano Equo
IV. Acqua Tepula - Costruito nel 126 a.C. prendeva le acque dalla Valle Preziosa scorrendo esclusivamente in condotte sotterranee. Il suo nome deriva dl fatto che la temperatura dell'acqua rimaneva sempre sui 18 gradi circa.
V. Acqua Iiulia - Edificato nel 33 a.C. da Marco Vipsanio Agrippa, convogliava le acque dalle sorgenti nelle vicinanze di Grottaferrata.
VI. Acqua Vergine - Fu costruito sempre da Agrippa verso il 19 a.C. convogliando le acque ubicate presso la tenuta della Rustica. E' tuttora perfettamente funzionate.
Alcune derivazioni dall'acquedotto giungevano presso il Campidoglio e Trastevere.
VII. Aqua Augusta - Costruito per volere dell'Imperatore Augusto nel 2 d.C., serviva a portare l'acqua a Trastevere ove si tenevano le naumachie (o battaglie navali) in un lago artificiale.
VIII. Aqua Claudia - Iniziato dall'Imperatore Claudio nel 38 d.C. ma terminato da Caligola è uno dei più imponenti. Le sue sorgenti erano ubicate presso la Valle dell'Aniene, e portava le sue acque fino a Porta Maggiore ove una diramazione giungeva presso il Palazzo e riforniva l' area circostante al Colle Palatino.
IX. Aqua Ania Nova o Anio Novus - Costruito per volere di Caligola ma terminato dall'Imperatore Claudio nel 52 d.C. circa prendeva l'acqua dal Fiume Aniene, con la sua lunghezza di oltre 84 Km è l'aquedotto più grande del mondo.
X. Aqua Traiana - Voluto dall'Imperatore Traiano nel 109 d.C. circa convogliava le acque del lago Sabatino nella zona di Trastevere.
XI. Aqua S. Severa - Fu edificato dall'Imperatore Settimio Severo nel 226 d.C.

I Romani inventano tra le altre cose la calcee una variante di essa detta idrica poiché resisteva all'acqua ed era utilizzata nelle cisterne o negli acquedotti appunto per impermeabilizzare, è tuttora utilizzata.
Con questa invenzione rivoluzionarono le tecniche costruttive utilizzate fino a quel momento, che prevedevano l'utilizzo di blocchi di pietra sovrapposti a incastro, per utilizzare invece mattoni di terracotta e calce, a cui era mischiata la pozzolana, una calce lavica di origine vulcanica che conferiva estrema durezza e resistenza al calcestruzzo così ottenuto. Inoltre, con la tecnica degli archi, poco materiale poteva sostenere grandi pesi e giungere a grandi altezze. In quei tempi le case di Roma avevano diversi piani, generalmente così non era per le altre città.

Balista romana.
La consapevolezza dei Romani di determinare il proprio destino, si rifletteva anche nella guerra e anche lì, l'ingegneria aveva un ruolo di rilievo.
Due episodi e almeno un'opera meritano di essere ricordati: i ponti fatti costruire da Gaio Giulio Cesare sul Reno germanico, la costruzione del Pantheon e la rampa fatta costruire da Lucio Flavio Silva nell'assedio di Masada.

Le legioni , per necessità militari, ebbero modo di costruire eccellenti infrastrutture, come strade, acquedotti, fortificazioni e ponti.

Gli Ubi (in latino Ubii) erano un'antica popolazione germanica che aveva abitato, fino al 38 a.C., la sponda destra del fiume Reno nei territori di fronte all'attuale città di Koeln (Colonia), territori che confinavano a sud con quelli dei Suebi, di cui gli Ubi dovettero diventare tributari. Appartenenti, secondo Tacito, agli Istaevones (i Germani occidentali), confinavano, nella Gallia al di là del Reno, con i Treveri, anch'esso popolo originariamente germanico. Nel 55 a.C., Giulio Cesare, poco prima di oltrepassare il Reno e compiere la prima incursione romana in territorio germanico, descriveva così questo popolo: 

«...gli Ubi, nazione che in passato fu potente e florida... È un poco più civilizzata degli altri popoli proprio perché in prossimità del fiume Reno, e sono spesso visitati dai mercanti e questa vicinanza li fa assomigliare agli usi e costumi dei vicini Galli... ed i vicini Suebi, non avendo potuto cacciarli, malgrado ci avessero provato in passato con molte guerre, proprio per l'importanza e potenza di questa nazione, li sottomisero a sé come tributari, facendoli diventare meno importanti e più deboli...» (Cesare, De bello Gallico, IV, 3, 3-4).

Ricostruzione del ponte sul Reno fatto costruire
da Gaio Giulio Cesare, tela di John Soane del 1814,
da https://it.wikipedia.org/wiki/Ponte_di_Cesare_sul_
Reno#/media/File:Il_ponte_di_Cesare_sul_Reno.jpg
Nel 55 a.C. quindi, per rispondere alla richiesta di soccorso dei nuovi alleati Ubi e punire i loro oppressori, Cesare si decide ad attraversare  il Reno ed entrare in Germania tramite la costruzione di un ponte di legno che accedesse ai territori degli alleati Ubi, in una località identificata con Neuwied, 15 km a nord di Coblenza, per attuare un'azione dimostrativa che intimorisse e scoraggiasse definitivamente i propositi di tribù germaniche a stanziarsi in futuro nelle Gallie e/o di fornire truppe mercenarie ai Galli, intromettendosi fra le loro vicende e Roma. Il fiume Reno si presentava allora particolarmente largo e profondo, inoltre la rapidità delle sue acque richiedeva una struttura molto solida per un ponte. Per questo motivo furono utilizzati come sostegni dei cavalletti a due gambe, di cui ciascuna costituita da due pali molto robusti (con un diametro di 45 cm) ricavati da robusti tronchi, uniti tra loro da traverse lunghe circa 60 cm. Questa struttura diede a ciascuna gamba l'aspetto di una scala a pioli, ma essa si opponeva efficacemente alla corrente del fiume. 

I pali avevano lunghezza variabile a seconda della profondità del fiume e furono calati nel fiume con apposite attrezzature, quindi messi in posizione e infissi con dei battipali. La parte che veniva appuntita veniva conficcata nel fondo del fiume e non si innalzavano perpendicolarmente al letto, ma venivano inclinati in modo che i pali a monte avessero la corrente contro, mentre quelli a valle l'avessero a favore. Una grossa trave teneva unita la coppia di piloni, completando il cavalletto. Su questa struttura poggiavano travi spesse 60 cm e lunghe quanto la distanza che vi era tra un pilone e l'altro, cioè 5 m. 
La pavimentazione era costituita di un’intelaiatura di legno poggiata su tronchi trasversali e ricoperta di tavole. Alla solidità bisognava affiancare l'elasticità, per cui non vennero utilizzati chiodi, ma legature in corda. Vennero anche approntate altre opere di rinforzo secondarie: a valle furono fissati altri pali obliqui per aumentare la resistenza alla corrente del ponte, mentre poco più a monte vennero costruite delle palizzate per attutire eventuali colpi subiti da alberi o navi che le popolazioni germaniche potevano lasciare nel fiume in modo da danneggiare il ponte. Il ponte doveva avere una carreggiata di circa 4 m ed era lungo poco meno di 500 m., con 56 campate di 8 m. che costituivano il ponte sul Reno. L'opera, secondo Cesare, fu completata in soli dieci giorni. Approntato il lungo ponte di legno sul Reno, Cesare lo attraversò con le sue truppe (composte da 8 legioni di 5/6.000 armati ciascuna) e si accamparono presso i nuovi alleati Ubi, poi per 18 giorni operarono una serie di devastazioni nei vicini territori dei Sigambri (che in seguito costituirono la confederazione dei Franchi) e dei Suebi (che in seguito costituirono la confederazione degli Alemanni o Alamanni), per fargli intendere di lasciare in pace gli Ubi, nuovi alleati di Roma. Terrorizzati a sufficienza i Germani, Gaio Giulio Cesare decise di far ritorno in Gallia, distruggendo il ponte alle proprie spalle per non lasciare facile accesso alla Gallia e fissando il confine della Gallia assoggettata alla Repubblica romana, sul Reno. (Gaio Giulio Cesare, De bello Gallico, IV, 16, 2; 18, 2; 19, 4 e Cassio Dione, Storia romana, XXXIX, 48).

ponti sul Reno, fatti costruire da Gaio Giulio Cesare dai propri legionari nel corso delle campagne condotte per la conquista delle Gallie, sono stati due.

Al primo ponte costruito nel 55 a.C. ne seguì un secondo, costruito due anni più tardi, nel 53 a.C., poco più a monte (2 km circa) del primo, in una località compresa tra Urmitz e Weissenturm, ancora una volta di fronte alla sponda germanica abitata dagli Ubi, i primi germanici ad allearsi con Cesare.

Cesare ha lasciato scritto che nel 53 a.C. il suo legato, Quinto Tullio Cicerone, a capo di 7 coorti legionarie della legio XIV, era stato sconfitto presso Atuatuca, capitale degli Eburoni (l'attuale Tengeren, nel Belgio fiammingo) da 2.000 guerrieri dei Germani Sigambri.
In compenso, venuto a sapere del nuovo successo ottenuto dal suo legato Tito Labieno sui Treveri (popolazioni germaniche insediate in Gallia), decide di passare per la seconda volta il Reno, costruendovi un secondo ponte con la stessa tecnica del primo (il secondo ponte fu costruito 2 km circa a monte del primo), in una località compresa tra Urmitz e Weissenturm, nei pressi di Coblenza, ancora una volta di fronte alla sponda germanica abitata dagli alleati Ubi).
motivi che lo spinsero a prendere questa decisione erano due:
1. i Germani avevano mandato in Gallia aiuti ai Treveri contro i Romani,
2. Cesare temeva anche che Ambiorige degli Eburoni potesse trovarvi rifugio.
« Stabilito ciò, decise di costruire un ponte un poco più a monte del luogo dove aveva attraversato il fiume la volta precedente [...] dopo aver lasciato un forte presidio a capo del ponte nel territorio dei Treveri, per impedire che si sollevassero di nuovo [...] portò sulla sponda germanica le altre legioni e la cavalleria. Gli Ubi, che in passato avevano consegnato ostaggi e riconosciuto l'autorità romana, per allontanare da loro possibili sospetti, mandarono a Cesare degli ambasciatori [...] non avevano infatti né inviato aiuti ai Treveri, né avevano violato i patti [...] Cesare scoprì infatti che gli aiuti erano stati inviati dai Suebi [...] Accetta pertanto le spiegazioni degli Ubi e si informa sulle vie da seguire per giungere nel paese dei Suebi. » (Cesare, De bello Gallico, VI, 9).
Ma i Suebi, che ormai conoscevano le gesta militari del generale romano, decisero di ritirarsi nell'interno ed aspettare, in luoghi remoti e difesi dalle insidie delle fitte foreste e delle pericolose paludi, il possibile arrivo di Cesare. L'inverno stava ormai avanzando e non c'era tempo di condurre una nuova campagna in quelle terre così selvagge per cui Cesare, tenendo conto che il suo obiettivo principale era il controllo della Gallia e considerando anche la difficoltà degli approvvigionamenti di frumento in un territorio tanto selvaggio, decise di tornare indietro. « Cesare per lasciare ai barbari il timore di un suo ritorno [...] una volta ricondotto l'esercito in Gallia, fece tagliare solo l'ultima parte del ponte per una lunghezza di circa 200 piedi (60 metri N.d.R.) ed all'estremità fece costruire una torre di quattro piani, oltre ad una fortificazione imponente munita di ben 12 coorti (di circa 600 uomini ciascuna N.d.R.), assegnando il comando al giovane Gaio Vulcacio Tullo » (Cesare, De bello Gallico, VI, 29), affinché i Germani non dimenticassero che in qualunque momento gli eserciti romani avrebbero potuto marciare contro di loro.

Nel 27 a.C. inizia la costruzione del Pantheon, il tempio dedicato al culto di tutti gli dei (Pan= tutti Theon=divinità) che sorge in piazza della rotonda, vicino a piazza Minerva. Concepito come Augusteum, ossia come luogo sacro dedicato al divinizzato imperatore Augusto, poi come Tempio di tutte le divinità protettrici della sua stirpe, fu fatto costruire dal genero dello stesso Augusto, il console Agrippa, nel 27 a.C. 
Il Pantheon visto dall'alto.
Danneggiato nell’incendio di Roma dell’80 d.C., fu restaurato da Domiziano ed è giunto a noi quasi integro nella ricostruzione eseguita da Adriano nel 130 d.C. Quasi tutto quello che vi si può ammirare risale all'epoca romana. 
La cupola, tuttora la più grande mai realizzata in muratura, è costruita in un conglomerato particolarmente leggero formato da malta e da scaglie di travertino, sostituite man mano che si sale, da lapilli (pozzolana vulcanica) e pietra pomice, alta 43,4 metri, dove la luce filtra attraverso l’oculus, l’apertura circolare larga 9 m. sulla sommità della cupola stessa, illuminando l’intero edificio. In caso di pioggia l’acqua che cade giù sparisce nei 22 fori quasi invisibili del pavimento, anche se nell'antichità probabilmente la pioggia veniva deviata dalle forti correnti ascensionali dovute alle torce accese all'interno. 
Interno del Pantheon.
La massiccia porta di bronzo risale all'età romana, così come l'esterno, iscrizione compresa, del 27 a.C.
Il porticato all'interno è decorato da pregiati marmi policromi e presenta nella facciata 16 colonne monolitiche, alte ben 14 metri, di granito grigio e rosa dotate di capitelli corinzi in marmo e coronato da un frontone con timpano, originariamente decorato da un fregio di bronzo. Di bronzo era coperto anche il soffitto del porticato, ma tale rivestimento fu rimosso nel 1625 per volontà di Urbano VIII Barberini quindi utilizzato dal Bernini per realizzare il Baldacchino in San Pietro. L'interno presenta una pianta circolare caratterizzato dalla maestosità della cupola a cassettoni. L'unica apertura è al centro della cupola e crea un effetto luminoso che esalta la grandiosità e l'armonia del monumento.
Nel 609 il tempio fu donato dall'imperatore Foca a papa Bonifacio IV e fu trasformato in chiesa, dedicata a Santa Maria dei Martiri, cosa che favorì la sua ottima conservazione fino ai giorni nostri. Dopo il 1870, demoliti i due campaniletti laterali, le cosiddette “orecchie d’asino”, fatti realizzare da Urbano VIII al Bernini, il Pantheon venne trasformato nel sacrario dei re d’Italia, e accolse le spoglie di Vittorio Emanuele II, Umberto I e Margherita di Savoia, le cui tombe si affiancarono a quelle di Baldassarre Peruzzi e di Taddeo Zuccari e, in special modo, il sepolcro di Raffaello Sanzio ad ornamento del quale si trova la famosa Madonna del Sasso, realizzata da Lorenzetto nel 1520, su commissione dello stesso Raffaello. Nelle cappelle dell'interno si trovano distribuite numerose opere d'arte.

Carta dell'antica Giudea con indicata
Masada. Clicca per ingrandire.
L'assedio di Masada (o Massada, o in ebraico Metzada) è stato l'episodio che concluse la prima guerra giudaica, nel 73. Nel 66, Masada era stata conquistata da un migliaio di Sicarii che vi si insediarono con donne e bambini; quattro anni dopo (nel 70), una volta caduta Gerusalemme, vi trovarono rifugio gli ultimi strenui ribelli zeloti non ancora disposti a darsi per vinti. L'esercito romano, guidato da Lucio Flavio Silva, affrontò in un arduo assedio questo nutrito gruppo di ribelli, che si erano arroccati in questa fortezza, considerata inespugnabile a cagione delle avversità che presentava il luogo nei confronti degli assedianti. Nonostante ciò i Romani conquistarono la cittadella.
Vista aerea di Masada. "Aerial
 view of Masada (Israel) 01"
di Godot13 - Opera propria.
 Con licenza CC BY-SA 3.0
tramite Wikimedia Commons
http://commons.wikimedia
.org/wiki/ File%3AAerial_

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Dopo aver circondato la fortezza con una linea di circonvallazione, come solo i Romani erano in grado di fare, facendo in modo che nessuno potesse fuggire, il comandante romano diede inizio alle operazioni di assedio, nell'unico posto dove era possibile elevare una rampa d'assedio. E se gli assediati potevano disporre all'interno della fortezza di ingenti riserve di acqua e viveri, gli assedianti, che si trovano in una pianura arida, furono costretti a ricevere ogni giorno approvvigionamenti per 16 tonnellate di viveri e 19.000 litri di acqua, portati complessivamente da circa 400 asini.
Alle spalle della torre che dominava il sentiero che ad occidente s'inerpicava verso la reggia, si trovava una grossa prominenza rocciosa, sufficientemente larga, che andava sviluppandosi in altezza fino a 300 cubiti (133 metri circa) sotto il livello delle mura di Masada. Questa rampa naturale era chiamata "Bianca". Lucio Flavio Silva dispose di occuparla e ordinò all'esercito di costruirvi sopra un terrapieno.
La rampa d'assedio vista di lato,
 dall'alto di Masada.
"Rampe massada1" di Posi66
 dal de.wikipedia.org. 
Con licenza CC BY-SA 3.0
tramite Wikimedia Commons
 I legionari romani, presi da grande ardore, cominciarono ad elevarvi un solido terrapieno dell'altezza di duecento cubiti (89 metri circa) per colmare il disavanzo di 133 metri con la fortezza che li sovrastava.
Torre mobile Romana
E poiché non fu giudicato sufficientemente stabile ed alto per piazzarvi le macchine d'assedio, venne costruita sopra un'ulteriore piattaforma di grossi blocchi uniti insieme, dell'altezza e larghezza di ulteriori cinquanta cubiti (22 metri circa).
In sostanza si erano andati a colmare 111 metri dei 133 di dislivello. Ne mancavano ancora una ventina. Si provvide, pertanto, a costruire macchine simili a quelle realizzate da Vespasiano e Tito per i loro precedenti assedi oltre ad una gigantesca torre d'assedio, alta sessanta cubiti (quasi 27 metri), tutta ricoperta di ferro, dall'alto della quale i Romani, poterono tirare sugli assediati, grazie ad un gran numero di catapulte e baliste, in modo da ottenere che i difensori si allontanassero da quel tratto di mura. 
Catapulta dei Romani.
Contemporaneamente Flavio Silva, costruì anche un grosso ariete e dispose di battere continuamente il muro, fino quando non lo fece crollare dopo lunghi sforzi. 
I sicarii però, erano riusciti a costruire un altro muro, più interno, che per evitare che potesse fare la fine del precedente, risultò più morbido, capace di smorzare la violenza dei colpi. 
Il muro risultava costruito nel seguente modo:
- vennero prima di tutto congiunte fra loro alle estremità delle grosse travi, ciascuna attaccata all'altra nel senso della lunghezza;
- disposero verticalmente queste strutture, a due a due, l'una di fronte all'altra, la cui distanza fosse pari allo spessore di un muro, all'interno del quale gettarono della terra per riempirlo;
Ariete degli antichi Romani
- per evitare che nell'intercapedine la terra si sollevasse e fuoriuscisse, congiunsero quelle disposte per lungo con altre trasversali.
Esse sembravano perciò un'opera in muratura, ma i colpi giungendo sul morbido erano smorzati nel loro impatto e facevano sì che la terra si compattasse sempre più. A questo punto Flavio Silva ritenne più opportuno che si procedesse con il fuoco, e ordinò ai suoi soldati di lanciare contro il muro fatto di travi di legno, fiaccole accese. Il muro prese così subito fuoco e, incendiandosi, sprigionò una gigantesca fiammata. Inizialmente il vento cominciò a soffiare dal nord contro i Romani, terrorizzandoli, ma all'improvviso il vento prese a spirare dal sud e spinse le fiamme contro il muro della fortezza di Masada avvolgendolo con le fiamme. I Romani allora tornarono nell'accampamento, in attesa di scatenare l'attacco decisivo contro i nemici il giorno seguente, quando il muro fosse stato completamente distrutto. Quando i Romani conquistarono finalmente la cittadella, vi trovarono i cadaveri di quasi tutti gli assediati: piuttosto che perdere la libertà, avevano preferito perdere la vita. 

Anche in alcune filosofie antiche si rifletteva la consapevolezza di essere gli artefici del proprio destino e si esaltavano gli aspetti positivi dell'esistenza.

Nel 306 a.C., nel Liceo di Atene, Epicuro fonda la sua scuola filosofica, il Giardino.
Epicuro
Si vide sorgere in Atene, oltre all'Accademia e al Liceo, un'altra scuola filosofica, il Giardino, fondata da Epicuro.
Epicuro (in greco: Ἐπίκουρος, Epìkouros) (Samo, 341 a.C. - Atene, 271 a.C.) è stato un filosofo greco antico, discepolo di Nausifane e fondatore di una delle maggiori scuole filosofiche dell'età ellenistica e romana, l'epicureismo, che si diffuse dal IV secolo a.C. fino al II secolo d.C., quando, avversato dai Padri della Chiesa, subì un rapido declino, per essere poi rivalutato secoli dopo dall'Umanesimo del Rinascimento e dall'Illuminismo. Nato sull'isola di Samo, figlio di un maestro di scuola e di una maga, fu chiamato Epicuro (che significa "soccorritore") in onore di Apollo (questo era uno degli epiteti del dio). Frequentò la scuola di Pamfilo seguace del pensiero platonico, e successivamente quella del democriteo Nausifane a Teo, località sulle coste dell'Asia Minore. All'età di 32 anni fondò la sua scuola prima a Mitilene e a Lampsaco ed infine ad Atene nel 306. La scuola era dotata di un giardino dove i discepoli, tra i quali anche donne, come la famosa etera Leonzia e persino schiavi, seguivano le lezioni del maestro. Sebbene fosse assertore della non partecipazione alla vita sociale e politica sostenne il governo macedone.
La filosofia della scuola del "giardino" era in polemica con le dottrine socratiche e platoniche, con l'aristotelismo ma anche con le scuole minori come i cinici, i megarici, i cirenaici e con lo stoicismo, l'altra grande scuola ellenistica, che stava iniziando a diffondersi proprio in quel periodo. Epicuro morì ad Atene di calcoli renali, all'età di 70 anni circa. Per Epicuro la filosofia ha in primo luogo una funzione terapeutica : "Vana è la parola del filosofo se non allevia qualche sofferenza umana", egli diceva . Una delle metafore da lui preferite per indicare l'obiettivo della vita filosofica é la quiete del mare dopo la tempesta , ma questa situazione di quiete é minacciata e impedita dalle credenze infondate che sovente si generano in noi e procurano ansie e timori: l' uomo che vive con animo sereno é paragonato a coloro che, al sicuro sulla terraferma, osservano distaccati il mare in tempesta, l'altrui pericolo. La filosofia deve dunque liberarci da queste credenze e condurci in un porto sicuro senza turbamenti. Di Epicuro ci restano tre epistole dottrinali complete riportate da Diogene Laerzio, due raccolte di aforismi, e alcuni frammenti.
“Non si è mai troppo giovani o troppo vecchi per la conoscenza della felicità. A qualsiasi età è bello occuparsi del benessere dell'anima. Chi sostiene che non è ancora giunto il momento di dedicarsi alla conoscenza di essa, o che ormai è troppo tardi, è come se andasse dicendo che non è ancora il momento di essere felice, o che ormai è passata l'età. Da giovani come da vecchi è giusto che noi ci dedichiamo a conoscere la felicità. Per sentirci sempre giovani quando saremo avanti con gli anni in virtù del grato ricordo della felicità avuta in passato, e da giovani, irrobustiti in essa, per prepararci a non temere l'avvenire. Cerchiamo di conoscere allora le cose che fanno la felicità, perché quando essa c'è tutto abbiamo, altrimenti tutto facciamo per averla.” scriveva in una lettera. Epicuro riprende nella fisica la teoria atomistica di Democrito e Leucippo. Quest'ultimo, secondo le affermazioni di Epicuro riportate da Diogene Laerzio, non sarebbe mai esistito, ma viene clamorosamente smentito dai suoi stessi allievi in ambito campano. Nei Papiri Ercolanensi infatti (Vol. Herc. coll. alt. VIII 58-62 fr. 1), si parla di Leucippo e gli si attribuisce la Grande cosmologia negandola a Democrito, che se ne sarebbe presa arbitrariamente la paternità. La novità introdotta da Epicuro rispetto a Leucippo sta però nel fatto che egli non considera più la forma degli atomi ma il loro peso. Questi atomi, infiniti di numero, eternamente si muovono in un vuoto a sua volta infinito. Epicuro inoltre introduce nella sua teoria il fenomeno della deviazione (parenklisis, declinazione, inclinazione) casuale che interviene nella caduta in verticale (Lettera ad Erodoto, 43) degli atomi determinandone così collisioni in base alle quali gli atomi si aggregano originando i corpi estesi. Mentre Democrito vedeva il moto degli atomi come vorticoso, per Epicuro esso si verifica per il peso degli atomi verticalmente, una sorta di pioggia di atomi sulla quale può intervenire una deviazione che interrompe il fenomeno naturale che si stava formando dando luogo ad un altro diverso effetto. Nella causalità meccanica e deterministica della natura Epicuro salva così l'elemento della casualità nella formazione degli eventi naturali. Nell'etica Epicuro riprende concettualmente l'edonismo dei Cirenaici, ma mentre per questi il piacere è dinamico (ricerca del piacere) per Epicuro è statico (eliminazione del dolore), assicurando così la salute dell'anima. Un'anima che: "è una sostanza corporea composta di sottili particelle" cioè di atomi molto mobili. Grazie a questa concezione egli libera l'uomo dalla paura della morte poiché quando questa si verifica il corpo, e con esso l'anima, ha già cessato di esistere e quindi cessa anche di provare sensazioni. Per questo motivo sarebbe stolto temere la morte come causa di sofferenza in quanto la morte è privazione di sensazioni. Inoltre egli affronta anche la questione degli dei che, secondo Epicuro, non si occupano dell'uomo in quanto vivono negli intermundia, cioè in spazi situati fra gli infiniti mondi reali, e del tutto separati da questi; essi perciò non hanno esperienza dell'uomo. Affronta quindi la questione del male rispetto agli dei e procede per gradi:
- Gli dei non vogliono il male ma non possono evitarlo (gli dei risulterebbero buoni ma impotenti, non è possibile).
- Gli dei possono evitare il male ma non vogliono (gli dei risulterebbero cattivi, non è possibile).
- Gli dei non possono e non vogliono evitare il male (gli dei sarebbero cattivi e impotenti, non è possibile).
- Gli dei possono e vogliono; ma poiché il male esiste allora gli dei esistono ma non si interessano dell'uomo.
Questa è la conclusione che Epicuro considera vera: gli dèi sono indifferenti alle vicende umane e si chiudono nella loro perfezione.
Tali considerazioni di tipo fisico, cosmologico e teologico spingono Epicuro a considerare la felicità come coincidente con l'assenza di paure e timori che condizionano l'esistenza in modo negativo. Ritiene inoltre che il male derivi dai desideri che, se non appagati, generano insoddisfazione e quindi dolore. Questi possono essere artificiali e naturali (necessari e non necessari). È inoltre doveroso aggiungere che il motivo per cui Epicuro afferma che gli dèi si disinteressino dell'uomo è che essi, nella loro beatitudine e perfezione, non hanno bisogno di occuparsi degli uomini. Affermare che per gli dei sia necessario occuparsi di qualcosa, in questo caso degli uomini, significherebbe dare un limite al potere immenso degli dei, che, invece, non hanno bisogno di interessarsi della vita terrena. Epicuro ritiene che la filosofia debba diventare lo strumento, il mezzo, teorico e pratico, per raggiungere la felicità liberandosi da ogni passione irrequieta. Propone quindi un "quadrifarmaco", capace di liberare l'uomo dalle sue quattro paure fondamentali:
- Paura degli dei e della vita dopo la morte: Gli dei sono perfetti quindi, per non contaminare la loro natura divina, non si interessano delle faccende degli uomini mortali e non impartiscono loro premi o castighi.
- Paura della morte: Quando noi ci siamo ella non c'è, quando lei c'è noi non ci siamo più
- Mancanza del piacere: Esso è facilmente raggiungibile seguendo il calcolo epicureo dei bisogni da soddisfare
- Dolore fisico: Se il male è lieve, il dolore fisico è sopportabile, e non è mai tale da offuscare la gioia dell'animo; se è acuto, passa presto; se è acutissimo, conduce presto alla morte, la quale non è che assoluta insensibilità. E i mali dell'anima? Essi sono prodotti dalle opinioni fallaci e dagli errori della mente, contro i quali c'è la filosofia e la saggezza. Il pensiero scientifico di Epicuro presenta molti aspetti che ricordano il pensiero scientifico moderno, la cui nascita viene tradizionalmente fatta risalire a Galileo Galilei. Come prima cosa nella Lettera ad Erodoto, Epicuro sottolinea come sia importante avere un modello di riferimento, una teoria, diremmo oggi, nella quale inquadrare i fenomeni studiati, e questo è possibile solo se si "riduce il complesso della dottrina in elementi e definizioni semplici". Egli chiama questo metodo di ricerca, preliminare alla ricerca stessa, canonica, ovvero studio del canone. Il concetto di modello è effettivamente ciò che ha reso potente la scienza moderna, modello come qualcosa che si usa per spiegare la realtà, ma che non è la realtà: cioè un fenomeno può essere spiegato da un modello, ma non è il modello, anzi, un fenomeno può anche essere spiegato con modelli diversi, la cosa importante è che i diversi modelli siano in accordo con i dati sperimentali. Dice Epicuro nella Lettera a Pitocle: "non bisogna infatti ragionare sulla natura per enunciati privi di riscontro oggettivo e formulazione di principi teorici, ma in base a ciò che l'esperienza sensibile richiede": la base della scienza sperimentale. 

Dal 301 a.C. inizia l'Età ellenistica, periodo che va dalla morte di Alessandro Magno fino alla riduzione della Grecia a provincia romana, nel 146 a.C.
Si ha una grande fioritura culturale, con filosofi come Epicuro e Zenone e paleo-scienziati come Euclide, Archimede, Apollonio di Perga, Aristarco di Samo, Eratostene, Ipparco, Erone. Poeti come Callimaco, Apollonio Rodio e Teocrito.

Nel 300 a.C. ad Atene, Zenone di Cizio fonda la sua Scuola Stoica.
Zenone di Cizio
Quella dello stoicismo è una corrente filosofica e spirituale fondata intorno al 300 a.C. ad Atene da Zenone di Cizio (335 - 263 a.C.), con un forte orientamento etico. Lo stoicismo prende il nome dalla Stoà Pecile: la Stoà Pecile (in greco ἡ ποικίλη στοά) o Portico dipinto, originariamente chiamata «Portico di Peisianatte», fu eretta nella prima metà del V secolo a.C. nell'agorà di Atene, e Zenone di Cizio era solito esporre e discutere le proprie idee con i suoi discepoli sotto tale portico dipinto.
Lo stoicismo propone un percorso individuale da cui scaturisce la capacità del saggio di disfarsi delle idee e dei condizionamenti che la società in cui vive gli ha impresso. Lo stoico tuttavia non disprezza la compagnia degli altri uomini e l'aiuto ai più bisognosi è una pratica raccomandata. La fase originaria di tale scuola di pensiero è detta Stoicismo antico. Lo stoicismo fu abbracciato da numerosi filosofi e uomini di stato, sia greci che romani, fondendosi presso quest'ultimi con le tradizionali virtù romane di dignità e portamento. Il disprezzo per le ricchezze e la gloria mondana la resero una filosofia adottata sia da imperatori (come Marco Aurelio, autore dei Colloqui con se stesso) che da schiavi (come il liberto Epitteto). Cleante, Crisippo, Seneca, Catone, Anneo Cornuto e Persio furono importanti personalità della scuola stoica, alla quale si ispirò anche Cicerone. A partire dall'introduzione di questa dottrina a Roma da parte di Panezio di Rodi, ha inizio il periodo dello Stoicismo medio. Si differenzia dal precedente per il suo carattere eclettico, in quanto influenzato sia dal platonismo che dall'aristotelismo e dall'epicureismo.
Infine, abbiamo il cosiddetto Stoicismo nuovo o romano, che abbandona la tendenza eclettica cercando di tornare alle origini.

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